venerdì 7 luglio 2017

Sunset 4. Senza Capelli Pazzi


Il giorno dopo andò meglio. Quando uscii di casa, malgrado le nuvole dense e opache, ancora non pioveva ed ero più rilassata perché sapevo cosa aspettarmi durante la giornata.
Mike si sedette accanto a me durante la lezione di inglese e parlammo scrivendo con la matita sul bordo del quaderno, cancellando poi la frase dopo che l'altro l'aveva letta: somigliava ad una specie di comunicazione ad sms analogico. Gli chiesi informazioni su dove, a Forks, avrei potuto adottare un gatto e lui mi scrisse che c'era davvero un ottimo canile/gattile dove avrei potuto sceglierne uno e che se volevo mi ci avrebbe accompagnato.
Accettai di buon grado, anche se gli feci capire che probabilmente anche mio padre avrebbe voluto venire con noi per vedere l'animale.
Mike mi accompagnò anche alla lezione successiva, anche se mi parve che Eric fosse parecchio infastidito da questa cosa. Beh, avrebbe dovuto farci l'abitudine!
A pranzo mi sedetti al tavolo di una compagnia ciarliera e rumorosa, di certo molto più socievole di me, che includeva Mike, Eric, Jessica, Alexa e altri quattro ragazzi di cui ancora non ricordavo bene i nomi, che parlavano a ruota continua e a cui non sembrava importare che non fossi in grado di rispondere a tutti.
Quella notte avevo dormito benissimo, perciò ero piena di forze e di energia, quindi quando il professor Varner mi fece una domanda di trigonometria senza che io avessi alzato la mano, diedi miracolosamente la risposta giusta. Non ero certo un gran genio di tutta la roba che coinvolge la matematica, ma sembrava che le mie sinapsi fossero ben oliate quella mattina.
Mi toccò poi giocare a pallavolo e per sbaglio colpii sulla testa una mia compagna di squadra.
«Sono una frana» Ammisi, stringendomi nelle spalle, mentre i miei compagni ridevano «Scusa scusa scusa!»
«Non fa niente» la ragazza che era stata colpita si massaggiò il cuoio capelluto «Almeno non era la palla medica, quella si che avrebbe fatto male!».
La cosa più bella in assoluto, però, fu che Edward Cullen non si era presentato a scuola. Per tutta la mattina fui nervosa al pensiero di incontrare lui e i suoi sguardi bizzarri all'ora di pranzo. Una parte di me desiderava affrontarlo a muso duro (tanto avevo di sicuro più amici di lui), ma non avevo il fegato di alzarmi in piedi di fronte a tutta la sala mensa per andare al tavolo degli stramboidi che sembravano vampiri per mettermi a strillare contro Edward, perciò speravo soltanto di evitarlo.
Quando però entrai in sala mensa insieme a Jessica, notai che i quattro strani fratelli erano seduti al solito tavolo, a fare (o meglio a non fare niente) le stesse cose del giorno prima, e che lui non era con loro.
Mike ci intercettò e ci fece sedere al suo tavolo, ma questa parte l'ho già raccontata. Parlavamo tutti, tranquilli e sollevati.
Quando alla fine della pausa pranzo notai che capelli-pazzi non era ancora comparso, affrontai la lezione di biologia con più sicurezza e non inciampai da nessuna parte né mi distrassi per strane occhiate di furore. Mi rilassai e mi sedetti al tavolo, incrociando le gambe all'altezza delle ginocchia, in attesa di sapere cosa avremmo fatto quel giorno.
Mike mi seguì, parlando di un'imminente gita alla spiaggia
«Lo sai, vogliamo andare giù fino alla costa, con il gruppo... tu ci vorresti venire?»
«Altroché! Chiedo a papà se per lui va bene e sono con voi. Che fate in spiaggia?»
«Giochiamo a qualcosa, passeggiamo... e ci sono delle cose davvero sorprendenti! Non ti dico niente, altrimenti la sorpresa si rovina»
«E facciamo anche il bagno?»
«Se vuoi. Si, perché no? Non farà caldissimo, però se resisti ti puoi portare il costume da bagno» fece un gran sorriso. Era sfacciatamente amichevole e rimase a ronzare intorno al mio banco fino al suono della campanella.
Il tavolo rimase tutto per me con Edward assente e questo era un gran sollievo. Avevo il sospetto che il motivo della sua assenza fossi io, che poteva certamente sembrare un pensiero ridicolo ed egocentrico, eppure non riuscivo a togliermi dalla testa che fosse proprio così.
Infine, al termine della giornata, passai in un lampo dalla tuta ai jeans e alla felpa blu che sapeva di menta. Uscii di fretta dallo spogliatoio femminile, che sapeva di sudore e di deodoranti fruttosi, e incontrai Eric, che come al solito faceva il cagnolino appiccicoso, ma molto meno carino di un vero cucciolo e troppo invadente.
Cercai di parlargli il minimo indispensabile, poi salii sul pick-up e mi assicurai di avere tutto il necessario nello zaino.
La sera prima avevo scoperto che papà non sapeva cucinare granché, escluse uova fritte e pancetta, che non erano affatto il mio piatto preferito, perciò gli avevo chiesto di potermi occupare della cucina durante la mia permanenza a Forks. Fu tanto compiacente da cedermi il posto immediatamente e dire che lui non si sarebbe mai più curato del cibo, tranne che non avessi avuto impegni ovviamente. Scoprii anche che in casa non c'era quasi niente da mangiare, perciò avevo preparato una bella lista e preso un po' di contanti dal barattolo nella credenza con l'etichetta "soldini per la spesa".
Avevo i soldi con me, nello zaino, perciò mi diressi alla volta del supermercato.
Azionai la batteria di cannoni che avevo al posto del motore, ignorai tutte le teste che si voltarono e feci retromarcia, attenta ad infilarmi senza danni nella colonna di automobili che stavano uscendo dal parcheggio. Mentre aspettavo, cercando per quanto possibile di ignorare il rumore assordante del pick up, vidi i due Cullen e i due Hale salire sulla loro auto, comportandosi in modo piuttosto naturale rispetto a quando erano in sala mensa. Indovinate qual'era la loro macchina? Esatto, la Volvo tirata a lucido. Sapevo che erano dei viziati figli di papà, anche se erano adottati.
Non mi ero accorta fino a quel momento dei loro vestiti, non sono di quelle ragazze che fanno i raggi x all'abbigliamento di tutti quelli che incontrano, ma erano appariscenti nella loro sobrietà come lo sanno essere solo i capi fatti su misura o quelli fatti da bravi stilisti, perciò il loro guardaroba doveva costare un occhio della testa.
Normalmente non giudicavo le persone che avevano auto belle o vestiti belli, è normale amare ciò che è elegante, ma quella famiglia puzzava di snob da lontano un miglio, altrimenti come si spiegava che erano tutti ricoperti di cerone e pesantemente truccati? Era infatti ormai chiaro che, non soffrendo di alcun handicap o malattia, quello non era il loro aspetto naturale e dunque erano truccatissimi.
Sembrava un'esagerazione che quei ragazzi fossero sia belli (per quanto artificialmente) che ricchi. Eppure, per quel che ne sapevo, la maggior parte delle volte la vita andava così. Tuttavia pareva proprio che il denaro non gli avesse comprato la benevolenza di Forks e di questo ero grata: nessuno chiuderebbe la porta in faccia a tanta bellezza, se fosse stata accompagnata da altrettanta gentilezza, ma quelli erano degli stupidi e viziati figli di papà che non parlavano a nessuno, sentendosi superiori, e che buttavano nella spazzatura cibo intatto.
C'era ben da crederci se Forks li ripudiava: erano ben lontani dallo spirito gentile e pulsante della comunità.
Quando passai davanti a loro, guardarono come tutti gli altri il mio pick-up rumoroso e mi parve di scorgere una scintilla di disprezzo sulle loro facce eburnee. Io fissavo la strada di fronte a me e mi rilassai soltanto dopo essermi lasciata la scuola alle spalle.
Il supermercato era poco lontano, alcuni incroci più a sud, appena fuori dall'autostrada. A casa la spesa l'avevo sempre fatta io (ricordate la mia madre incapace?) e fui contenta di tornare ad un'abitudine vecchia e familiare: acquistai frutta e verdura, fra cui un quantitativo spropositato del mio ortaggio preferito, i peperoni, insieme ad un po' di patate, carote, farina, carne, uova, latte e tantissimi cereali al cioccolato di cui apparentemente non avevo alcun bisogno. Il supermercato era così grande da impedirmi di sentire il rumore della pioggia sul tetto, perciò persi un po' la cognizione del tempo mentre vagavo fra gli scaffali semisconosciuti, notando come la zona salse fosse rifornita in maniera completamente diversa da quella del supermercato di Phoenix: paese che vai, clientela che trovi, salse che consumano e puoi vendergli. Misi nel carrello anche un barattolo di economica salsa barbecue molto scura che non avevo mai visto prima, poi pagai (la cassiera era davvero gentile) e tornai a casa.
Scaricai la spesa e riempii ogni angolo libero della dispensa, sperando che papà non si lamentasse di tutti quei cereali. Avvolsi le patate nella carta stagnola per cuocerle in forno e misi una bistecca di vitello a marinare nel frigo, in equilibrio su un grosso cartone di uova.
Finite di sbrigare queste faccende, salii in camera mia con lo zaino in spalla. Prima di iniziare a fare i compiti indossai un paio di pantaloni asciutti, raccolsi i capelli bagnati in una coda e per la prima volta da quando ero arrivata a Forks controllai la posta elettronica. Avevo tre messaggi esatti e tutti e tre erano stati inviati da mia madre. Il primo recitava:
Bella, scrivimi appena arrivi. Raccontami com'è andato il volo. Piove? Mi manchi di già. Ho quasi finito di fare le valigie per la Florida. Ma non trovo più la mia camicetta rosa. Sai dove potrei averla messa? Un saluto anche da Phil. Mamma.

Sospirai e passai alla e-mail successiva. Era stata spedita esattamente otto ore dopo la prima.
Bella, perché non mi hai ancora scritto? Cosa aspetti?
Mamma.

L'ultima e-mail, breve e rabbiosa, era stata scritta quella mattina stessa.
Belarda,
se entro le cinque e mezzo di oggi non rispondi, telefono a Carlo.

Controllai l'orologio. Mancava ancora un'ora alle cinque, ma mia madre era famosa per anticipare i tempi ed inoltre non ero del tutto sicura che io e lei avessimo gli stessi orari.
Mamma, calmati. Ti sto scrivendo ora. Non essere impulsiva.
Bella.

La inviai subito, scongiurando così un possibile apocalisse in cui lei litigava con papà e i due perdevano le corde vocali urlandosi al telefono, e iniziai a scrivere un'altra e-mail.
Mamma, va tutto benissimo. Che razza di domanda è? Certo che piove, secondo te che tempo può esserci. Aspettavo che succedesse qualcosa per scriverti, non è che posso stare qui a dirti "ho spacchettato la roba, ho messo i vestiti nell'armadio" e cose del genere, no? La scuola non è male, è molto meglio di quella di Phoenix, è carinissima, con tanti alberi. Ho conosciuto alcuni amici molto simpatici, pranziamo sempre assieme, anche se sempre sarebbe solo da due giorni.
La tua camicetta è in lavanderia e per giunta ce l'hai portata tu, non so se te lo ricordi, ma avresti dovuto andare a prenderla venerdì.
Papà mi ha comprato la macchina dei miei sogni, ci credi? È un pick-up e lo adoro! È vecchio, ma solidissimo.
Ti scriverò ancora, ma sappi che non scarico la posta ogni cinque minuti, abbiamo la peggior connessione internet di tutti i tempi. Rilassati, fai un bel respiro e lavati la faccia.
Bella.

Cliccai su invio e la mia missione fu compiuta.
Avevo deciso di rileggere Cime Tempestose, su cui quel giorno vertevano le lezioni di inglese, e quando papà tornò a casa tenevo ancora il libro tra le mani. Avevo del tutto perso la cognizione del tempo, così scesi di corsa le scale per togliere le patate dal forno e cuocere la bistecca.
«Belarda?» Chiese mio padre, sentendomi scendere
«Certo, chi altro può essere?» ribattei allegra «Ehi papà, bentornato!»
«Grazie».
Appese la fondina con la pistola e si tolse gli stivali, mentre io spadellavo in cucina. Per quel che ne sapevo, papà non aveva mai sparato un colpo, in servizio, ma teneva sempre l'arma pronta da bravo poliziotto. Quando da piccola trascorrevo le vacanze lì, lui la svuotava appena entrato in casa, perché sapeva bene delle statistiche per cui i bambini facevano più vittime casuali all'anno rispetto a quante vittime intenzionali mietevano i terroristi. Probabilmente ora mi giudicava grande abbastanza da non poter sparare a nessuno incidentalmente e non abbastanza pazza da volergli sparare di proposito.
«Cosa c'è per cena?» Chiese lui, cauto. Mia madre era una cuoca "fantasiosa" e non sempre i suoi esperimenti erano del tutto commestibili. Era chiaro che lui se ne ricordasse ancora.
«Bistecca e patate» Risposi, e lui parve sollevato.
Sembrava imbarazzato, impalato in cucina senza far niente; mentre io mi davo da fare si spostò rumorosamente in salotto, a guardare la televisione.
Mentre la bistecca cuoceva preparai l'insalata, con un sacco di peperoni crudi e curcuma, e apparecchiai la tavola, anche se la prossima volta avrei detto a papà che almeno i piatti li poteva mettere lui mentre cucinavo.
Quando la cena fu pronta lo chiamai, ed entrando in cucina annusò il cibo e si complimentò
«Che buon profumo, Belarda»
«Grazie!».
Per qualche minuto mangiammo in silenzio, troppo presi dal gusto delle patate per dirci qualcosa. Non mi sentivo certamente a disagio, nessuno di noi era infastidito dal silenzio. In un certo senso eravamo fatti per vivere assieme.
«E allora, come ti sembra la scuola? Ti sei già fatta qualche amica?»
«E anche qualche amico» risposi, aggiungendo scherzosamente «Spero che non sia vietato»
«No, certo che no. Bello»
«Frequento un po' di lezioni assieme ad una ragazza che si chiama Jessica. A pranzo mangio con lei e con tutti i suoi amici e le sue amiche, che sono un mucchio. E poi c'è un ragazzo, Mike, molto gentile. Tutti sembrano tanto carini». Con una evidente eccezione.
«Dev'essere Mike Newton. Bravo ragazzo, buona famiglia. Suo padre è il proprietario del negozio di articoli sportivi che sta appena fuori città. Si guadagna da vivere con la gente che viene a fare trekking da queste parti»
«Tu vai mai a fare trekking?»
«No, direi di no. Da soli è un po' noioso e il mio migliore amico è in sedia a rotelle»
«Ah. In effetti non è un granché per fare trekking. Ci vuoi venire con me, qualche volta?»
«Certo che si. Se tu mi accompagni a pescare, è ovvio»
«Un favore per un favore» dissi, battendo i palmi delle mani sulla tavola, due volte «Mi sembra più che giusto. Io vengo a pescare con te, tu vieni a fare trekking con me»
«Allora quando?»
«Ah, una cosa prima! Settimana prossima Mike e gli altri vanno in spiaggia. Ci posso andare anch'io?» lo pregai, facendo gli occhi da gattino dolce.
«Che cos'è quello sguardo?» Domandò mio padre, facendo finta di spaventarsi
«È lo sguardo implorante di una figlia che vuole andare al mare»
«E allora vacci, sei grande, ti ho comprato anche un pick-up»
«Grazie papà! Però io te lo chiedo lo stesso perché sei qui da più tempo di me, non lo so mica se in spiaggia ci sono cose pericolose o roba del genere, no?»
«Sei una figliuola giudiziosa» mi concesse «E sono contento se vai in spiaggia con i tuoi nuovi amici»
«Ah, un'altra cosa...»
«Un'altra gita?»
«Una specie. Allora, sempre Mike si è offerto di accompagnarmi al rifugio per animali di Forks. Ci vuoi venire anche tu?»
«Che cosa ci vai a fare?» domandò lui, scrutandomi.
Era arrivato il momento, dovevo dirglielo. Lo fissai dritto negli occhi e lui parve spaventato, ma questa volta per davvero.
«Vuoi un cane?» Mi chiese, stringendo i pugni «Non un cane grande, spero!»
«No, no» lo rassicurai «Voglio prendere un gatto. Qui c'è un sacco di spazio, non passa traffico quindi possiamo farlo uscire, e ho sempre desiderato un gatto»
«E perché non l'hai mai preso?»
«Perché mamma non me lo permetteva» decisi di giocare la mia arma finale «Sarebbe fantastico restare qui con te e avere un gatto tutto mio. Insomma, sarebbe molto meglio che a Phoenix, no?».
Lui non parve cedere immediatamente, ma dopo un po' si sciolse: era chiaro che voleva che restassi con lui ancora molto a lungo e non sopportava l'idea di perdermi e di farmi ritornare da quel mostro di mia madre.
«Si, va bene» Acconsentì «Un gatto. Ma non un gatto selvatico, che graffia tutte le tende: dovrà essere bravo»
«Puoi venire anche tu, così lo scegliamo insieme» gli proposi «Dopotutto dovrà vivere con entrambi»
«No, lavoro durante l'orario di apertura del rifugio» mi confessò lui «E poi devi fare le tue scelte. Solo, non prendere un gattaccio, ok?»
«Ok»
«E non prendere neanche un gatto siamese, di quelli senza sottopelo, che muore di freddo. O peggio ancora uno di quei gatti nudi»
«Ma dove trovo un gatto nudo abbandonato?»
«Ah non lo so, ci sono quei riccastri bizzarri che fanno cose del genere»
«Gli unici riccastri bizzarri che conosco a Fork sono i Cullen. Tu che ne pensi?» chiesi, con voce esitante «Li conosci? Abbandonerebbero un gattino?»
«La famiglia del dottor Cullen? Non credo! Cullen è un grand'uomo»
«Loro... i figli... sono un po' strani. Non sembrano proprio inseriti, a scuola».
L'espressione infuriata di papà mi sorprese
«La gente di questa città...» mormorò «Il dottor Cullen è un chirurgo brillante, che probabilmente potrebbe permettersi di lavorare in qualsiasi ospedale al mondo e guadagnare dieci volte tanto quello che gli danno qui» continuò, alzando la voce «È una fortuna che sia con noi, una fortuna che sua moglie abbia accettato di vivere in questa cittadina. È una risorsa per tutta la comunità e i suoi figli sono educati e cortesi. Anch'io ero dubbioso, quando si sono trasferiti qui, con tutti quei ragazzi adottati. Pensavo che potessero darci qualche grattacapo. Invece sono molto maturi e nessuno di loro mi ha mai dato il minimo problema. Non posso dire la stessa cosa di figli di gente che abita qui da generazioni. E sono uniti, come dovrebbe essere una famiglia, ogni fine settimana vanno in campeggio... la gente deve aprire per forza il becco soltanto perché sono gli ultimi arrivati».
Era il discorso più lungo che avessi mai sentito uscire dalla bocca di papà. I pettegolezzi della gente dovevano averlo fatto indignare sul serio.
Io arretrai un po'
«Beh, a me non sono sembrati così educati e cortesi» mormorai
«Come?» fece lui, sorpreso
«Ma si. Specie Edward Cullen» dissi, con più foga «È maleducatissimo. Mi ha guardata male per tutta la giornata di ieri e quando gli rivolgo la parola corre via. E lui e i suoi fratelli non rivolgono la parola a nessuno e sono tutti truccati con chili di cerone e matita e fanno gli altezzosi. Lo sai che le ragazze corteggiano Edward, altro che escluderlo, e lui fa tanto il superiore e non accetta di vedere nessuna? E anche nessun ragazzo. Fa tutto il fighetto e forse è un po' razzista perché ha chiesto di cambiare corso solo perché c'ero iscritta anch'io»
«Davvero?» papà pareva scosso, scioccato: era ovvio che io, la sua bambina, non potessi mentire riguardo a quel teppista e che forse tutti i pettegolezzi sui Cullen non erano solo pettegolezzi.
Annuii
«Davvero. È un idiota. Sbriciolava la ciambella, in sala mensa, e la buttava per terra. Ti sembra un ragazzo educato? I ragazzi educati fanno queste cose?»
«No, certo che no» disse mio padre «Ma io non pensavo... cioè... dovresti conoscere il dottore, è molto diverso. È davvero carino, ma molto diverso»
«Che c'entra che è carino? Papà, cosa mi devi dire?»
«No, no, ma che... è sposato» si affrettò a dire lui, ridendo nervosamente «Quando gira per l'ospedale, la maggior parte delle infermiere fatica a concentrarsi sul proprio lavoro»
«Ecchecavolo è? E tu come le sai queste cose?»
«Io...» lui arrossì un po', sulla punta delle orecchie «Niente, sono di Forks e sono un poliziotto... e conosco queste cose».
Restammo di nuovo zitti e finimmo di cenare. Carlo sparecchiò mentre io iniziavo a lavare i piatti, con il risultato che sbattemmo l'uno contro l'altra e rompemmo un piatto, poi lavammo il resto delle posate insieme. Quando finimmo, lui tornò alla televisione e io salii svogliatamente al piano di sopra per fare i compiti di matematica.
Quella notte fu silenziosa e mi addormentai subito, esausta.
Il resto della settimana passò senza problemi di sorta. Mi abituai alla routine delle lezioni; il venerdì sapevo riconoscere, se non i nomi, almeno i volti di tutti gli studenti. In palestra, i miei compagni di squadra capirono che era meglio non passarmi la palla, soprattutto nelle azioni più "pericolose", ma che sapevo battere discretamente e sfruttarono questo mio talento.
Edward Cullen non tornò a scuola. La mia sola presenza era riuscita a farlo ritirare, sembrava, ed ero molto fiera di questa cosa e di tutte le ciambelle che avevo salvato dalla lunghe dita distruttrici di capelli-pazzi.
Ogni giorno osservavo i suoi fratelli che arrivavano a mensa senza di lui.
Discutemmo con Mike e gli altri della gita al parco marino di La Push, che era stata spostata, per impegni improrogabili, a due settimane a partire da quel giorno. Accettai di buon grado e furono tutti felici che anch'io mi unissi a loro.
A quel punto della settimana, nemmeno entrare nell'aula di biologia costituiva alcun problema, perché non mi preoccupavo più della presenza della peste dai capelli rossi.
Anche il primo fine settimana a Forks passò senza problemi. Papà non era abituato a trascorrere il suo tempo libero nella casa vuota, perciò lavorava anche di sabato e di domenica. Io feci un po' di pulizie, mi portai avanti con i compiti scolastici e spedii qualche altra e-mail rassicurante a mia madre. Il sabato, feci un giro in biblioteca, ma era così poco fornita che non chiesi neanche la tessera; decisi allora di fare quello che avevo sempre voluto fare: andare a prendere il mio nuovo gatto.
Telefonai a Mike
«Pronto?»
«Pronto, chi é?» rispose lui, un po' affannato
«Sono Belarda, disturdo?»
«No, no, stavo facendo un po' di cyclette. Che c'è?»
«Ti andrebbe di accompagnarmi al rifugio per animali? Voglio prendere un gatto»
«Oh, ok! Forte. Vengo a prenderti?»
«Sai dove abito?»
«A casa dello sceriffo, no?»
«Ah. Si, abito a casa dello sceriffo, credo che tutti sappiano quale sia per qualche ignoto motivo. Forse c'è una gigantesca stella d'argento fuori che io non ho visto».
Mike rise, poi continuò
«Allora per te va bene?»
«Si, dai, andiamo al centro per animali»
«Sto arrivando!».
E chiuse la chiamata. 


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 aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui


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