martedì 5 marzo 2019

Raccontro breve - Il mio buon Sole

Ogni tanto è bene anche infilare un racconto non-fantasy, non-fantascientifico e per giunta pieno di speranza. 
Dedicato a voi, sognatori con i piedi per terra. Specie se siete del Sud Italia.

+ Il mio buon Sole +

Mamma e papà si erano trasferiti nel Trentino qualche anno fa. Lui non gli aveva proprio proprio detto che non voleva che partissero, ma dava per scontato che l'avrebbero capito, di certo non poteva immaginare che si aspettassero che fosse felice di andarsene.
I grandi potevano essere davvero stupidi.
Ricordava, in particolare, la faccia di un uomo in giacca e cravatta che aveva vista sfuocata tra le lacrime, fastidiose e umide, e che – non sapeva ancora come, forse era un consulente di viaggio, ma di certo era responsabile del fatto che mamma e papà avessero deciso di partire – si era chinato su di lui e gli aveva chiesto «Ve ne andate! Sei felice?». La stupidità di quel grande in particolare era proprio abissale; se solo si fosse ascoltato quando parlava, forse avrebbe capito. Forse.
Al tempo non aveva pianto, sebbene le sentisse pericolosamente aggrappate alle sue ciglia. Piangere però era un tabù; solo i mocciosi piangono, quelli senza spina dorsale, i bambini. Era fiero di essere riuscito a non piangere... ci riusciva sempre, tranne poche eccezioni, come quella volta in cui era caduto di schiena dal muretto inseguendo Rocky.
Ma se si era fatto male non contava, anche se alla fine il gatto non l'aveva neanche raggiunto.
Adesso aveva dieci anni e sapeva qualcosa in più rispetto a qualche anno fa. Aveva imparato che si può piangere quando nessuno ti vede, che quando sei arrabbiato, stanco o spaventato, sentire il nodo in gola sciogliersi è un sollievo, ma piangere in pubblico era ancora l'umiliazione massima.
Peggio che cadere dal muretto.
Il Trentino era freddo. Non freddo freddo, ma la mamma non gli lasciava più tenere i capelli umidi dopo lo shampoo e gli capitava sempre meno di trovare un grosso masso caldo su cui sedersi quando facevano le scampagnate in montagna, a prendere il sole in pantaloncini corti.
Lo faceva sempre in Calabria, era tutto diverso lì. La tentazione era irresistibile! Papà lo guardava con finto rimprovero e diceva: «Salvatore, non fare la lucertola!», ma lo lasciava sempre qualche minuto a godersi il calore rassicurante della pietra contro le scapole.
A volte Salvatore ci premeva contro una guancia fin quasi a farsi male, finché lo zigomo non toccava la roccia calda. Chiudeva le palpebre, ma non diventava tutto nero: la luce passava comunque attraverso le palpebre, dipingendo sui suoi occhi chiusi una sorta di arancio-pesca che gli mancava più del resto.
Quando era a pancia in giù mamma o papà dovevano sempre svegliarlo perché ci si appisolava in pochi minuti, e poi si sedevano tutti e sei a riposare prima di continuare la scampagnata: mamma, papà, Salvatore, Lucia (sempre in braccio alla mamma, perché si stancava facilmente), Rocky e Diana. Il centro del suo piccolo mondo, della vita che amava.
Si, persino Rocky veniva in montagna con loro; a Salvatore piaceva inseguirlo, farlo rifugiare per gioco sugli alberi, ma papà lo sgridava perché diceva che si sarebbe potuto perdere se lo faceva sempre correre via.
Diana era un incrocio cane da caccia, trovata in un rifugio. Ora era grande, ma a differenza degli altri grandi non era mai stata stupida e l'aveva sempre capito; forse perché era più sua sorella che sua mamma. Era bianca, grigia e marrone, con le orecchie pendenti e la coda sottile che si dimenava come una girandola in un tornado ogni volta che lo avvistava.
Era diversissima da quando l'avevano presa in canile. Era stata piccolissima e molto magra, con la pelliccia meno morbida. Si era fiondata e aveva sporto il musino (quant'era piccolo rispetto alla mano di una persona!) oltre le sbarre dimenandosi nel tentativo di leccargli le dita. Aveva visto i denti piccoli e bianchi come miniature, e il corpicino morbido mettersi su due zampe nel tentativo di raggiungerlo. Si erano innamorati, e avevano portato a casa la nuova sorellina.
Rocky era più un amico che un parente, ed era un gattone rossiccio tigrato che si metteva a miagolare disperato in specifiche sere, secondo un ordine assolutamente incomprensibile a Salvatore. Mamma e papà lo chiudevano sempre in casa in quei periodi, e lui sembrava avere sempre mal di pancia... mamma diceva che era per farsi piacere alle gattine, ma Salvatore dubitava che lui avrebbe mai fatto innamorare qualche bambina lamentandosi come un disperato.
Tra gli amici, anzi, i migliori amici, rientravano Aldo e Laura.
Era stata proprio una stupidaggine andare in Trentino senza portarseli.
L'aveva detto alla mamma e lei, ridendo, gli aveva spiegato che erano figli di altre persone che non erano proprio d'accordo, e che quindi lei non poteva portarli con sé.
Sì, aveva replicato Salvatore, però loro vogliono venire: gliel'ho chiesto. Niente, la mamma aveva detto che non era proprio possibile, e allora Salvatore si era imbronciato sia con lei che con papà, perché lui era sempre d'accordo con lei: non per niente diceva “mammaepapà” sempre insieme, tutto attaccato. Li percepiva come una sorta di doppia emanazione di un'unica entità, niente di diverso dalle tante teste di un'idra: se era arrabbiato con mamma, doveva esserlo anche con papà.
Ora che aveva dieci anni, capiva che mamma e papà erano staccati proprio in virtù di quella “e”: papà era sempre pronto, per esempio, a passare del cibo in più a Diana e Rocky da sotto il tavolo durante i pranzi, e la mamma leggeva sulla sedia a dondolo che era stata della sua mamma in giardino. Mamma coltivava l'orto e papà fumava la sigaretta, ma poteva farlo solo fuori sennò mamma si arrabbiava.
Anche Aldo e Laura erano stati d'accordo sul fatto che dovevano essere tutti uniti, ma non nella stessa maniera.
«Forse, invece di partire noi, dovresti rimanere tu» Aveva sentenziato Laura in tono d'accusa, i capelli rossicci (come Rocky; si somigliavano in tante cose) raccolti in una treccia sottile
«Lo so» Salvatore aveva scosso la testa «Ma i miei non vogliono»
«E perchè?» si era stupito Aldo. Proprio per lui era un'idea senz'altro bislacca – “bislacco” era il termine preferito di sua nonna – volersene andare. Suo padre aveva molti begli appezzamenti di terra che gestiva con maestria da generazioni, e Aldo era cresciuto con le ginocchia sbucciate e la terra sparsa addosso come zucchero a velo sulle ciambelle.
«Perché dicono che se non andiamo non riescono più a dare da mangiare né a Rocky né a Diana» Aveva risposto Salvatore con genuino terrore «E io...». E si era guardato le scarpette penzolare nel vuoto, mentre Laura si sdraiava sui mattoni nudi della Casa delle Mano-Morte.
Ci aveva pensato su, poi aveva detto «Non mi dispiacerebbe troppo andarmene. Però mi dispiace che te ne vai tu».
Gli era mancato indicibilmente il loro punto di ritrovo – che a loro piaceva pensare fosse un segreto ben custodito, senza calcolare che in paesini così chiunque sapeva tutto di tutti –, “la Casa delle Mano-Morte” la chiamavano loro. Per dimostrarsi vicendevolmente il proprio coraggio avevano inventato ogni sorta di leggende sulla vecchia casa di periferia, che sembrava diroccata, ma in realtà non era semplicemente mai stata finita.
A detta loro, lì ci aveva nidificato la “Miula” o “Pigula”, uccello notturno e maligno che portava moltissima sfortuna: l'avevano persino vista una notte... . Si diceva che dal momento e dal luogo in cui emetteva il suo lamento – un suono acuto e ritmico da fare accapponare la pelle – si poteva sapere quando sarebbe morto qualcuno. Laura ci aveva subito intessuto una storia per la loro casetta: c'era un motivo per cui la Pigula aveva addirittura nidificato nel loro ritrovo, e questo motivo erano le Mano-Morte. Erano creature tutte nere, simili a delle persone, ma più cattive. Erano liberi nel loro territorio solo la notte, perché di giorno riposavano sotto terra, ma se qualcuno si avventurava di notte nella loro casetta e le Mano-Morte lo avessero visto, di sicuro lo avrebbero inseguito, perché caracollavano e poi scattavano ad una velocità sovrumana. E quel che peggio, erano dei morti...
«E se ti prendono che succede?» Aveva chiesto Aldo
«Nessuno... lo sa...» aveva sussurrato tenebrosa Laura. Alla fine, dichiarando urgenti impegni per un motivo o per un altro, si erano catapultati tutti e tre via dal loro covo ostentando indifferenza falsissima, arrivando a casa all'arrossire del cielo nel tramonto.
Quando li aveva salutati non gli era sembrato niente di terribile, anche se era l'ultima volta prima della partenza.
Si era reso conto che qualcosa non andava solo quando aveva realizzato che voleva uscire, voleva giocare con loro, prendere i grilli e raccontare le storie di paura... e che loro non erano lì fuori. Lì fuori c'era un mondo che non conosceva, con bambini che non erano Aldo e Laura, con massi su cui non poteva sdraiarsi, con case di cui non conosceva né aveva mai inventato i segreti.
Aveva pianto nella sua stanzetta, nuova ed estranea, ma solo un poco, anche se non era solo solo: c'era Diana con lui, l'unico essere vivente al mondo che potesse vederlo piangere e consolarlo; neppure a Rocky era permesso avvicinarsi.
Gli erano mancati da morire.
E gli erano mancati tutti al paese, in cui chiunque sapeva tutto di tutti, e questo la rendeva una piccola comunità e una grande famiglia. Gli erano mancati l'odore legnoso e amico degli olivi, simile alla lana e all'erba e alla cannella, il verde intenso, come verniciato, delle loro foglie, con i piccoli insetti poggiati sulla pagina inferiore, e come questi alberi si ricoprissero di fiorellini bianchi e minuti verso maggio, che cadevano (“gli olivi pelano” era il suo dotto commento) ricoprendo come neve minuta e preziosa tutto il terreno e l'erba. Lì crescevano alti il millefiori, il cardo dai fiori colorati, la portulaca, il cumino dei prati e il mentastro che potevano essere scambiati per millefiori e menta, ma il cumino aveva dei semi che se seccati potevano essere mangiati mentre il mentastro, se mangiato come lui usava con la menta (cioè le foglie intere tutte in bocca), aveva un saporaccio.
La menta vera invece potevi trovarla in prossimità delle fiumare, come gli aveva detto la zia Domenica, ed era buona anche se era selvatica. Cresceva tra le canne verdi e oro che nascondevano piante più piccole, serpenti, rane verdi e rosse e raganelle.
Le sue amate, perdute “fiumare” erano belle perché cambiavano sempre. Quando era estate e faceva molto, molto caldo (e d'estate faceva sempre molto molto caldo, salvo i temporali che sembravano buttare tutta l'acqua che non era caduta finora in una grossa secchiata fredda) il letto della fiumare si asciugava completamente. A volte rimanevano delle pozze laterali in cui nuotavano dei girini ritardatari o qualche pesciolino argenteo, che potevi prendere con le mani.
In primavera e autunno dava vigore alle piante sulle sue sponde rinverdendole – una volta c'era cresciuto persino un pomodoro selvatico – e riempiva l'aria di spruzzi, piccoli arcobaleni e l'odore frizzante e ferrugginoso della buona acqua. Il suo brontolio acuto era quasi una ninna nanna.
Il letto delle fiumare era scosceso e scostante, dando vita a forti correnti, cascatelle di luccicante bellezza, punti di calma tra le acque correnti e piccoli rigagnoli che si dipartivano tra la poca sabbia e il pietrisco chiari.
Amava gli alberi alti e ingrigiti, come vecchi, dallo sguardo della luna; aveva visto grandi pareti irregolari di argilla luccicare nell'umidità di una giornata piena di calore dopo un temporale.
Davanti agli occhi vedeva ancora gli aranceti dalle foglie verdissime, di quelli da cui puoi rubare una sola arancia che, se gratti un po' con le unghie, sprigionerà il suo profumo.
Somigliava un po' al profumo della mamma, ma non era proprio quello... anche se era dolce come il profumo di una mamma. Vedeva il cielo del ciano più vasto e stupendo che si possa desiderare e le nuvole che in alta montagna sembravano sempre correre su di loro, un po' come il Bianconiglio di Alice, l'acqua che si può bere direttamente dal ruscello, i giochi di luci e ombre sulle foglie, e il cuore della sua vita pulsare forte.
Diana gli leccò piano le dita, mettendogli il muso in grembo con un mugolio, mentre lo sguardo di Salvatore spaziava sul cielo e i paesi pittoreschi, sulle montagne che diventavano blu e quasi illusorie in lontananza.
Lucia belò come una capretta, cercando di attirare l'attenzione di qualcuno, probabilmente della mamma se non proprio la sua.
«Salvatore, non fare la lucertola!» Lo richiamò suo padre, ridendo.
E ridendo Salvatore si drizzò, e, a malincuore, lasciò la sporgenza bassa della parete rocciosa illuminata dal suo buon sole.
Casa sua era un posto bellissimo.
Sarà per questo che erano tornati.

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