domenica 8 marzo 2020

Un boccaccio di Amuchina - 5. D'amore e morte


 + D'amore e morte, una storia di Nuan Huan +
Piacere di conoscervi, il mio nome è Nuan Huan. Raccontare storie non è mai stato né il mio mestiere né la mia passione, ma farò del mio meglio, lo prometto.
Dato che quando costruisco oggetti metto insieme tanti materiali diversi, ho pensato che fosse la stessa cosa anche con il raccontar storie; ringrazio tutti quelli che hanno raccontato qualcosa prima di me e mi hanno ispirata.
Se la mia storia vi piacerà, ne sarò felice.
In principio vi erano il Caos, la Terra, e l’Abisso.
Tra loro si amavano di un amore tenero, anche se questo sentimento non aveva ancora un nome nei tempi remoti da cui comincia la nostra avventura; esistevano, sicuri della presenza degli altri anche quando non guardavano, e prosperavano.
Questo loro affetto cresceva di giorno in giorno, finché non seppero che il loro amore era abbastanza forte da garantire loro un miracolo, ma solo se avessero agito com’era giusto.
D’improvviso sapevano cosa dovevano fare e non se ne chiesero la ragione, perché gli dei non hanno bisogno che di esistere per lungo, lungo tempo per adempiere alla loro natura, e ogni loro sentimento e intento crea miracoli.
Il Caos mulinante spalancò le sue ali per raggiunger Tartaro l’Abisso e gli affidò un uovo che aveva deposto, che lasciò tra le braccia dell’Abisso. L’Abisso tenne al sicuro la creatura che cresceva nell’uovo del Caos e Gaia la Terra vi infuse la vita con un sospiro tenero, e quando l’uovo schiuse, due gemelle alate ne uscirono tenendosi per mano: erano la Notte e l’Oscurità.
Le due gemelle non riconobbero il Caos, poiché le sue fattezze mutavano in continuazione, così si separarono per essere cresciute da coloro che più le somigliavano: la Notte dagli occhi brillanti si accoccolò contro la schiena della buona Terra, sostenendola quando era stanca perché riposasse tranquillamente, mentre l’Oscurità sedette accanto all’Abisso profondo, in silenzio, eppure osservando.
Le due gemelle crebbero, ma non si dimenticarono l’una dell’altra e, dopo la rivoluzione dei lunghi secoli, decisero di incontrarsi nuovamente.
Che gioia fu! Anche se erano cresciute, non ci volle loro che un istante per riconoscersi e volare una tra le braccia dell’altra. Per un giorno la loro felicità fu tale che la luce delle stelle lontane fu spenta per un secondo, precipitandolo nelle tenebre delle due sorelle, e quelle stesse tenebre che coprirono tutte le luci dell’Abisso turbinarono e si condensarono in un bozzolo pulsante.
Le due sorelle decisero di vegliare su di esso, sorprese, ma avevano appena giurarlo di proteggerlo e accudirlo finché fosse stato necessario, che esso si svolse come un rocchetto di filo e da esso scaturì il grazioso Amore, donando finalmente un nome al sentimento che legava quelle creature divine che insieme coesistevano.
Non era mai esistito qualcosa di incredibile come Amore: al contrario di Notte e Oscurità, non somigliava solamente ad una delle altre divinità, ma sembrava riunirne tutte le loro caratteristiche in un unico essere, così che sfuggiva ad ogni definizione.
Era mutevole come Caos: era il dio più piccolo, eppure in un attimo poteva ingrandirsi e permeare il mondo come Oscurità; dalla sua schiena si dipartivano meravigliose ali, come quelle di Notte, rapide come turbini di tempesta, che gli consentivano di viaggiare tra i mondi a suo piacimento. Quelle ali erano fatte d’oro, materiale amato dalla Terra, e con la Terra Amore condivideva il saper portare passione e gioia di vivere.
Una nuova pace era nata insieme ad Amore, piccola divinità benvoluta da tutte le altre: il giovane dio non stava fermo un secondo, volava da un’entità all’altra con le sue ali scintillanti per portargli una notizia, un saluto, un bacio, e il suo arrivo era sempre accolto con gioia.
La vivacità che portava ispirarono la Terra, che sbocciò in una nuova bellezza.
«Cosa accade, Gaia?» Le chiese Amore, sporgendosi a darle un bacio su una guancia florida «Ti vedo diversa»
«Sto creando la vita, Amore mio» gli rispose lei
«La vita?» ripeté lui, affascinato. Non sapeva cosa potesse essere, perché gli dei non avevano mai chiamato il proprio stato vita, ma “esistenza”, però Gaia era quella che creava i giochi più divertenti e starla ad ascoltare era sempre un piacere.
«Sì. Avanzerà pian pianino, e Notte li sorveglierà di tanto in tanto, ma sarà una figlia diletta per me. Ti piacerebbe conoscerla, quando saranno pronti?»
«Anche prima, Gaia mia»
Amore stesso era ignaro di quale fosse la sua vera natura.
Tutti gli altri sarebbero rimasti uguali a sé stessi, per sempre, sarebbero semplicemente esistiti e questo sarebbe bastato loro per adempiere al loro destino di dei. Persino Caos, nel suo continuo mutare, in realtà non avrebbe fatto altro che quello e sarebbe stato quindi sempre uguale a sé stesso.
Ma per quanto non lo sapesse ancora, Amore… cento e più nomi avrebbero pronunciato per pregarlo, chiamarlo o maledirlo, e lui avrebbe risposto a tutti. Cento e più volti avrebbero associati a quei nomi nel corso dei lenti millenni, e tutti sarebbero parsi il suo.
Ma ancora, quando Gaia gli propose di osservare la sua nuova creazione, non si era reso conto di essere diverso da tutti gli altri dei; era troppo giovane.
Nel momento in cui Amore conobbe la vita, fu lì che iniziò… a crescere.


Amore osservò con meraviglia i minuscoli progressi che la vita faceva secoli dopo secoli, come tutto il pianeta di Gaia fu costretto a rimodernarsi in modi strani ed improbabili per fare spazio a questa nuova invenzione.
Con tutto il lavoro che doveva fare per badare a questa vita che aveva creato, la Terra prese a riposare una volta al giorno, e ogni volta Notte continuava a sostenerla perché riposasse meglio e si sporgeva a controllare la creazione di Gaia come le aveva promesso, anche se poteva sbirciare solo su un lato del pianeta alla volta per non disturbare la sua amata madre.
La vita non era una sola entità come tutte le divinità, ma erano centinaia, migliaia di piccole particelle che contenevano una briciola della forza di Gaia. Nascevano e si spegnevano nel giro di un batter d’ali, e forse proprio per questo la più piccola delle divinità ne rimase irrimediabilmente affascinato.
Amore desiderò ridurre la distanza tra loro per vederli da vicino e, istintivamente come accadeva per tutti i miracoli degli déi, seppe come doveva fare.
«Notte mia, per favore, sostieni anche me per un momento» Chiese all’altra, tenendole le mani.
Gaia capì quello che stava succedendo, e sorrise. La Notte lasciò che Amore si rannicchiasse tra le sue braccia e lo cullò, cantando dolcemente.
Forse era l’affetto che Amore portava alle nuove creature della Terra, o forse anche Notte ne era stata ispirata, perché la sua ninnananna arrivò alle orecchie d’Amore come un rimescolarsi di molte voci e suoni cari: il frinire di piccoli grilli dalle corazze nere, brillanti come giaietto, il richiamo lontano di rapaci notturni, un vento gentile che accarezzava le fronde di alberi che, stiracchiando i rami nodosi, cercavano di raggiungere ed abbracciare il disco della luna ad un tempo.
Amore chiuse gli occhi; la canzone cambiò mentre lui discendeva piano piano nelle tenebre della mente che Notte gli aveva prestato, man a mano che anche il pianeta di Gaia cambiava.
E così, si addormentò.
Quando si svegliò, era più piccolo di come fosse mai stato, e agitando i pugnetti si ribellò a quella sua nuova condizione. Nel corpo di un bambino, Amore alzò lo sguardo appannato al cielo e lo vide nero, trapunto di stelle, e riconoscendo le luci dell’Abisso e il buio di Notte si chetò e sorrise.
Quando gli déi si addormentano, anche se la loro essenza più grande si riposa laddove noi mortali non possiamo raggiungerli, talvolta sono i loro sogni che li conducono a noi. Così si incarnano in creature straordinarie, che noi scioccamente crediamo essere divinità del tutto complete, angeli, demoni o spiriti divini, e che in realtà non sono altro che un frammento vagante della mente di questi esseri profondamente addormentati, un loro pensiero, un’emozione che si riveste di materia.
Amore si era incarnato nel corpo di un bambino neonato, che aveva avuto origine da due delle manifestazioni terrene di Gaia: Afrodite, generata dal mare e incarnazione della bellezza, e Ares, bruta manifestazione della violenza e della lotta.
La mente di una divinità è grande, così grande e importante che quando un dio si distrae e i suoi pensieri vagano, essi raggiungono sempre qualche luogo. Gaia era così legata al suo pianeta che erano numerose le sue manifestazioni sulla Terra, e di tutte, nessuna era più appassionata di Ares e Afrodite, nessuna più degna di dare un corpo al piccolo Amore.
La natura mutevole del giovane dio donò ali e occhi ridenti al piccino in cui si era incarnato, simili a quelli della sua anima, e tanto era il divertimento che provava nell’avere adottato questa nuova forma, seppur momentaneamente, che ben presto la consapevolezza di stare sognando sfuggì dalla mente del bimbo divino.
Proprio come aveva desiderato era più che mai vicino ai viventi ora, e come essi cresceva in fretta.
Tra le creature della Terra si sparse presto la notizia dell’arrivo di questo piccolo Amore, tanto giovane quanto dotato di poteri straordinari, bello come un raggio di sole e discolo come un furetto!
Le altre creature divine, di cui scoprì presto essercene molte altre, tutte diverse da lui in un modo o nell’altro, erano avare della loro presenza con gli umani. Ma Amore no: appena ne fu in grado, iniziò a correre tra le strade dei paesi abitati, danzando tra la folla per osservare il via vai della città, poi a perdersi per le campagne. Cantava coi galli per svegliare i contadini e sorrideva, birichino, quando affacciavano alla finestra, per poi correre via, e le sue ali dorate sembravano poterlo portare ovunque.
Sua madre lo amava di tutto cuore, ma non sembrava mai preoccupata che gli accadesse qualcosa e lo lasciava libero di scorrazzare a suo piacimento. In qualche modo aveva ragione: mai nessuno cercò di fargli del male.
Amore imparò che sua madre e suo padre si amavano, ed ai suoi occhi questa era la cosa più importante del mondo, ma che sua madre era sposata con un altro uomo. Gli dissero che era di cattivo carattere ed incredibilmente brutto, e ovviamente questo fu tutto ciò che bastava perché nel piccolo Amore si accendesse la smania di conoscerlo.
«Non vorrà vederti» Lo ammonì Afrodite, accarezzandogli i ricci «Perché sei figlio di un altro uomo»
«Ma tu e papà vi amate, mamma mia» disse Amore, con un sorrisino tutto fossette «Come può arrabbiarsi perché avete avuto un figlio?»
«Oh, non vuole che stiamo insieme, perché è molto brutto e di cattivo carattere» tagliò corto la dea con un risolino «È quindi è invidioso della bellezza di tuo papà e del mio buon carattere, Amore. Oh beh, o anche viceversa immagino»
«Perché è tuo marito, allora?».
Afrodite sospirò «Vorrei che non dovessi ancora scoprire cose noiose come i motivi per cui ho sposato Efesto. Ora va’ a giocare, figlio mio».
Ovviamente Amore andò per prima cosa a chiedere in paese dove abitasse Efesto e, grazie all’amore divino che suscitava in chiunque lo osservasse, non ebbe problemi a trovare le informazioni che gli servivano. Chiese un passaggio al vento, che non poté rifiutargli questo piccolo piacere, e sulle sue ali d’oro arrivò in un men che non si dica all’Etna, il possente vulcano di Sicilia.
Alle pendici di quel meraviglioso gigante, che anche un piccolo dio guardava con ammirazione, era stata costruita una fucina unica nel suo genere. Al suo interno si svolgevano lavori d’artigianato di ogni sorta, che scuotevano il vulcano e ne facevano fuoriuscire ogni sorta di brontolio.
Amore era piccolo e svelto, e riuscì a sgattaiolare dentro eludendo il peculiare tipo di sicurezza che il marito della sua mamma aveva scelto di mettere a guardia della sua fucina.
E finalmente lo vide: il dio del fuoco era in una delle stanze della fucina, solo, e stava battendo del metallo caldo facendo sprizzare scintille tutt’intorno. Aveva spalle e braccia incredibilmente forti e un fisico adatto al lavoro, ma i lineamenti del suo viso erano la cosa peggio arrangiata che avesse mai visto su volto o muso di qualunque creatura prima d’ora. La mamma non aveva esagerato.
«Buh!» Esclamò allargando dita ed ali, ed Efesto esclamò molte parole volgari, sorpreso dall’apparizione del piccolo intruso.
«È solo un marmocchio» Constatò con voce rasposa, tranquillizzandosi
«Al suo servizio» rispose Amore, con un piccolo inchino «Siete voi Efesto, dio artigiano?»
«Come hai fatto ad entrare? Come hai potuto evitare di essere scorto dai miei assistenti ciclopi?»
«Se vuoi che gli intrusi non vengano visti, forse dovresti mettere guardie che hanno più di un occhio» osservò Amore, richiudendo le sue ali d’oro.
Efesto gli rispose con molte altre parole volgari, ma in cuor suo si disse che il marmocchio non aveva tutti i torti. Probabilmente se fosse stato qualcun altro a presentarsi così di soppiatto, il dio lo avrebbe gettato fuori senza tanti riguardi, ma c’era qualcosa di speciale in quel piccino. Quando si fu sfogato e lo ebbe squadrato ben bene, Efesto proseguì, continuando a battere il metallo:
«E allora? Certo non sei un comune mortale, si vede a prima vista. Hai ali sulla tua schiena, come la stirpe di Caos»
«Di Caos…» ripeté Amore, strizzando gli occhi. Provò una strana sensazione, come se stesse per ricordare qualcosa di dimenticato che non avrebbe assolutamente dovuto scordare, ma non ebbe tempo di rincorrere quel pensiero che fu interrotto.
«Ebbene?» Incalzò Efesto «Sei venuto a fissare l’aria? Perché c’è tutto un mondo là fuori, puoi farlo senza venire qui a rompere il...» e Efesto disse altre parole volgari, riscuotendo con efficacia Amore dai suoi pensieri.
«Sono venuto a trovarti, perché ho sentito parlare di te»
«Ah sì? E cos’hai sentito?»
«Che sei molto brutto e di cattivo carattere»
«Oh, andiamo bene»
«Ma che hai braccia molto forti e che sai creare qualunque cosa nella tua fucina, e che hai sposato Afrodite»
«Eh, di questo non ci lamentiamo»
«Che è la mia mamma» concluse Amore.
Efesto rimase in silenzio per un minuto buono, interrompendo il proprio lavoro.
«È la tua mamma» ripeté il dio, livido di rabbia e ancora più brutto del suo solito «E chi è il tuo papà?»
«Ares, dio della lotta»
«Ti ha mandato lui?» chiese Efesto, impugnando il pezzo di metallo incandescente e voltandosi verso il piccolo, brandendolo come un’arma «È una sporca tattica per umiliarmi? Beh, puoi portare questo» e tese in avanti la lama mai finita, ancora rossa e bianca per la temperatura elevatissima «al tuo papà e dirgli che se lo può ficcare su per il...».
Insomma, Efesto non era molto signorile. All’udire una risposta simile, Amore lo guardò in modo così spaesato e un po’ intimidito che Efesto si calmò un poco, e scagliò il pezzo di metallo lontano da sé, in fondo alla stanza, lasciandolo a raffreddarsi.
Si sedette a terra, a gambe incrociate, portandosi una mano al volto.
Lo guardò attraverso le dita allargate della mano, e Amore non era sicuro di come decifrare quello sguardo. «Somigli così tanto a lei» Gli disse, con un filo di voce.
Amore si avvicinò a passettini e si lasciò cadere un po’ distante da Efesto, guardandolo dubbioso.
«Non posso toccare del metallo così caldo» disse il bambino, toccandogli un braccio «Però posso portare il messaggio»
«Lascia stare, ragazzo. Lascia stare».
Per quella volta Amore se ne andò, ma non fu l’ultima volta che si videro. La fucina di Efesto divenne un nuovo luogo favorito per i suoi giochi, e nonostante gli si rivolgesse in modo sempre brusco, Efesto iniziò a tollerare di buon grado la presenza di Amore nelle sue fucine; persino i ciclopi non potevano fare altro che avere in simpatia quella bestiolina alata.
Il giovane dio prese l’abitudine di portargli un regalino diverso per ognuna delle visite, sempre più frequenti, che faceva. A volte erano delle cose che credeva fossero graziose trovate durante le sue scorribande, altre degli oggetti di valore che gli venivano regalati o che barattava al mercato.
Ogni volta che dovevano salutarsi ed Amore se ne andava, Efesto si affacciava per vederlo discendere a salti e piccoli voli il pendio e allontanarsi dall’Etna, e si chiedeva perché diamine stesse subendo l’umiliazione di incontrare la creatura nata dai tradimenti di sua moglie.
Era difficile volergli bene quando oramai sapeva delle sue origini. Da quello che il bimbo gli raccontava, Ares non era granché coinvolto nel tirarlo su, ma pensare al loro collegamento lo faceva star male, ed ancor più lo faceva stare male il pensiero che potesse rivelarsi più simile di quello che pensava all’uomo che aveva osato umiliarlo così.
Infine, decise di donare al piccolo Amore qualcosa che fosse insieme un regalo e una prova, per decidere finalmente come avrebbe dovuto comportarsi con lui. Efesto fabbricò per lui delle frecce speciali: erano solo veicolo delle intenzioni e dell’anima di colui o colei che le scagliavano. Non erano letali di per sé, ma si sarebbero adattati perfettamente alla personalità dell’arciere.
Sarebbe stato come dare un’occhiata direttamente alla sua anima.
Così aspettò che venisse a trovarlo, e poi dispose tutte le frecce che aveva forgiato in una faretra.
«Ho finito un’arma speciale, marmocchio» Disse subito, senza salutarlo.
Amore si adeguò subito e a sua volta saltò i convenevoli, mettendoglisi accanto «Bello, io oggi ho portato la mia lira. Se mi fai vedere la tua arma speciale, ti suono una canzone»
«Per ora concentriamoci sulle armi» tagliò corto Efesto, tirando fuori un arco argenteo, alto quanto Amore in piedi e soppesandolo
«Papà mio dice che ogni uomo deve avere le sue armi»
«Ah sì? E tu vuoi usare delle armi come papà tuo?»
«No» rispose candidamente il bambino, allargando appena le ali «A me non interessa uccidere, Efesto mio»
«Non chiamarmi in quel modo. Mai più. Ti prendo a calci se lo rifai» Efesto grugnì e gli passò l’arco e le frecce che aveva creato, sbuffando: «Provali. Sono Frecce dell’Anima»
«A mamma mia il nome piacerebbe, e piace anche a me»
«Beh, non me ne frega un accidente se ti piace o no, si chiamano così. L’effetto colpisce l’anima di un’altra persona, e cambia a seconda di chi lo usa. Non servono ad uccidere, così puoi divertirti anche tu».
Ciò non toglieva che, ovviamente, agendo sull’anima avrebbe comunque provocato la morte di qualcuno se le avesse usate un bruto violento come Ares.
«Incredibile! Come hai fatto?»
«Sì, e vengo a dirlo a te, moccioso! Affacciati, dai. Vediamo che uomo sei» Gli disse «Tira».
Non dubitava che il figlio di Ares sarebbe riuscito a maneggiare delle armi senza che ci fosse bisogno di spiegargli nulla, così come non dubitava che avrebbe centrato il bersaglio.
Amore uscì dall’Etna e si mise in volo, guardando dall’alto in cerca di qualcosa da colpire. Amava vedere le reazioni di ogni tipo di creature, ma le reazioni degli umani erano le sue preferite; così individuò dall’alto una coppia di giovani guerrieri, due greci a giudicare dalla lingua che parlavano, che chiacchierava e mirò.
Scoccò la prima freccia che si infilzò nel tallone di uno dei due. Dato che era una Freccia dell’Anima, i due umani non la videro e forse neppure se ne resero conto.
«Che tiro scarso! Pensavo di regalarteli visto che tu mi porti tutti i sassi e le muffe che trovi, ma mi sa che delle armi così belle sarebbero sprecate per un buono a nulla come te» lo prese in giro Efesto, così Amore gli fece una linguaccia e scoccò una seconda freccia. Questa trapassò il secondo uomo al cuore con precisione incredibile.
«Per Giove» Disse Efesto, osservando sgomento gli effetti delle frecce scagliate da Amore… e si fece una grassa risata come non se ne faceva da tanto tempo.
Nessuno dei due era caduto morto. Anzi erano caduti… l’uno tra le braccia e dell’altro, e si stavano scambiando un bacio. Quel dannato marmocchio faceva innamorare la gente.


Il piccolo dio crebbe fino ad essere un giovane uomo, e la gente temeva i suoi capricci quasi più di quelli di qualunque altra calamità, ma non poteva esimersi dall’adorarlo comunque.
Alternava momenti di monellerie e allegria a momenti di riflessione, rannicchiandosi sulla spiaggia, su un prato, ovunque si potesse vedere la vastità della volta celeste. Non sapeva perché, ma ogni tanto, quando si trovava a guardare il cielo stellato, sentiva qualcosa affiorargli dietro le palpebre, qualcosa di più di un pensiero e meno di una fantasia. Era esattamente come la prima volta nella fucina di Efesto: un ricordo che doveva sforzarsi di rimembrare, che era importante, eppure…
Allora chiudeva gli occhi per qualche secondo, dando spazio a quella presenza dietro ai suoi occhi perché si manifestasse così che potesse identificarla. Ma allora tutto spariva.
Sentiva i rumori della notte e, anche se era convinto di non aver trovato quello che cercava in un evento tanto ordinario, la smania spariva subito e Amore si sentiva felice.
Altri secoli girarono lentamente su sé stessi, e lui divenne Eros, Cupido, Amor e cento altri déi.
Dovette adattarsi, mutare, perché non era più tempo degli déi come li conosceva, e pian piano scordava cosa era stato prima per calzare la pelle della sua nuova identità.
I pensieri di Gaia si concentrarono su altro, le preghiere dei mortali che tenevano in vita quelle sue manifestazioni smisero di arrivare e molti di loro si spensero come candele, mentre gli umani si costruivano altri déi e adoravano nuove idee.
Amore cambiò nome ancora e ancora, cambiò aspetto e cambiò come la gente lo vedeva e ricordava, ma il suo messaggio sembrava essere forte abbastanza forte da reggere per tutto quel tempo.
«Insegui i tuoi desideri, ama la bellezza nel prossimo» Disse.
«È l’amore che fa girare il mondo» Disse.
«Ama il prossimo tuo come te stesso» Disse, e forse quella fu la versione che piacque più di tutte.


Era incredibile che, dopo tutti i secoli e le vite che aveva vissuto, gli eventi che avrebbe insegnato ad Amore qual era il suo ultimo nome sarebbero avvenuti tutti in un unico anno: 2019, Anno Domini.
Iniziò tutto con una donna, delle orecchie da coniglio finte, una maglia buffa, un lago con le papere e un dio nascosto.
La giovane donna era un’insegnante delle elementari dall’aria afflitta che sedeva su una panchina in un parco. Il sole aveva iniziato ad abbassarsi pericolosamente verso l’orizzonte ed il parco era semi-deserto: più il cielo si scuriva più gli umani migravano verso case o bar a quell’ora.
La ragazza sospirò e si sfilò il cerchietto con le orecchie da coniglio e si appoggiò allo schienale, reclinando la testa con aria davvero molto stanca.
Proprio perché era poco frequentata, quella parte del parco le piaceva molto: era lì che andava a rilassarsi quando si sentiva tesa, e ogni volta le veniva una nuova idea per la lezione che avrebbe fatto con i bambini della sua classe l’indomani. Spesso e volentieri li portava proprio lì, e ormai i bambini conoscevano tutte le papere che vivevano nel lago lì accanto per nome, anche se erano stati loro ad assegnarglieli.
Le oche bianche iniziarono a raggrupparsi dalla sua parte del lago, speranzose di ricevere qualcosa di sfizioso da mangiare.
La giovane si riscosse di scatto: aveva sentito qualcosa, troppo vicino «Chi è là?!».
Udì quella che sembrava un’imprecazione soffocata, poi qualcuno uscì con le mani in tasca da dietro un albero. Era un bell’uomo dai capelli ricci e bronzei, che sembrava essere un po’ più giovane di lei. La guardava come se l’avesse conosciuta tanti anni fa e fosse stato felice di rivederla, il che era era un po’ strano, ma piacevole.
La luce sembrò riflettersi per un attimo in modo strano sulla sua schiena, come se avesse avuto… ma batté le palpebre e l’impressione svanì.
Aveva sentito dire che i momenti vicini al tramonto erano quelli che facevano i giochi di luce più strani, dai flash verdi a immaginarsi delle ali di luce. Probabilmente.
«Chi era?» Chiese lui.
Hai una bella voce” Avrebbe voluto dirgli lei, che era una persona sincera, e invece gli disse «Chi?»
«Quello che hai visto. Hai urlato “chi è là”, sembravi allarmata»
«Probabilmente tu» ridacchiò lei «Ti avverto che ho dello spray al pepe, sei hai cattive intenzioni»
«Non ho né uno ne le altre» rispose lui, alzando le mani in segno di pace, ma sorridendo. Aveva un taglio fresco sul polso, leggero, ma da cui erano stillate un paio di gocce di sangue
«Oh. Ti sei fatto male?».
Lui seguì lo sguardo di lei e sorrise. «Oh. Non era mai successo» Disse, come se trovasse la cosa divertente. Ci passò sopra un dito, sporcandosi appena i polpastrelli del poco sangue che ne era sgorgato.
«Ho anche dei fazzoletti, se vuoi»
«È solo un taglietto» rispose lui, ma ne sembrava affascinato, e alzò il braccio per osservarlo meglio da un’angolatura diversa.
«Caspita, sembra che non ti sia mai successo davvero»
«È così»
«È meglio pulirlo lo stesso. Vieni vicino, dai».
La donna si preparò ad aiutarlo, ma nel tempo che ci era voluto al giovane per coprire la distanza che c’era tra i due, la ferita aveva già smesso di sanguinare. Lei gli ripulì comunque il braccio dal sangue
«Pina. E tu come ti chiami?»
«Amore» disse lui, e fu quasi sorpreso quando quel nome affiorò dalle sue labbra. Era uno che non usava da tanto, tanto tempo… eppure parve così naturale usarlo che, dopo un attimo, tornò ad essere il suo. Nel giro di una conversazione con quella donna, già non ricordava più che nome avesse usato fino a qualche ora fa.
In un modo o nell’altro, i due iniziarono a chiacchierare, come attratti da una calamita misteriosa.
Lei gli raccontò del suo lavoro e della sua vita, di come apparentemente i suoi superiori la odiassero perché era troppo buona con i suoi studenti.
«Che problemi hanno?» Chiese Amore
«Forse nessuno è stato abbastanza buono con loro, quando loro erano studenti» rispose lei, stringendosi nelle spalle.
Lui le raccontò una mezza verità: era un matchmaker. Avrebbe potuto dimostrarle di essere un dio, ma voleva parlarle da pari a pari; lei parve trovare molto, molto interessante una professione del genere, e a lui gli aneddoti non mancavano.
«Posso provarle?» Chiese Amore, con una risata, accennando alle orecchie da coniglio «Sono bellissime!»
«Ma grazie» rispose lei, «Ecco a te».
Gli spiegò che sarebbero servite per una lezione l’indomani. Era più facile insegnare ai bambini quando si divertono.
«È vero, confermo. Io sto ancora imparando molte cose» rispose lui, con un sorriso birichino
«Quindi sei un discolo?»
«Credo di sì. E tu?»

«Mmeh» lei fece segno di “così così” con la mano, ed entrambi risero. Il sole era ormai sceso lungo l’orizzonte, e Amore pensò che la risata di quella donna era così bella da poterle perdonare la maglietta che stava indossando. “Più bella di Afrodite”, c’era scritto, e lui aveva deciso subito che doveva punirla affibbiandole una bella cotta per il primo accattone che passava; poi lei si era accorta di lui. Come? Come aveva fatto? Era sempre entrato dove voleva, era riuscito a passare inosservato ovunque avesse voluto. Neppure gli déi si accorgevano di lui se non lo desiderava, aveva eluso la sorveglianza dei ciclopi come se niente fosse, e quella donna, invece, lo aveva sorpreso. Quella persona unica, gentile, speciale.
Per la prima volta era stato maldestro con le frecce, e aveva finito per tagliarsi nel metterle via. E poi aveva visto lei.
«Vediamoci ancora» Gli disse lei d’impulso. Lui accettò.
E accettò ancora ogni volta che lei glielo chiese, per altri sei mesi intensi, bellissimi… ed infinitamente troppo corti.


«È successo troppo in fretta» Sussurrò lui
«È naturale»
«Non può esserlo. Non può fare così male!»
«Amore...»
«I-io. Non è passato niente. Sapevo che non saresti mai potuta vivere per sempre, ma speravo che almeno, avresti, avresti potuto accompagnare questo me. Fino alla fine. Fino ad un nuovo nome».
Lei non parve sorpresa da quelle parole: nella sua nuova condizione, era in grado di scorgere a sua volta l’anima dell’amato. Aveva capito, e nel suo cuore si sentì onorata di aver avuto per sé l’affetto di un dio.
«Anche il dolore è naturale, Amore»
«Non abbiamo passato neppure un anno assieme. È crudele. Non riesco a… è troppo presto. È la seconda volta che mi faccio male. Solo tu… solo tu hai questo potere».
Era la prima volta che Amore si vestiva di nero, e qualcosa in lui gli aveva chiesto di non farlo come si usava di questi tempi, solo per formalità, con abiti che non sentiva suoi. Era la parte di lui che aveva iniziato a risvegliarsi quando si era presentato come Amore dopo secoli, quella che cercava la risposta ad una domanda silenziosa nel cielo stellato. Indossava una tunica nera, e la sua figura era parzialmente nascosta allo sguardo del mondo da un mantello con un cappuccio che gli celava i riccioli.
Davanti ad una tomba, nel cimitero della città, Amore stava con i pugni chiusi, le spalle tremanti.
Erano venuti in tanti, al funerale. Molti di loro erano giovani, alunni presenti e passati. Molti avevano pianto.
«Che ci fai ancora qui?» Le chiese gentilmente, voltandosi verso lo spirito della donna che aveva amato.
Ai suoi occhi di creatura divina appariva quasi come se fosse stata ancora viva, un’illusione quantomai crudele, ma lei non poteva restare qui. Non era questo il posto di uno spirito. Eppure voleva così tanto che rimanesse lì...
«Ho paura ad andare» Rispose lei. Il suo tono si incrinò, e lei abbassò il capo «Non voglio essere da sola. Non potresti accompagnarmi, Amore? Per favore. Solo un tratto di strada, e poi potresti tornare indietro».
E con la consapevolezza di un dio innamorato, Amore seppe che poteva fare questo miracolo per lei.
Prese l’arco d’argento e vi posò sopra un bacio, poi vi incoccò una Freccia dell’Anima. Nonostante gli anni che erano passati, le Frecce che Efesto aveva forgiato per lui erano ancora incredibilmente sensibili al suo tocco.
Ad ogni uomo le sue armi, come diceva Ares.
Nel momento in cui percepirono risuonarono con la sua anima, che aveva in sé la mutevolezza di un figlio del Caos, la Freccia e l’arco capirono che non potevano più servire il loro padrone così come erano. L’asta dell’arco si allungò, la freccia si fuse con la corda tesa, la lama si allungò, catturando la poca luce che le nuvole grigie lasciavano filtrare nel cielo fosco.
Amore sospirò e si voltò a tendere la mano alla sua amata, brandendo la sua nuova Falce, nata per proteggere la donna nel suo viaggio finale.
Lesse per l’ultima volta il nome sulla lapide adorna di fiori, prima che lei lo prendesse per mano e iniziassero a camminare insieme, piano piano.
Giuseppina Psiche.


Tutto era diverso. Amore non sentiva più le costrizioni di un corpo mortale, e sentirsi così libero ed immenso per un attimo lo disorientò. Si sollevò dalla presa gentile di un abbraccio, confuso nel sentire quell’azione così facile.
«Ci siamo svegliati» Gli disse Notte, un po’ canzonandolo, ma con affetto «È stato un sogno lungo, Amore. Non ti ho svegliato, anche se non è stato sempre sereno. Ho fatto bene?»
«Grazie, Notte mia» disse Amore, sporgendosi a baciarle il viso scuro
«Sento tenebre nuove nel tuo cuore, Amore, eppure non sono stata io a prestartele. Cosa accade?»
«Non crucciarti, Notte» lui sorrise «Sono mie. E le terrò care».
Il tempo non vuole dire nulla per gli déi, quelli veri, e Amore ha ali veloci.
Non si dimentica delle creature che lo hanno conosciuto, né come infante né come giovane uomo vigoroso, e si premura di non lasciar mai affrontare loro l’ultimo viaggio da soli.
Molti di loro non lo riconoscono senza arco e frecce, quando porta con sé una falce perché il loro cammino sia sicuro e sereno. Ma quei pochi che riescono a scorgere i suoi lineamenti e lo riconoscono, sorridono.
Dicono che il suo volto sia come la canzone di Notte e appaia di diverso agli occhi di chiunque lo scorga ora, e che sia un accompagnatore gentile, attento a non lasciare mai che chiunque accompagni nell’altro mondo smarrisca la strada, sostenendolo con le sue ali d’oro e difendendolo con la sua falce. Ormai anche lui ha appreso qual è il suo ultimo nome, ma ha scelto di non abbandonare il primo, e dispensa ancora visite sia come fanciullo dalle frecce d’amore che come traghettatore con la falce.
Chi lo riconosce lo segue con un sorriso, un passo alla volta, vedendo per l’ultima volta il volto d’Amore e Morte.

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