martedì 17 marzo 2020

Un boccaccio di Amuchina - 8. Anita



+ Anita, una storia di Eros Giannetta +
Ah, l’amore. Perché è questo quello di cui volete sentire parlare, non è vero? L’amore e la morte sono le cose che intrigano la gente di più, quelle che vi incollano al divano quando guardate un film, che vi fanno portare le mani al petto, come madonnine sorprese, quando sentite le vostre amichette e i vostri amichetti che spettegolano, solo che la morte è deprimente, ma l’amore… l’amore è eccitante. E io vi ecciterò.
Come… che c’entra che c’è un bambino che ascolta? E se non vuole ascoltare si tappa le orecchie.
Tappati le orecchie, Pinocchio, che cavolo. O vai a giocare col gatto in giardino o da qualche altra parte. Ah, non vuoi? E va bene, io ti avevo avvertito, perché questa è una storia da grandi.
Che significa che non hai paura? Questa mica è una storia di paura. E ora stai zitto, che sennò gli altri non se la godono a sentire la voce di un marmocchio come te.
Dunque, dov’eravamo? Ah sì, l’amore.
Ne esistono di molti tipi, e uno di questo, il mio preferito, è ovviamente Eros. Sì, proprio come il mio nome. Questa parola è greca, anche se alcuni esperti suggeriscono un’origine pre-greca, e significa “desiderio”. Eros è un dio delle origini e muove il mondo degli umani e delle bestie. Eros è in me, Eros è in tutti voi, ed è colui che garantisce la sopravvivenza dei nostri popoli.
Che c’è, perché mi guardate così? Ascoltate. Ascoltate. Eros è la parte migliore di noi e le sue storie sono di una bellezza ossessiva, perciò io vi racconterò il modo in cui fa muovere il mondo.
Persino io sono qui per colpa sua e ora vi racconterò come è successo.
Nacqui in Calabria nel millenovecentonovantaquattro, da madre cassiera e padre fieramente muratore, terzogenito, con due sorelle più grandi di me. La Calabria sa essere una terra silenziosa, quando vuole, e io fui avvolto da un silenzio che non potete immaginare.
Mi lasciavano da solo con le mie sorelle, in campagna, e loro non mi parlavano mai. Rimanevo seduto sotto gli olivi, che dove vivo io sono enormi, con enormi tronchi nodosi che sembrano sculture e rami che si curvano sotto il peso di fronde abbondanti e di ancora più abbondanti olive scure. Non piangevo quasi mai e tutti erano contenti di me: ero come ipnotizzato dalla luce che penetrava attraverso le foglie, disegnando tutto a terra come delle figure di luce dorata. Io me ne stavo lì, con il fondo dei pantaloni ben piantato in nidi di erba verde o di vegetali secchi, a pensare a che cosa dovessi fare.
I miei genitori erano molto impegnati e quando finalmente la sera tornavamo tutti a casa, io dopo non aver fatto niente tutto il giorno e loro dopo aver lavorato, non ci parlavamo praticamente mai.
Fino ai quattro anni di età non dissi una sola parola, tanto che i miei iniziarono a pensare che fossi ritardato. In realtà capivo tutto quello che dicevano, sia loro sia le mie sorelle.
Sapevo che le mie sorelle si vedevano con i loro fidanzatini. Sapevo cos’erano dei fidanzatini. Sapevo cos’era un bacio e che cosa significava. A volte mi stufavo di guardare la luce e gli insetti che volteggiavano, e allora guardavo loro, le mie sorelle, che si nascondevano nei cespugli e credevano che non le vedessi.
Era un amore innocente, il loro, del tutto infantile: erano troppo piccole per fare sul serio, sia loro che i rispettivi fidanzatini, ma imitavano probabilmente quello che avevano visto in televisione o letto sui libri. E io iniziai a imitare loro.
Quando a tre anni mi mandarono alla scuola materna, incontrai una bambina. Non sapevo il suo nome, probabilmente perché non glielo chiesi mai, ma ricordo che aveva una faccina rotonda dalla pelle abbronzata e due grosse trecce nere come inchiostro. Decisi in cuor mio che sarebbe stata la mia fidanzatina e così la baciai.
Diedi il mio primo bacio prima di dire la mia prima parola, e fu un bacio rubato. Lei, però, mi sorrise. Eh sì, ero un gran baciatore anche da bambino.
I miei genitori furono chiamati a scuola perché, a quanto pare, ero diventato ossessivo e non facevo altro che baciare questa bambina. Di questo non mi ricordo, ma i miei lo raccontano sempre e… beh, sono gente semplice, che non mente. Deve essere vero.
Provarono a farmi desistere in ogni modo dal mio comportamento. Fui sgridato, fui picchiato, messo in castigo, privato delle cassette dei cartoni animati. Non avevo mai guardato quelle cassette, comunque, perché le mie sorelle mi portavano in campagna appena i miei genitori uscivano e quando rientravamo guardavamo sempre i film per grandi, quindi non fu una perdita, inoltre mi ero convinto che le famose sofferenze d’amore, quelle di cui parlavano nei film che vedevo la sera, fossero proprio queste: essere sgridato, picchiato e messo in castigo.
Alla fine mi ritirarono dalla scuola materna. A cinque anni finalmente iniziai a parlare e i miei genitori, che credevano fossi un po’ ritardato, tirarono un sospiro di sollievo: sembravo proprio apposto. E sembrava anche che, a loro dire, non fossi più ossessionato dalle bambine.
In realtà non ero “ossessionato dalle bambine”, no. Ero ossessionato dall’idea dell’amore. Mi ero fatto un’idea mia di cosa fosse questo amore e, devo dire, non mi ero sbagliato.
Frequentando le elementari scoprii altre sfumature dell’amore, diverse da quelle che conoscevo: l’amicizia, la fratellanza e… l’amore romantico. Imparai a scrivere poesie. Le leggevo alle maestre e loro mi sorridevano felici e mi spettinavano i capelli.
Non provavo il desiderio di baciare le maestre, ma sapevo che avrei fatto tutto per loro. Le corteggiavo come se avessi qualche chance, ed ero pronto ad eseguire i loro ordini: pulivo i cancellini, portavo loro le borse, fingevo di essere attento alla lezione quando invece fantasticavo su come avrebbe potuto essere farsi imboccare da loro di biscotti alla crema. Era un’amore romantico senza traccia di malizia e…
Oh, ma sta zitto Pinocchio! Che c’è di male ad essere il cocco delle maestre? A te piace essere trattato male, vero? Io mi beccavo i sorrisi e le carezze, scommetto che a te ti prendono tutto a calci in cu… ehm, a calci nel sedere. Non guardatemi tutti così! E no, non ero un secchione: avevo voti bassissimi. Che vi ridete? Voi eravate tanto più bravi a scuola?
Comunque, le maestre mi adoravano. Dicevano che ero tenero, che ero carino e pieno di immaginazione. Portavo mimose a tutte nel giorno delle donne, regalavo fiori e cioccolatini quando era il loro compleanno, mi mettevo in piedi sul banco e leggevo loro poesie che avevo trovato in biblioteca. Più avanti iniziai anche a scrivere poesie io stesso e fu lì che i miei voti in italiano si alzarono… a dire il vero l’italiano è l’unica materia in cui io sia mai stato davvero, ma davvero bravo. Leggevo le gesta dei cavalieri, uomini pieni d’ardore e forza, capaci di affrontare a muso duro la morte e i nemici più terrificanti, eppure così delicati e romantici con le dame che amavano. La loro forza, la loro virilità, il loro coraggio provenivano dall’amore. Non c’era nient’altro che valesse più dell’amore per me, perché per amore valeva la pena di fare tutto.
Alcuni miei compagnetti, bulli fatti e finiti, mi derisero perché scrivevo le poesie alle maestre. Mi scagliai contro di loro con la furia di un novello Orlando e sebbene fossero di più, ne presero un sacco e una sporta. Certo, anche io le presi, e mi fecero un occhio nero, ma che me ne importava? Erano sofferenze d’amore, potevo sopportare questo e altro. Io ero un cavaliere, loro gli infedeli che non avevano alcun amore nella vita. Uscii pesto da quella rissa, ma dritto in piedi e urlante, mentre loro si allontanavano gridandomi «Tu sei pazzo! Sei pazzo!».
Nessuno mi diede più fastidio perché scrivevo poesie. Alcuni ragazzini delle altre classi mi guardavano con ammirazione, anche. «È un eccentrico» Dicevano quelli di quinta «Sa quello che vuole». E io sapevo davvero quello che volevo: ed era l’amore.
Nel mio modo puro e infantile, credevo che tutte le maestre mi amassero, anzi vi dico di più, credevo che mi amassero più di quanto amavano i loro stessi mariti. Quando le incrociavo per strada, e magari loro stavano passeggiando con il loro consorte, loro mi venivano sempre incontro. Lasciavano il braccio, la mano, il fianco del marito per venire a parlare con me, per accarezzarmi la testa o darmi una pacca di incoraggiamento, per ridere delle mie battute, e questo mi faceva credere, nella mia ingenuità, che questo significava che preferivano me. Preferivano me, ah!
«Ma suo marito le scrive mai delle poesie?» Chiesi una volta alla mia professoressa di matematica. Ero già pronto, nel caso mi avesse detto di sì, a chiederle «Ma sono belle come le mie?».
Lei però non mi disse di sì, mi guardò invece con un sorrisetto. Le altre mi guardavano con un gran sorriso, ma lei no: un sorrisetto era il massimo che concedeva a chiunque, perciò ero comunque piuttosto soddisfatto.
«No» Mi disse «Non credo che mi abbia mai scritto una poesia. Però è muscoloso, con muscoli come quelli che bisogno ha di scrivere poesie?».
Tutta la mia baldanza scomparve all’improvviso. E così la mia professoressa di matematica preferiva suo marito perché aveva un fisico più definito del mio? In effetti suo marito, un bodybuilder di centodieci chili con i capelli a spazzola, era ammirato da parecchie persone, compreso me che avevo iniziato a figurarmelo come un cavaliere… beh, adesso era un nemico. Un cavaliere nemico. Ma io ero soltanto un bambino! Non avevo modo di diventare come lui, non avevo il testosterone. Mi disegnai una barba finta, mi appiccicai dell’ovatta sul petto, ma non erano muscoli, erano finti peli, e me li fecero pure togliere perché era pieno inverno e con la camicina aperta per mostrarli rischiavo di prendere una polmonite. Ero grato alle insegnanti perché volevano prendersi cura della mia salute, ma anche molto deluso perché non avevano notato i miei nuovi, seducenti peli di ovatta.
Finiscila di ridere, Pinocchio cretino. Scommetto che fai ca… volate molto peggiori di questa. Almeno questa era motivata dall’amore.
I miei genitori erano fieri di me: sono persone che credono che la cosa più importante, per un figlio maschio, sia sapersi difendere, e io avevo dimostrato di non provare alcun timore. Nessun bulletto poteva farmi del male. Mentre sono sicuro che a te, Pinocchio, te ne danno così tante ogni giorno che… ahi! Ma sei scemo, mi hai dato un calcio? Ma io ti strappo la testa figlio di… non mi guardi così, signor Lazzaretti! Lei si fa prendere a calci senza rispondere? E che cavolo significa che è solo un bambino? Sì, sì, mi calmo, mi siedo, stia tranquillo. Tenga a posto quelle manone!
Dove ero rimasto? Ah, sì, alla mia infanzia, alle mie prime risse, alle piccole e dolci stupidaggini che feci per amore. E alla mia prima, straziante gelosia.
Più i giorni passavano, più odiavo il marito della mia insegnante di matematica. Si chiama Giovanni ed era ben lontano dall’essere il marito perfetto: era egoista ed egocentrico, maschilista, il contrario di galante, e lo sapevo perché avevo iniziato a spiare la sua vita. Insomma, dicevo a mia madre che andavo a giocare con i miei compagni, ma invece mi appostavo nel giardino della casa della maestra e ascoltavo da sotto la finestra, a volte mi azzardavo anche a guardare dentro, tanto se mi avessero scoperto avrei potuto dire che stavo solo giocando nel loro giardino e che ero passato per salutare.
Giovanni non indossava quasi mai la maglia, lo faceva per mettere in mostra il suo torso che sembrava scalpellato da Michelangelo, e secondo il mio parere era questa l’unica cosa che aveva fatto innamorare la mia maestra di lui. Mentre lei spazzava il pavimento, stendeva i panni al balcone, passava il mocio, cucinava, andava a prendere la loro unica figlia a scuola, lui faceva sempre le stesse due cose: beveva birra analcolica di fronte alla tv oppure si allenava. Giovanni si allenava a casa e anche in palestra, occupato quando sua moglie era in casa e sempre assente per tutto il resto del tempo. Non lo lodi, signor Lazzaretti! C’è poco da lodare, quando non si ha nient’altro nella vita che questa dannata palestra. Non sapevo che lavoro facesse Giovanni, ma la mia mente di bimbo arrivò a credere, forse a torto, che fosse persino disoccupato e che la mia amata maestra dovesse mantenerlo oltre che tenere a posto la casa per lui.
Come avrete intuito, avevano una figlia, ma la bambina non giocava o parlava quasi mai con loro: tornava a casa, tutta imbacuccata fra sciarpe e cappellini anche se la giornata era calda, e correva a nascondersi nella sua camera. Erano una famiglia molto poco unita, ma c’era una particolare distanza fra i due coniugi.
Poi un giorno li vidi baciarsi. La mia maestra con Giovanni, che si baciavano, capite? Sapevo che era suo marito e mi si spezzò lo stesso il cuoricino in un migliaio di piccoli pezzettini, ma ero giovane e si sa che i giovani guariscono meglio degli adulti. Tuttavia, porto ancora le cicatrici… la mia maestra preferiva lui, un uomo senza romanticismo, che non la chiamava mai con un nome affettuoso, che non la portava mai a vedere un film, che non cucinava mai per lei, che non le dava neanche una sana pacchetta sul cu… ehm… didietro. Oh, stai zitto, Pinocchio! Che ne vuoi capire tu di come si deve trattare una donna?
Comunque, mi misi in testa di affrontare Giovanni, come un cavaliere, in singolar tenzone. Lo avrei sfidato e mi sarei preso la mia bella maestra bionda, anche se era solo bionda tinta. Ma se era tinta o naturale, a me che importava? Era la cosa più bella che avessi mai visto, e poiché era di qualcuno che non la meritava, io la avrei salvata e fatta mia. Il problema era che mentre io ero un bimbetto pelle e ossa incapace di fare una sola flessione, anche se avevo un fuoco di ferocia e passione nel cuore, lui era un bestione probabilmente in grado di ammazzarmi con un solo pugno. Per diventare forte come lui mi ci sarebbero voluti anni e nel frattempo avrei fatto soffrire la mia bella maestra e questo non potevo sopportarlo! Così rubai la spada arrugginita che mio nonno aveva sopra il caminetto e andai a sfidarlo lo stesso, pensando che se fossi morto sarebbe stato tanto peggio per me, ma almeno sarei morto d’amore.
Giovanni era come al solito sul divano, con la sua birra analcolica e calda in mano. Mi ricordo che era un pomeriggio di fine Marzo e gli uccelli cantavano a perdifiato, come se facessero una gara: quello era il mio inno di battaglia, la musica che mi batteva nel cuore.
«Ti sfido!» Gridai attraverso la finestra.
Lui prese una sorsata, mi guardò e chiese «Chi sei, moccioso?».
Non sapeva neanche chi fossi. Preso da una rabbia incontenibile, balzai dentro la finestra. Sì, non ero buono a fare neanche una flessione, ma le gambe le avevo buone: ero il miglior saltatore della classe, forse dell’intera scuola. Con la spada come una lancia in resta, mi slanciai verso Giovanni, che vista la punta della mia arma capì la mia pericolosità e con insospettabile agilità si nascose dietro il divano. La mia spada rimase infilzata nel bracciolo e mi accorsi con orrore che avrei dovuto perdere un paio di secondi di tempo per liberarla, ma quei due secondi erano troppi e fui acciuffato per il colletto e sollevato come un gatto.
Ridi, ridi Pinocchio! Vorrei vedere te con una spada!
«Razza di deficiente!» Disse Giovanni «Potevi ammazzarmi!»
«È quello che voglio» replicai, guardandolo dritto negli occhi, già che da quell’altezza potevo
«Sei un piccolo idiota. Chi sono i tuoi genitori?».
Non glielo dissi, ero muto come una tomba e determinato a non fargli capire chi fossi. Non lo sapeva e io non volevo dargli nessun appiglio. Mi sgridò duramente, mi mise seduto, mi fece una ramanzina lunghissima sulla responsabilità e sugli oggetti pericolosi. Ogni secondo in cui parlava, il mio odio verso di lui cresceva e si acuiva, sempre più acido nel mio petto, e desideravo prendere la spada, infilzata ancora lì, a nemmeno trenta centimetri da me, e conficcarla nel suo misero e arido cuore che avrebbe dovuto essere colmo d’amore, e che invece era solo un muscolo ben lustrato ed allenato come tutti gli altri che si portava addosso.
Però, poi, arrivo la mia maestra. Ero così assorbito nei miei pensieri d’odio da aver dimenticato tutto il mondo intorno a me, tranne il volto di quell’uomo che disprezzavo, ma quando la donna che amavo entrò nel mio campo visivo, l’acido che si era aggregato intorno al mio cuore si sciolse e scivolò via.
«Che cosa è successo?» Chiese lei, occhieggiando alla spada e subito dopo a suo marito.
Giovanni mi indicò con aria esasperata e iniziò a spiegarle quello che era successo.
«Perché lo hai fatto?» Mi domandò la maestra.
Mi sentii fremere e scattai in piedi, gridando che la amavo e non potevo semplicemente guardare quando lei veniva trattata così dal suo uomo.
«Così come?» Ringhiò Giovanni, afferrandomi per il bavero «Che ne sai tu, moccioso?»
«Lascialo stare!» gridò la maestra «È solo un bambino!»
«Un bambino che voleva ammazzarmi. I suoi genitori non lo hanno educato e la scuola neanche, a quanto pare. Se nessuno di voi è capace di impartire una lezione a questo moccioso, lo farò io».
Gli tirai un calcio all’inguine con tutta la forza che avevo e voi lo sapete già, no? Avevo delle gambe piuttosto forti. Giovanni fece un verso strozzato, come se gli fosse andato di traverso un fagiolo, e mi lasciò andare per afferrarsi le pa… l’inguine. Non guardatemi così, non credo che Pinocchio si scandalizzerebbe per così poco!
Comunque, scappai e non fui inseguito, anche se sentii la voce della donna che amavo chiamarmi da lontano, con ansia. Ora lo sapevo, perché quella donna non sorrideva mai come le altre maestre: cosa aveva da sorridere, vivendo con un uomo così? Cosa aveva da sorridere, quando aveva paura di lui?
I miei genitori non vennero a sapere quello che avevo fatto a casa della maestra. Non so perché Giovanni decise di non dirlo, o se magari la maestra mi aveva protetto nascondendo il mio nome, ma i miei non vennero a sapere come era scomparsa la spada del nonno. E il nonno era smemorato, perciò neanche lo sapeva di avere avuto un’arma appesa sopra il caminetto.
Dopo quel primo tentativo, decisi di aspettare e crescere, di diventare forte abbastanza da sconfiggere Giovanni prima di salvare la mia bella maestra. Dovettero passare anni. In terza media ero alto quasi un metro e settanta ed ero robusto abbastanza da poterlo sfidare senza perdere di sicuro, ma insieme al mio corpo era cresciuta anche la mia mente e ora mi chiedevo se fosse davvero il caso di picchiare un uomo e rischiare di finire in prigione. La mia povera mamma sarebbe di certo stata molto dispiaciuta se suo figlio si fosse fatto mettere in gabbia, così ero molto indeciso sul picchiare Giovanni oppure no.
Nel frattempo Giovanni aveva anche perso un po’ di massa, perciò l’idea di combatterlo era sempre più allettante… quell’uomo stava invecchiando, io stavo crescendo. La mia ex-maestra di matematica invece era più bella ogni giorno che passava, ma anche più acida e non sorrideva quasi più. Ogni tanto passavo a salutarla e lo vedevo nei suoi occhi che lei era triste.
Un giorno, però, fu lei a passare a scuola da me. Lei era una maestra delle elementari, perciò pensai che l’unico motivo per cui fosse alle medie era che fosse venuta a dirmi qualcosa di importante. Forse, ora che ero cresciuto un po’ lei si sentiva attratta da me ed era pronta a lasciare suo marito?
Scoprii che non era venuta per me, ma per prendere sua figlia, quella sempre imbacuccata in sciarpe e cappellini. Per spezzare una lancia in favore della ragazza imbacuccata, quel giorno faceva abbastanza freddo e c’era un gran vento… un vento così forte che le fece volare il berretto in una pozzanghera.
«Oh no!» Gridò la ragazzina e la sua voce fu come balsamo sulle cicatrici del mio cuore.
Vidi il suo volto, o almeno una parte di esso, ed ebbi una specie di fulmine, un ricordo ancestrale di quando ero molto piccino. Un volto rotondo, olivastro, perfetto. Un paio di occhi come carboni ardenti che scavavano nel mio cuore.
Avevo già visto quella faccia, in un tempo che parve alternativo e lontanissimo: lei era la bambina a cui avevo dato il mio primo bacio. Era la figlia della maestra che avevo amato per tutto il periodo delle elementari e, scoprii più tardi, era anche la nipote della preside che amavo alle scuole medie. Era un distillato di amore.
Quella notte, solo ripensando a lei mi prese una gran fiamma nel cuore e una stretta ai muscoli che corse giù fino a… giù. Corse fino a giù. Non mi guardi così, signor Lazzaretti: io la amavo. Iniziai a pensare a lei ogni volta che… avete capito, no?
Non guardavo neanche più il porno. Che c’è, si può dire porno, no? Non è una parolaccia.
Le scrissi una poesia, la firmai e gliela feci trovare sotto il banco. Io ero nella sezione A, lei nella sezione B: mi bastò chiedere come si chiamasse a una delle sue amiche per venire a conoscenza del nome più bello del mondo, Anita.
Due giorni dopo, Anita venne da me. Aveva un’aria timida, ma quando parlò era risoluta.
«Non ti conosco» Mi disse «Perché mi hai scritto quella poesia?»
«Perché la tua voce è miele e balsamo» le risposi incantato «Perché la tua pelle mi parla delle dune di deserti lontani e del profumo delle liquirizie che crescono nelle nostre fiumare. Ti ho vista senza cappello e il mio cuore è saltato in alto come un atleta olimpico: così in alto che ha afferrato una stella, e quando è tornato giù nel mio petto sentivo la luce irradiarmi da dentro»
«Davvero pensi questo?» chiese lei, arrossendo e indietreggiando un poco.
E il suo rossore era delizioso, come lo schiudersi dei primi fiori di geranio su un balcone sudtirolese che per tutto l’inverno era stato cosparso di neve. Il suo rossore era il mio eros e la mia ossessione.
«Vuoi uscire con me? Ti dimostrerò chi sono. Sarò all’altezza» Le dissi.
Lei si guardò intorno. Forse pensava che fossi pazzo e forse lo ero. A quattordici anni gli ormoni iniziano a batterti alla testa e io sapevo già cos’era l’amore, anche se i miei sentimenti non erano mai stati ricambiati appieno.
«Sì» Disse lei «Ti va giovedì? Andiamo a mangiarci una pizza»
«Certo» risposi, poi mi chinai a baciarle una mano e rientrai in classe perché il professore di disegno tecnico stava strillando il mio nome a ripetizione insieme a minacce che non ripeterò perché c’è un bambino che ascolta.
Giovedì, però, io non potei uscire con lei: una delle sue compagne venne da me e mi disse che si era trasferita. Si era… trasferita, capite?
«Dove?» Chiesi
«Non lo so» rispose.
Nessuno sembrava sapere dove fosse andata. La mia maestra e sua figlia, le donne che avevo amato di più al mondo, erano entrambe sparite dalla faccia della terra senza lasciare traccia. Indagai senza sosta, chiesi a tutti nel paese, conosciuti e sconosciuti, e tutti sapevano che si erano trasferiti, ma nessuno dove. «Ad Amsterdam» Mi disse un vecchio sdentato, ma suo fratello lo corresse «Guarda che sono andati a Timbuctù» e io non seppi proprio dove andare.
Fra l’altro, non avevo abbastanza soldi per andare ad Amsterdam, figuriamoci poi a Timbuctù. Non avevo mai viaggiato in vita mia, tranne che con la fantasia, ed ero un disastro ad organizzarmi. Non sapevo neanche prendere l’autobus, come avrei potuto cercare il mio amore in una città lontana ed enorme come Amsterdam? Quanto a Timbuctù, non sapevo neanche dove si trovasse, ma aveva un nome troppo africano per i miei gusti. In Africa non ci volevo andare: mia madre mi diceva sempre che c’erano la mosca tsé tsé, il beri beri, l’AIDS, la febbre del nilo e la fame dappertutto. Non riuscivo neanche ad immaginare la mia bellissima Anita circondata da cose tanto brutte. Oh, la mia povera Anita! Lei avrebbe dovuto essere circondata solo da fiori e coltri di seta, incorniciata da un cielo blu zaffiro, non buttata in mezzo alla povertà e alle malattie.
E poi non ero sicuro che si trovasse in uno di questi due posti, perché i vecchi fratelli erano dei burloni smemorati che pensavano che Dragonball fosse il nome di Goku.
Ah, lo sapevo che era colpa di Giovanni! Quell’uomo doveva aver saputo che sarei uscito con sua figlia quel giovedì sera, e per impedirglielo me l’aveva portata via.
Disperato, mi diedi all’alcolismo: bevevo due birre al giorno, il massimo che potevo permettermi con la mia paghetta, ma non mi ubriacavo mai abbastanza da dimenticarla, al massimo diventavo un po’ brillo e piangevo. Stai zitto Pinocchio, tu non sai com’è soffrire per amore! Tu sei un coso a cui nessuno vuole bene e che non vuole bene a nessuno.
Dopo un po’ smisi di bere, perché per comprare due birre al giorno non mi rimanevano abbastanza soldi per comprare un giornaletto alla settimana… un giornaletto che… avete capito, no? Quelli con le donne. Ora che Anita non c’era più, dovevo pur fare qualcosa.
Poi, piano piano, ricominciai a corteggiare altre donne vere. Sì, esatto, corteggiavo anche quelle sui giornaletti, almeno nella mia mente: senza corteggiamento non mi divertivo per niente. Una donna va amata, ma amata davvero.
Ricominciai ad uscire con mie coetanee ed ebbi altri baci, altri appuntamenti, altro. Ma una voce lontana nel retro del mio cervello cantava sempre il suo nome, Anita. E io cercavo sempre ragazze che avessero qualcosa di suo… niente mi eccitava più di scorgere un volto rotondo, o una carnagione abbronzata, o due splendidi occhi scuri, e mi innamoravo perdutamente anche di quelle che indossavano sciarpe e cappellini. Ah, eros che mi stregò! Eros che mi legò! Qualunque ragazza che le somigliasse anche solo da lontano, strizzando gli occhi, o che avesse una voce dolce anche solo la metà della sua mi mandava in tilt il cervello e… tutto il resto.
A scuola mi beccai una nota sul registro almeno un migliaio di volte perché continuavo ad incontrare altre donne nei bagni o nella sala dei bidelli e mi scordavo sempre di tornare in classe. I miei amici mi dicevano sempre che dovevo smetterla, che dovevo trovarne una che mi amasse davvero e stare con lei fuori dalla scuola, ma che potevo farci io? Le amavo tutte. Avevo bisogno di tutte, perché c’era quella con la voce simile a quella di Anita, ma volevo anche quella con i capelli di Anita e quell’altra che era sua cugina e quindi aveva un po’ del suo DNA e quell’altra che era freddolosa uguale, quell’altra che era timida e quella che era determinata, e tutte erano un po’ lei quindi dovevo stare con tutte loro.
Poi finalmente mi diplomai, dopo essere stato bocciato due volte. Fu quando andai a vedere il mio voto finale, affisso sulla bacheca all’entrata della scuola, che incontrai una donna molto speciale… la preside delle scuole medie che non vedevo da anni. La zia di Anita.
Non somigliava affatto a sua nipote, ma l’idea che potessero condividere un po’ di genetica mi eccitava comunque, anche se quella donna aveva cinquantacinque anni.
«Giannetta!» Mi salutò lei «Finalmente ti sei diplomato, briccone!»
«Chi la dura la vince» risposi, cercando di mostrarmi fiero
«Eh… pure mia nipote Anita è stata bocciata un paio di volte, ma alla fine ce l’ha fatta. Mi ma mandato il risultato due secondi fa, con un messaggio. Lo sai che avete dato gli orali lo stesso giorno?».
Fremetti dalla punta dei piedi alle punte dei capelli. Lo stesso giorno? E anche lei era stata bocciata due volte? Forse aveva pensato a me come io avevo pensato a lei, forse anche lei si era gettata sui ragazzi che mi somigliavano, forse mi desiderava ancora come io desideravo lei, e questo mi diede al contempo una fitta di gelosia lancinante e una cucchiaiata di splendente felicità dolcissima.
«Anita?» Boccheggiai, così, come un pesce che era stato buttato sul cemento «Dov’è lei? Non la vedo da… da...»
«Anita è a Caltaleone» rispose lei, con un sorriso, e mi parve che la luce le facesse da aureola intorno alla testa, per un gioco di luce dovuto alle nubi che correvano fuori.
Il mio angelo custode stava parlando attraverso di lei: ora sapevo dove si trovava Anita.
Cercai lavoro e lo trovai come cassiere, poi come magazziniere di farmacia, raccoglitore di olive, raccoglitore di arance, muratore, e mi spaccai la schiena di lavoro con furia. I miei genitori erano fieri di me, del mio duro lavoro.
«Chi la dura la vince, chi la dura la vince» Mi ripetevo, mentre tiravo le reti e raccoglievo le olive, mentre portavo a braccia cassette di venti chili. Lavorai per due anni.
Avevo bisogno di soldi, di tutti i soldi che potevo mettere da parte, per andare a Caltaleone, comprare una casa, vivere per sempre insieme alla mia Anita. I soldi per comprare una casa ancora non ce li ho, ma ne ho abbastanza da vivere per un po’ qui e aspetto di trovare Anita e poi di trovare lavoro. Mi manca poco, davvero poco. Mi mancava poco…
È per questo che sono qui a Caltaleone, perché cerco lei, l’amore della mia vita, l’eros che mi travolge e fa fremere.
Ma il fato mi è avverso: adesso che sono nella città di Anita, una calamità si abbattuta su tutti noi, il coronavirus, e trovarla è ora più difficile che mai, come se la mia amata fosse a migliaia di chilometri da me.

Attenderò con tutti voi qui, ma quando uscirò la troverò. E quando la troverò la… beh, avete capito, no?
Perché è l’eros che guida la mia vita, il motore delle mie gambe, delle mie braccia, della mia mente. E Anita è il mio eros.





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