Oggi voglio condividere una cosa piccolissima, ma intensamente bella, che mi sono ricordata. Sembra che sia sconnessa da tutto quello che sto postando in questo periodo, ma ho bisogno di raccontarvela.
La canzone di Oceania, quella in cui la nonna parla a Moana, mi ha fatto piangere la prima volta che l'ho ascoltata. Ovviamente è stato un pianto sommesso, nascosto dietro denti stretti, dietro la tensione delle guance, con la faccia bassa... ma è stato un pianto liberatorio, un pianto di gioia.
"Perché esiti?"
"Non lo so".
Quando la canzone è iniziata, immediatamente ho sentito che qualcosa era familiare. Era come se qualcosa in quelle specifica scena stesse iniziando ad essere più coinvolgente del resto del film, che pure è bellissimo.
La protagonista si sente sconfitta, pensa che il suo viaggio sia finito lì, che non ci sia più niente da fare: ha fallito, la sua missione era più grande di lei.
"Non lo so" Dice, quando la nonna gli chiede perché esita.
Io lo sapevo, perché esitava: perché quando senti che niente di quello che farei potrà avanzare il tuo viaggio, è dannatamente difficile darsi una svegliata, scrollarsi di dosso la fatica e la paura, e continuare, perché sembra un comportamento troppo simile alla pazzia: continuare a fare sempre la stessa cosa aspettandosi un risultato differente. Io esitavo. Esitavo. Non esistevo.
"Moana ascolta, Lo sai chi sei?" Gli domanda la nonna, dopo aver cantato quella che fino a quel momento avevo considerato una canzone come tante altre, per tirare su di morale l'eroina. Sapete, no? La classica cosa su come il viaggio ti lascia cicatrici che rivelano chi sei, la gente che ti ama ti cambia, cose così.
E io, in quel periodo, non avevo assolutamente idea di chi fossi. Stavo cercando di uscire da un periodo della mia vita, un lunghissimo orribile periodo, in cui avevo dovuto annullare me stessa, i miei gusti, la mia personalità, per sopravvivere. Chi ero io? Era terribile, non avere un'identità, non sapere chi fossi e se meritassi di continuare ad esistere.
"Chi sono io?" Si chiede la protagonista in un sussurro, facendo eco perfetta ai miei pensieri. Come se fosse me, nella stessa voce che avevo sentito nella mia testa.
"Sono una ragazza che ama la sua isola, e una ragazza che ama il mare... mi chiama".
Un brivido mi ha attraversato la schiena, partendo dal collo e scendendo lungo la spina dorsale. Io sono nata su un'isola. Quand'ero piccola, più o meno a dodici anni, sono stata costretta da mia madre a lasciare la terra che amavo. L'ho sognata quasi tutte le notti, per anni: le mie strade, i miei edifici, la mia scuola, le facce dei miei compagni di scuola, il sole dorato che sembrava amplificare i colori e i contrasti. La mia isola mi chiamava e più che una chiamata era un grido costante nelle mie orecchie, non c'era nient'altro che la mia isola, dedicavo ad essa le canzoni d'amore.
E mentre guardavo quel film, ero da poco tornata a casa, nella mia isola. Ce l'avevo fatta, ce l'avevo fatta, ero nella mia isola.
"Siamo discendenti di viaggiatori
Che hanno trovato la loro strada attraverso il mondo
Mi chiamano".
E la mia isola è stata abitata da così tanta gente, da così tanti popoli, da così tanti viaggiatori... la mia città, vicina al mare, è ed è sempre stata meta di navi da tutto il mondo. Da dove veniva la mia gente? Siamo stati arabi e normanni, siamo stati greci e sicani. Perché sentivo questo richiamo enorme per il viaggio, un richiamo che al contempo mi chiedeva di tornare a casa e di vedere il mondo? Stava parlando di me?
"Io ci ho portato dove siamo
Ho viaggiato più lontano
Sono tutto ciò che ho imparato e di più
Eppure mi chiama ancora".
Ero riuscita a tornare a casa dopo un viaggio periglioso, dopo essere stata lontana per letterali decenni, anche se avevano provato in ogni modo ad impedirmelo, e tutto grazie ad un piccolo laptop, uno scanner, una penna biro, una tavoletta grafica economica: i miei disegni (i miei "pupacchiotti" come i miei genitori li chiamavano con condiscendenza) mi avevano portata a casa, avevano pagato la mia indipendenza.
"E la chiamata non è affatto là fuori
È dentro di me
È come la marea
Che sempre sale e scende"
La mia fame di vedere ogni cosa era ancora lì, dentro al mio petto; conoscere, conoscere tutto, vedere e leggere e scoprire e viaggiare, fosse anche solo con i miei piedi perché non ho soldi per altro, fosse anche solo con il dito sull'atlante.
Ecco chi ero. Ecco chi sono. Sono la fame di conoscenza, la curiosità, l'amore per la sua terra.
"Ti porterò qui nel mio cuore
Mi ricorderai
Che qualunque cosa accada
Conosco la strada
Io sono Moana!"
Mia nonna materna è morta quando ero molto piccola. Mi raccontano che mi amava moltissimo. Tutto quello che ho di lei sono le sue ricette, alcuni scritti, una foto in cui mi tiene in braccio. Non ricordo la sua voce o la sua faccia o il suo odore. Anche se ho visto la sua faccia, in delle fotografie, non riesco a ricordarla mentre chiudo gli occhi.
Ma mi dicono che amava i libri, più di ogni altra cosa, e gli animali, e le storie antiche e la sua terra e me.
In quel momento fu come se stessi ascoltando lo spirito di mia nonna. L'avrei portata nel mio cuore, mi avrebbe ricordata che, qualunque cosa accada, io conosco la strada.
Quel film stava parlando a me.
Quando ho riascoltato la canzone, dopo quella volta, ho fatto molta più attenzione anche alla prima parte e, oh, la porto sempre con me da allora.
"Le persone che ami ti cambieranno
Le cose che hai imparato ti guideranno
E niente su queste Terra può mettere a tacere
La voce silenziosa ancora dentro di te
E quando quella voce inizia a sussurrare
Moana sei arrivata fin qui
Moana ascolta
Sai chi sei?".
Non ho niente in comune con Moana: non la mia etnia, non il mio colore, non la mia storia familiare, non la mia età. Niente. Eppure quella canzone parlava di me e ha risuonato con me e con la mia storia personale in un modo profondo. Chiudendo gli occhi, potevo immaginare che parlasse del mio mare, della mia gente, delle mie cicatrici.
"Sai chi sei?".
Ora sì. E non importa se questo significa una lunga, interminabile solitudine... quella canzone mi ha ricordato che c'è una bellezza eroica nell'essere chi si è, nonostante tutto, nel viaggiare da soli, nell'imparare tanto da sé stessi quanto dagli altri. I nostri fantasmi, a volte, sono formidabili bussole nel mondo. Ed è incredibile che a ricordarmelo debba essere stata una canzone che viene da un film animato per bambini.
"Io so la strada, io sono ________".