domenica 20 agosto 2017

Sunset 6. Palla di lamiera



Il lunedì mattina successivo, i ragazzi che incontravo nel parcheggio della scuola mi salutavano. Non ricordavo i loro nomi, ma restituivo i saluti e sorridevo a tutti, cercando però di evitare di sembrare una psicopatica di quelle che sorridono sempre come una bambola demoniaca. Non era facile, ma ci provavo.
Faceva più freddo, ma per fortuna non pioveva. Durante la lezione di inglese, Mike si sedette accanto a me, come al solito. A sorpresa, il professore ci diede un questionario su Cime Tempestose. Era elementare, molto facile, e lo finii con grande soddisfazione.
Quando uscimmo dall'aula, vedemmo volteggiare per aria qualcosa di bianco e leggere, come tante piccole piume d'oca o coriandoli. Sentivo gli altri schiamazzare e lanciarsi gridolini allegri. Il vento mi frustava le guance e il naso, incollandomi alla faccia quelli che avevano tutta l'aria di essere fiocchi di...
«Ehi!» Esclamò Mike, allargando le braccia «Nevica!».
Osservavo i batuffoli ammassarsi piano lungo tutto il marciapiede, fluttuare lungo traitettorie imprevedibili davanti al mio naso.
«Oh!». La neve. Ecco una sorpresa che non mi aspettavo.
Lui sembrava deluso «Non ti piace la neve?»
«Scherzi!» mi riscossi subito «È fantastico! E poi se nevica, vuol dire che non sta piovendo, il che va molto molto meglio. È fantastico» ripetei, meravigliata «E poi, sai, pensavo che venisse giù a fiocchi più piccoli, hai presente, ognuno diverso dagli altri, ma non puoi notarlo se non con un microscopio... non immaginavo che la neve fosse...» tirai fuori la lingua per catturare una delle sottili sfogliette bianche volteggianti, assaporandone il freddo «...Così divertente»
«Non hai mai visto la neve?» chiese lui, incredulo
«Certo che si» attesi un istante, poi gli feci l'occhiolino «In televisione».
Mike rise. Subito dopo, una grossa e viscida palla di neve si abbatté sulla sua nuca. Ci voltammo entrambi per vedere da dove venisse, ma non c'erano chiari indizi, sebbene avessi un sospetto su Eric, che si stava allontanando nella direzione opposta a quella dell'aula in cui sarebbe dovuto andare. Mike la pensava allo stesso modo, dunque si piegò e iniziò a fare una palla con il soffice strato gelido.
«Ci vediamo a pranzo, ok?» Parlavo continuando a camminare «Quando qualcuno inizia a tirare roba fredda e umida, io mi rifugio al coperto».
Lui annuì solamente, evidentemente non disturbato dal fatto che non volevo unirmi alla battaglia desso, con gli occhi fissi sulla sagoma di Eric che si allontanava.
Per l'intera mattinata, ovviamente, non si fece altro che parlare della neve: a quanto pareva, la prima nevicata dell'anno. Io ero entusiasta quanto se non più di loro e quasi quasi iniziavo a pentirmi di non essermi unita a Mike nella vendetta contro il tiro mancino di Eric... certo, la neve era solida, ma non volevo che mi si sciogliesse dentro i vestiti se qualcuno mi avesse tirato una palla di neve. Ero un po' vergognosa nel sentirmi una signorina tutta per bene, ma certi tipi di disagio fisico (come acqua fredda che mi cola nelle calze o dentro il cappotto) non li sopportavo bene.
Dopo la lezione di spagnolo entrai in mensa insieme a Jessica, con circorspezione, perché volavano palle di neve dappertutto. Tenevo in mano una cartellina di plastica decorata a boccini d'oro, da usare come scudo in caso di necessità. Jessica pensava che stessi scherzando, ma qualcosa nella mia espressione la trattenne dal tirarmi lei stessa una palla addosso.
«Non ti conviene, hai fatto bene» Dissi immediatamente, mortalmente seria «Non ti piacerebbe fare una battaglia a palle di neve con me».
Mike ci raggiunse all'entrata, con il sorriso sulle labbra e le punte dei capelli ghiacciate, simile ad una giovane e bizzarra creatura dei ghiacci. Mentre facevamo la fila per il cibo, lui e Jessica parlavano animatamente della battaglia appena finita, descrivendo grandiose manovre militari che alla prova dei fatti non erano state questo granché. Sorrisi, cercando di non dare a vedere che era per via del loro discorso ridicolo.
La forza dell'abitudine mi fece dare un'occhiata al solito tavolo nell'angolo, quello con i ricchi snob. Per un attimo lo stomaco mi sobbalzò nel ventre: erano in cinque.
Jessica mi tirò per un braccio
«Pronto? Bella? Cosa prendi?»
«Un capelli-pazzi» dissi, sovrapensiero, così piano che forse non lo capirono neanche (per fortuna)
«Cos'ha Bella?» chiese Mike a Jessica
«Niente» risposi in fretta «Prendo una soda, un'insalata con il radicchio e un po' di pasticcio di pollo»
«Non hai fame?» chiese Jessica, la quale sapeva che di solito volevo assaggiare di tutto
«A dir la verità... no. Cioè, si, ma...»
«Stai bene?»
«Si, sto bene». Certo che stavo bene. Perché d'un tratto mi era passata la fame? Solo perché avevo visto Edward "sonopsicopatico" Cullen seduto al tavolo con i suoi fratelli?
Aspettati che Jessica e Mike prendessero da mangiare e li seguii fino al tavolo, guardandomi le punte dei piedi.
Sorseggiai la soda piano piano, mi brontolava lo stomaco. Mike mi domandò due volte, scherzando, se stavo male e io risposi abbassandogli i capelli con una mano. Inorridito, lui cercò di tirarsi su le punte afflosciate e io e Jessica ridemmo.
Decisi di concedermi un altro sguardo al tavolo dei Cullen. Se avessi incrociato i suoi occhi che mi fissavano con ira, mi sarei alzata e avrei scatenato un inferno di palle di neve, non importava se mi si fossero sciolte tutte dentro il reggiseno, avrei combattuto come Leonida contro i persiani. Era o non era quella la culla degli spartani? Eh?
Sempre a testa bassa, sbirciai di sottecchi: nessuno di loro era voltato dalla mia parte. Alzai un po' la testa, fiduciosa.
Ridevano. Edward, Jasper ed Emmett avevano i capelli pieni di neve e quelli del fratello più piccolo sembravano una specie di gelato granitoso e scompigliato. Alice e Rosalie cercavano di tenersi lontane da Emmett, che si scrollava la non molto folta chioma davanti a loro, come un cane. Si stavano godendo la giornata come chiunque altro, per una volta non stavano fissando il muro.
A parte le risate e i giochi, tuttavia, c'era qualcosa di diverso, e a prima vista non riuscii a capire cosa. Osservai Edward con più attenzione e notai che era meno pallido e le occhiaie erano molto meno evidenti. Ma c'era ancora qualcos'altro! Continuai a scrutarlo, meditando e cercando di isolare cos'era cambiato.
«Bella, cosa stai guardando?» Disse Jessica, interrompendo la mia riflessione e cercando di seguire il mio sguardo
«I Cullen» dissi «Oggi non sembrano deficienti come ieri. O come la settimana scorsa. O come sempre».
In quel preciso istante, gli occhi di Edward guizzarono come lampi e incontrarono i miei. Non abbassai lo sguardo, come avrei fatto con chiunque altro, perché ero furiosa con lui, assolutamente furiosa. Tuttavia questa volta non sembrava che mi stesse minacciando, era curioso e in qualche modo insoddisfatto.
«Edward Cullen ti sta fissando» bisbiglio Jessica, con un sorrisetto
«E io sto fissando lui» risposi, senza distogliere lo sguardo e spalancando gli occhi «Guarda come lo sto fissando»
«Siete impazziti?» bisbigliò ancora lei
«Può darsi, ma cederà, vedrai. È un coniglio»
«Sei fuori di testa» rise lei, dandomi una pacca su un braccio.
In quel momento Mike ci interruppe mettendosi proprio fra me e Cullen: stava progettando un'epica battaglia a palle di neve nel parcheggio, dopo le lezioni, e voleva che ci unissimo anche noi. Jessica accettò con entusiasmo, io annuii debolmente. Avrei portato con me il mio scudo-cartellina e avrei cercato di rimanere quanto più possibile in disparte, per non dovermi bagnare e prendere un malanno, ma se avessi potuto colpire la faccia bianca di Edward Cullen con un pupazzo di neve intero non ne avrei perso l'occasione.
Finimmo di mangiare e di tanto in tanto scoccai un'occhiata al mio nemico, ma i nostri sguardi non si incrociarono più.
Non avevo molta voglia di farmi accompagnare in classe da Mike come al solito, visto che lui era uno dei bersagli preferiti dai cecchini delle palle di neve, ma all'uscita tutti, tranne me, alzarono all'unisono un lamento di delusione. Pioveva, e l'acqua lavava via ogni traccia di neve trasformandola in rivoli ghiacciati e trasparenti che correvano lungo il bordo del marciapiede. Io mi alzai il cappuccio, delusa: la neve era così bella.
Dopo la lezione di ginnastica avrei potuto tornare direttamente a casa, senza partecipare ad alcuna fastidiosa battaglia, ma non ero così sicura che fosse una cosa buona.
Durante tutto il percorso fino all'edificio 4, Mike non fece che lamentarsi e io incrociai le braccia
«Nevicherà di nuovo, vedrai» lo consolai «Magari di pomeriggio. Non è così divertente prendere palle di neve in testa, quando sei a scuola».
Una volta in classe, mi accorsi con sollievo che il mio tavolo era vuoto. Il professor Banner camminava per la stanza e distribuiva ad ogni tavolo un microscopio nero e una scatola di vetrini. La lezione sarebbe cominciata da lì a qualche minuto e nell'aula regnava un vivace chiacchiericcio. Mi misi a scarabocchiare sulla copertina del quaderno, disegnando un pupazzo di neve con i capelli di Edward Cullen con un gatto che lo graffiava tutto. Il gatto, ovviamente, era il mio Dracula.
«Ciao» Disse una voce bassa, melodiosa.
Alzai gli occhi, sbalordita dal fatto che si stesse rivolgendo proprio a me e proprio con quel tono. Era seduto al mio stesso banco, ma più distante possibile da me, come se puzzassi oppure come se temesse che lo potessi picchiare da un momento all'altro, ma la seggiola era voltata nella mia direzione (probabilmente per pararsi meglio in caso di attacco). I suoi capelli già normalmente ridicoli erano fradici, spettinati, come quelli di una stupida pubblicità di un qualche gel per ragazzini. Il suo viso splendente era amichevole, inquietantemente luminoso (non sto scherzando, sembrava una lampadina), con l'ombra di un sorriso sulle labbra perfette. Lo sguardo, però, esprimeva l'ovvia cautela.
«Mi chiamo Edward Cullen» Continuò «La settimana scorsa non ho avuto occasione di presentarmi. Tu devi essere Bella Cigna».
Mi girava la testa per la confusione. Mi ero inventata tutto? Ma certo che no, l'avevano visto anche gli altri! Che razza di lunatico, ora sembrava educato.
«Senti, Eduar Carne» Risposi io, storpiando volutamente il suo nome «Non so da dove vieni, anzi, lo so che vieni dall'Alaska, ma non credo che funzioni così da te»
«Così come?» chiese, sempre con un'ombra di sorriso ad aleggiargli in faccia
«Così come?» sbottai «L'ultima volta mi hai guardata male per tutto il tempo, non mi hai rivolto la parola e sei scappato ogni volta che ho provato a capire che cavolo avevi. Che cavolo avevi?».
Lui parve confuso. Di tutte le espressioni che avrebbe potuto fare, quella confusa era la meno plausibile: io avevo il diritto di essere confusa, non lui. Lui era fuori di melone e se pensava che quel sorrisino avrebbe attaccato con me come supponevo che attaccasse con le altre ragazze, disposte a perdonarlo perché aveva un faccino da modello, si sbagliava grosso come un diplodoco.
«Allora?» Lo punzecchiai, ancora «Perché ti sei comportato così?»
«Ci deve essere stato un malinteso» rispose lui, modulando deliziosamente la voce «Non volevo sembrarti sgarbato»
«Hai un modo strano di non sembrare sgarbato» replicai
«Scusami, Bella, allora» disse, senza però sembrare sconfitto.
Grazie al cielo il professor Banner iniziò la lezione proprio in quel momento. Cercai di concentrarmi, mentre spiegava l'esperimento del giorno. I vetrini erano in ordine sparso e lavorando a coppie dovevamo separare ed etichettare epitelio di cipolla in base alla fase di mitosi in cui trovavano. Senza usare libri. Avevamo venti minuti di tempo.
«Iniziate pure» disse il professore.
Edward mi guardò, poi fece uno strano sorriso sghembo
«Prima le donne, collega?»
«Li faccio io» dissi, tagliando corto «Ho già fatto questo esperimento, una volta, e non ho bisogno che un tuo sbalzo d'umore ti faccia decidere che una profase sia in realtà un'anafase per poi farti dire che "non intendevi dire anafase", ok?».
Sistemai il primo vetrino nell'apparecchio e lo esaminai. Avevo già fatto prima d'ora quell'esperimento e volevo pavoneggiarmi di fronte ad Edward, per non parlare del fatto che volevo imbarazzarlo. Misi a fuoco l'ingranditore, procrastinai un'istante, poi dissi ad alta voce
«Profase».
Ero sicura della mia analisi, ma Edward domandò
«Ti dispiace se ci do un'occhiata?» proprio mentre rimuovevo il vetrino dal microscopio. Mentre parlava, mi prese la mano per fermarmi: le sue dita erano fredde come il ghiaccio, come se prima di entrare in classe le avesse tenute dentro un cumulo di neve. Mi staccai subito da lui e lo spinsi con una piccola spallata
«Non toccarmi le mani» lo redarguii «E no, non ci puoi dare un'occhiata»
«Perché?» domandò lui, stavolta sembrando davvero sconfitto
«Perché mi hai toccato la mano senza permesso. E sei scortese. Prima finirò il mio esperimento, poi tu potrai fare tutti i giochini che vorrai e ingrandire le ali dei grilli e dire "oooh che belle" con il microscopio, ma fino ad allora lascia che siano le persone mature a fare i compiti»
«Sei cattiva» replicò lui e mi sentii fiera di me.
Tuttavia lui rimase piegato verso il microscopio e dovetti toglierglielo da sotto gli occhi.
«Scrivi» Gli dissi «Renditi utile. Scrivi "profase"».
Lui annuì e lo scrisse in bella grafia nella prima casella del nostro foglio di lavoro. Estrasse subito il secondo reperto e gli diede uno sguardo distratto.
«Anafase» mormorò, scrivendolo immediatamente.
«Sei tutto scemo» Sbottai «Fammi controllare, che hai il microscopio negli occhi?»
«Sono sicuro di quello che ho detto» rispose lui, gonfiando il petto e porgendomi il vetrino.
Guardai nel mirino con impazienza e restai delusa. Maledizione, aveva indovinato.
«Numero tre?» allungai la mano senza guardarlo.
Mi diede il vetrino. Adesso, per fortuna, sembrava attento a non sfiorare di nuovo la mia pelle.
Ci gettai un rapido sguardo, più frettoloso che potei.
«Interfase» Dissi «Scrivilo»
«Posso contro...»
«No. Hai la scrittura bella tu, scrivi».
Avrei potuto annotare anch'io quello che vedevo, ma lui aveva una scrittura sorprendentemente nitida ed elegante. E poi, tecnicamente, doveva essere un progetto di gruppo, quindi dovevo dargli qualcosa da fare.
Terminammo molto prima di tutti gli altri. Mike e la sua compagna non facevano che confrontare due vetrini e un'altra coppia teneva il libro aperto sotto il tavolo ma, e potevo vederlo anche dal mio posto, alla pagina sbagliata.
Alzai gli occhi ed Edward era lì, a fissarmi, con quella nuova aria di inspiegabile frustrazione. All'improvviso capii quale fosse la differenza che avevo notato nel suo viso
«Porti le lenti a contatto?» mi uscì di bocca, senza pensarci.
Lui sembrò spiazzato dalla mia domanda inaspettata, ma d'altronde sembrava spiazzato da tutto, comprese le pareti della mensa, quindi non era così importante
«No»
«Oh. Mi sembrava di aver notato qualcosa di diverso nei tuoi occhi».
Si strinse nelle spalle e guardò altrove.
A dire la verità, sapevo che stava mentendo: avevo un ricordo molto vivo dell'ultima volta che mi aveva fulminata con lo sguardo, con quel nero cupo che spiccava sullo sfondo del suo colorito pallido e dei capelli ramati. Oggi la tonalità era completamente diversa: un'ocra più scuro di una caramella ma con i riflessi dorati. Non capivo come fosse possibile, a meno che per qualche motivo non mi stesse mentendo sulle lenti a contatto.
Abbassai lo sguardo: lui teneva di nuovo i pugni serrati.
Allora il professor Banner si avvicinò al nostro tavolo a chiederci perché non stessimo lavorando. Dalle nostre spalle lanciò un'occhiata alla tabella completata, poi iniziò a controllare con attenzione le risposta una per una.
«Scusa, Edward, perché non hai lasciato usare il microscopio anche a Belarda?» Chiese il professor Banner
«Forse perché in realtà l'ho usato solo io» risposi in fretta, prima che Edward potesse raccontare qualche frottola.
Il professor Banner sollevò le sopracciglia, incredulo, ma Edward annuii e forse avevo capito perché teneva i pugni stretti: ora sarebbe passato per il fannullone, l'ignorante, il bel faccino. Insomma, per quello che era.
«Hai già fatto prima questo esperimento?» Chiese il professor Banner, guardandomi ora con espressione scettica
«Non con radici di cipolla» risposi, facendo un sorriso timido
«Embrioni di coregone?»
«Si».
Il professor Banner fece un cenno d'assenso
«A Phoenix frequentavi le lezioni del programma avanzato?»
«Si, signore»
«Bene» aggiunse, dopo un istante «Penso che sia il caso che voi due lavoriate assieme».
Bofonchiò qualcos'altro mentre si allontanava e continuò a non accorgersi dei due ragazzi che stavano scrivendo termini insensati, copiati dal libro, sulla tabella.
Quando se ne fu andato, ricominciai a scarabocchiare sul quaderno, disegnando un incrocio fra Vegeta e Edward che urlava «Ho una scrittura potentissima!».
«Peccato per la neve, eh?» chiese Edward.
Avevo la sensazione che si sentisse in dovere di parlare con me. E io non ero una di quelle ragazze che mandano a quel paese i ragazzi anche quando si sono scusati, quindi lo avrei trattato con un po' di humour pungente, ma l'avrei perdonato e lasciato parlare se necessario.
«Non direi. Che intendi con peccato per la neve?» Domandai «Dici sempre cose così, a caso?»
«Intendo per il fatto che è scomparsa»
«Ah si, peccato»
«Ma a te il freddo non piace». Non era una domanda.
Scossi la testa. C'era gente che amava smodatamente il freddo? Forse lui, visto che metteva le mani nel ghiaccio per farsele sembrare più pallide.
«Per te dev'essere difficile vivere a Forks» Concluse, come se avesse fatto chissà quali grandi ricerche e osservazioni
«Non te lo immagini neppure» risposi, ironica.
Sembrava affascinato dalle mie parole, ma il motivo mi sfuggiva. Il suo viso mi distraeva, era bello, ma atipico e soprattutto aveva strane espressioni.
«Ma allora, perché sei venuta qui?» Domandò, diretto.
Non potevo crederci, non sapeva distinguere l'ironia nel tono delle persone!
«A me sta benissimo essere qui» Replicai «Sono venuta perché ci vive mio padre. E altre cose. È complicato»
«Penso di poterlo capire» insistette «Raccontami».
Fece una lunga pausa, poi commisi l'errore di incrociare di nuovo il suo sguardo. I suoi occhi d'oro mi confondevano e risposi senza pensarci
«Mia madre si è risposata» dissi
«Non sembra così complicato» ribatté lui, ma si fece improvvisamente comprensivo «Quando è stato?»
«Settembre»
«E lui non ti piace» dedusse Edward, ancora con un tono gentile.
Ridacchiai
«Non ne azzecchi una» dissi «Smettila di fare Sherlock Holmes, se lo vuoi sapere. Phil è ok, è questa la cosa bella!»
«Non capisco»
«Te lo dicevo che non lo avresti capito. Mamma ora ha Phil. Qualcuno che si prenda cura di lei. Quindi?»
«Quindi ora non... devi più prendertene cura tu?»
«Esatto!»
«E ora sei qui per prenderti cura di tuo padre»
«Perché devo prendermi cura della gente?» sbuffai «Ti ho detto di non tirare ad indovinare, almeno finché non ti faccio le domande o non ti dico "indovina". Non sopporto Mamma e sapendo che ora non morirà non devo neanche preoccuparmene. Sono qui per essere libera» spiegai
«Ma ora sei infelice» suggerì lui
«E tu sei infelice?» domandai «Anzi, aspetta, con i miei poteri psichici indovinerò tutta la tua vita!».
Lui sorrise e si appoggiò contro il banco, allontanandosi ancora di più da me, poi annuì
«Provaci, se ti pare».
Lo guardai da sotto in su, leccandomi le labbra e pregustando il mio momento di gloria. Potevo inventare le balle che volevo sulla sua vita, ma quali sarebbero state?
«Allora, sei un vampiro che viene dall'Alaska» Iniziai, ma mi fermai un istante quando lo vidi deglutire convulsamente «No, scusa, hai il terrore dei vampiri che vengono dall'Alaska, quindi sei scappato. Tu vieni da... da... l'Inghilterra»
«L'Inghilterra?»
«Edward è un nome... da Inghilterra» tagliai corto «Zitto, che ho i poteri. Poi, sei anemico e quindi devi bere sangue».
Si irrigidì di nuovo.
«Scusa» Mormorai «Non sapevo che avessi una fobia»
«Non ho una fobia» rispose lui, ma non sembrava molto convinto
«Vuoi che non parli più di sangue?»
«No, no, figurati! Parla, parla!»
«Lasciamo perdere» borbottai, niente affatto desiderosa di scioccarlo.
Lui prese a studiarmi, come se fossi un vetrino di epitelio di cipolla (visto che a quanto pareva non aveva bisogno di un microscopio per identificarne la natura).
«Dai buona mostra di te» Disse, lentamente «Ma sono pronto a scommettere che soffri molto di più di quanto dai a vedere»
«Infatti, non do a vedere la sofferenza che provo nel sentirti dire simili sciocchezze» dissi, melodrammatica «Ma ora parlami di tua madre, Edward».
Lui tentennò per un istante. Ma c'era un argomento che non lo turbava profondamente?
«Sono orfano» Disse
«No che non sei orfano» ribattei «Ti hanno adottato. Io ti chiedevo della tua madre attuale»
«Ah» lui tirò un po' indietro la testa, esponendo la gola bianca come latte «Esme»
«Si, Esme».
Edward ci pensò un po' su, poi mi guardò negli occhi e disse «Ti do fastidio?». Sembrava divertito. Che cavolo ci trovasse di divertente lo sapeva solo lui.
«Non esattamente» Risposi «Però sei imbarazzante».
Il professor Banner riportò la classe all'ordine e io mi disposi ad ascoltarlo con sollievo. Non riuscivo a credere di aver appena avuto una conversazione con questo ragazzo bizzarro e bellissimo, che forse mi odiava o forse no, ma che chiaramente aveva dei problemi. Mi era sembrato molto divertito dalla conversazione, ma ora, con la coda dell'occhio, lo vedevo arretrare di nuovo, le mani serrate sul bordo del tavolo, in palese tensione.
"Attento a non buttarti dalla finestra" Avrei voluto dirgli, ma stavo fingendo di stare attenta alla spiegazione del professore, che illustrava con diapositive ciò che avevo appena visto senza problemi attraverso le lenti del microscopio.
Quando infine la campanella suonò, Edward scivolò via dall'aula con la stessa velocità e grazia del lunedì precedente. Io, come la settimana prima, rimasi ferma a guardarlo, incredula. Me ne accorgevo più facilmente, ora che non ero arrabbiata, o almeno non furibonda, con lui: aveva una grazie ultraterrena e si muoveva come un gatto, dandomi l'impressione che avrebbe potuto fare un balzo di cinque metri da un momento all'altro.
Mike si presentò subito al mio fianco e mi aiutò a portare i libri.
«Terribile» Disse con un lamento «Sembravano tutti identici. Sei stata fortunata a lavorare assieme a Cullen»
«Davvero?» dissi, ironica «Lui ha solo scritto i nomi. Perché credete tutti, anche il professore, che sia stato lui a fare tutto?»
«Perché è bravo» spiegò Mike «Molto bravo. Aspetta, hai fatto tutto tu?»
«Si. Non ci ho trovato niente di difficile» spiegai, punta dalla sua domanda. Ma me ne pentii all'istante «Era un esperimento che ho già fatto» aggiunsi, prima che potesse aversene a male.
«Oggi Cullen mi sembrava piuttosto amichevole» Commentò, mentre ci stringevamo nelle giacche a vento. Non ne sembrava tanto contento. Sbuffai
«Si, ma ha detto delle cose ridicole» gli spiegai «Ha cercato di fare tipo lo psichiatra e di indovinare dettagli della mia vita e penso che abbia paura del sangue e dei vampiri»
«Davvero?»
«Davvero»
«Ridicolo» ridacchiò «Ma chissà che gli era preso lunedì scorso...»
«Niente, avrà visto un film di vampiri e sarà diventato tutto paranoico».
Ridemmo fino alla palestra, dove ci misero in squadra insieme a giocare a pallavolo.
«Salvatemi» Ululò Mike, quando mi vide proprio dietro di lui «Mi ammazzerà di pallonate per sbaglio»
«Finiscila e gioca, se non vuoi che lo faccia di proposito» lo minacciai, scherzosamente.
Molto cavallerescamente, il mio amico difese la mia zona e la sua, perciò potevo tranquillamente andare a farfalle, eccetto nei miei turni di battuta, quando schiacciavo come Mimì ed ero quasi certa che la palla si sarebbe infuocata se ci fossimo trovati nelle puntate di un anime giapponese.
Quando uscii nel parcheggio, la pioggia era diventata solo una nebbiolina, ma nonostante tutto mi sentii davvero bene soltanto all'asciutto nel mio pick-up. Accesi il riscaldamento e per una volta non mi preoccupai affatto del rombo rintronante del motore, che per qualche motivo mi ricordò il rumore dei motorini a benzina che durante le fiere servono a tenere accese le luci nelle bancarelle.
Mi slacciai la giacca a vento, mi liberai del cappuccio e scossi i capelli umidi perché si potessero asciugare con la ventola nel tragitto verso casa.
Mi guardai intorno per controllare che non ci fossero altre auto. Fu in quel momento che notai una sagoma bianca, immobile. Edward Cullen era appoggiato alla portiera anteriore della sua macchina da fighetto, a tre auto di distanza dalla mia, e guardava fisso verso di me. Aveva una specialità nel fissare, non sapeva fare altro: o fissava una parete della mensa, oppure fissava me.
Distolsi lo sguardo alla svelta, ingranai la retromarcia, e poco ci mancava che per la fretta colpissi in pieno la Toyota Corolla che mi seguiva. Fortunatamente per la Toyota, feci in tempo ad inchiodare: quello era esattamente il tipo di auto che il mio vetusto, ma maestoso, pick-up avrebbe trasformato in una palla di lamiera. Feci un respiro profondo, guardai di nuovo dal lato opposto della mia macchina e con cautela iniziai a muovermi, questa volta senza fare danni. Passando davanti alla Volvo cercai di fissare soltanto la strada, ma con una sbirciatina laterale vidi capelli-pazzi che, sarei pronta a giurarlo, rideva.
E fu solo il fatto che sono una persona ragionevole a salvarlo dall'essere investito con un pick-up capace di ridurre ad una palla di lamiera cose ben più robuste di lui.

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 aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui

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