Una volta arrivata a
casa, decisi di preparare le enchiladas di pollo, perché mi sentivo più
esotica del solito e avevo voglia di evadere con la mente. Sentendomi
più messicana di quanto avrei dovuto, iniziai a danzare (cautamente, per
non finire distesa a terra come Dracula, che stava a pancia a terra
come una pelle di leone, vicino ad uno stipetto) per la stanza,
raccattando gli ingredienti.
Era una ricetta
complicata e mi avrebbe tenuta occupata per un po'; mentre facevo
sobbollire le cipolle tagliate a rondelle e il peperoncino cayenna
verde, il telefono iniziò a squillare. Avevo quasi paura di rispondere,
ma poteva anche essere Carlo... o mia madre, che era l'ultima persona
che volevo sentire in quel momento.
Era Jessica, esultante:
Mike, dopo le lezioni, l'aveva fermata per dirle che accettava
l'invito. Festeggiai con lei, mentre rimestavo: ero felice che entrambi
avrebbero avuto qualcuno con cui andare al ballo.
«Quasi quasi vorrei esserci anch'io» Dissi, sottovoce
«Ti ho sentita!» esultò Jessica «E allora vieni! Dai, vieni, vieni, vieni!»
«E ora come faccio? Vengo da sola? Col cavolo che invito Tyler o Cullen!»
«C'è sempre Eric...»>
«Angela potrebbe
invitare Eric. Mi sembra ci sia del feeling fra i due» cercai di
svicolare, mentre rimestavo nella pentola e annusavo il profumino
delizioso «E quindi io rimarrei senza un cavaliere»
«Ne abbiamo già parlato» sbuffò lei «Potresti invitare Mike anche tu e potremmo andare in tre»
«Hai ragione» dissi
«Dopotutto è solo uno stupido ballo e ci possiamo andare in gruppo,
ma... vedi, io odio i balli. E poi ho già organizzato tutto, non posso
disdire»
«Davvero?» Jessica sembrava insieme intrigata e sospettosa «Quindi, cosa farai invece di venire al ballo?»
«Vado a Seattle. Devo assolutamente andarci, ho delle robe da fare»
«E ci vai con... chi?»
«Da sola»
«E allora non puoi disdire il tuo appuntamento con te stessa?»
«No!» dissi, fintamente orripilata «E dare buca alla persona più importante per me?»
«Quindi lascerai che Tyler vada da solo al ballo?»
«Che, da solo? Ma no. Credo che lo inviterà Lauren»
«Chi, la smorfiosa che a pranzo non ti parla mai?»
«Quella» dissi, seria
«Così almeno costringerà anche Tyler a non rivolgermi la parola. Se
stanno zitti tutti e due sono una coppia formidabile. Li shippo, voglio
che facciano tanti bambini e che i bambini non mi rivolgano la parola,
proprio come mamma e papà».
Sentii Jessica che si
sbellicava dalle risate dall'altra parte della cornetta e un sorriso mi
si dipinse sulla faccia. Quando la mia amica riuscì a darsi un contegno,
seppure di tanto in tanto emettesse ancora un buffo sbuffo, concluse
«Prima che mi ammazzi di risate, mi sa che devo chiamare Angela e dirlo anche a lei»
«Brava. Divertiti»
«Ciao! Buon pranzo!»
«Buon pranzo anche a te».
Dopo la telefonata,
cercai di concentrarmi sulla cena, soprattutto sull'arduo compito di
tagliare il pollo a dadi che sembrassero davvero dadi e non strani
sfilaccini. Avevo gli occhi lucidi, una reazione ritardata al taglio
delle cipolle, e mi chiesi distrattamente se, da lontano, potevo
sembrare Shakira nel video de "La Tortura". Mi misi a canticchiare.
Mentre infornavo le enchiladas, pensai a spiagge assolate e palme.
«No pido que todos los días sean de sol
No pido que todos los viernes sean de fiesta»
Chiusi il forno con una sederata e piroettai, rischiando di mettere un piede sulla coda del gatto.
«Tampoco te pido que vuelvas rogando perdón
Si lloras con los ojos secos
Y hablando de ella»
Il testo di questa
canzone era l'unica cosa spagnola che conoscevo bene. E non ero sicura
che la mia pronuncia fosse perfetta, ma mi sentivo bene a cantarla, in
particolare le parti di Alejandro Sanz.
Dracula miagolò e sembrò quasi spagnolo anche lui, con quell'odore di enchiladas che riempiva la cucina.
«Ay amor me duele tanto
Me duele tanto!».
Quando Carlo tornò a
casa, avevo preso in braccio Dracula e gli stavo cantando il pezzo
finale della canzone mentre sculettavo per la stanza.
«Belarda!» Esclamò, fingendosi sorpreso «Non mi avevi detto che il gatto era il tuo fidanzato!»
«Io e Alejandro
vogliamo sposarci» dissi, melodrammatica come in una telenovela,
stringendomi al cuore il felino «E tu non ce lo impedirai, padre!»
«Ma lui non è nobile» disse papà «Non ha nemmeno una dote per te!»
«Non importa, padre, io lo amo!»
«E allora farai bene ad
aver cucinato la cena, altrimenti Alessandro non avrà neanche una
possibilità di ricevere la mia benedizione» annusò l'aria e l'odore del
peperoncino verde lo insospettì.
Non potevo dargli
torto: il posto più vicino in cui mangiare cibo messicano commestibile
era probabilmente la California del Sud. Ma in fin dei conti era un
poliziotto, per quanto di un commissariato di provincia, perciò fu
abbastanza coraggioso da dare il primo morso. Sembrò gradire, perché
alzò la forchetta e disse
«Quel gatto è fortunato: avrà la miglior moglie casalinga del mondo».
Era divertente vedere che iniziava a fidarsi delle mie doti culinarie.
«Papà?» Chiesi, quasi alla fine della cena
«Dimmi, Belarda»
«Ehm, volevo solo dirti che sabato prossimo passerò la giornata a Seattle... se per te non è un problema...»
«Perché?».
Sembrava sorpreso, incapace di immaginare cosa potesse offrire Seattle rispetto a Forks.
«Beh, vorrei comprare qualche libro. Qui la biblioteca non è molto fornita, pa'. E poi vorrei fare magari un po' di shopping».
Avevo più soldi di
quanti ne fossi abituata a maneggiare dal momento che non avevo dovuto
pagare l'auto. Non che la benzina per fare circolare il pick-up costasse
poco, comunque.
«Il pick-up non fa tanti chilometri con un pieno» disse lui, facendo eco ai miei pensieri
«Si, lo so, per questo mi fermerò a Montesano e a Olympia... magari anche a Tacoma, se ce ne sarà bisogno»
«Ci vai da sola?»
chiese lui. Non riuscivo a capire se sospettasse la presenza di un
fidanzato segreto o fosse soltanto preoccupato che avessi problemi con
l'auto.
«Si»
«Ma Seattle è una città grande: potresti perderti»
«Papà» ridacchiai «Phoenix è almeno cinque volte Seattle e sono in grado di leggere una cartina, perciò non preoccuparti»
«Vuoi che venga con te?»
«Per me va bene» mi
strinsi nelle spalle, tranquilla all'idea di fare un po' di shopping con
papà, ma convinta di dover essere sincera «Però considera che potresti
passare la giornata tra un camerino e l'altro. Ci sarà da annoiarsi»
«Ah, allora fa niente».
La prospettiva di
starsene seduto ad aspettare in un negozio di abbigliamento femminile
gli aveva fatto cambiare idea all'istante. Un po' mi dispiaceva.
Gli rivolsi un sorriso
«Magari qualche volta
mi porti tu a fare shopping da veri uomini, da qualche parte. Ti va,
papà? Compriamo scarpe da trekking e mutande di pelliccia».
Lui rispose al sorriso, poi si rilassò contro lo schienale della sedia
«Tornerai in tempo per il ballo?».
Grrrr. Solo in una città così piccola i padri conoscono la data del ballo di una scuola superiore.
«No. Io non ballo,
papà». Nessuno come lui poteva capirmi: i problemi di equilibrio non li
avevo certo ereditato dalla mia leggiadra, svampita madre.
E infatti lui capì al volo.
«Oh, d'accordo Belarda».
Il mattino dopo,
arrivando a scuola, decisi di parcheggiare il più lontano possibile
dalla Volvo: non intendevo sottopormi ad una tentazione a cui avrei
potuto cedere, avrei rischiato di dovergli rimborsare un'auto nuova, che
non era proprio l'idea della mia gestione del denaro. Scendendo dal
pick-up, la chiave mi sfuggì di mano e cadde dentro ad una piccola
pozzanghera grigia ai miei piedi. Mi chinai a riprenderla, ma una mano
bianca spuntò dal nulla e l'afferrò per prima. Mi alzai di scatto.
Edward Cullen era a pochi centimetri da me, appoggiato al pick-up come se niente fosse.
«Ma come fai?» Chiesi io, irritata e stupita
«Come faccio cosa?».
Giocherellava con la chiave, la faceva dondolare. Mi allungai a prenderla e lui lasciò cadere nel palmo della mia mano.
«A essere così
incoerente» Risposi «A dirmi di non vederci più, a strillarmi contro e
poi a comparire dal nulla e ridarmi le chiavi come se ti importasse»
«Bella, non è colpa mia se sei straordinariamente distratta».
La sua voce era tranquilla, vellutata, smorzata. Mi infilai le chiavi in tasca con un gesto rabbioso
«Tipico degli uomini, soprattutto di quelli stupidi» borbottai
«Che cosa?» chiese lui
«Rispondere solo alla
tua ultima accusa cercando di sminuirti con insulti» dissi, arrabbiata
«E poi fare finta di niente. Guarda che non sei più affascinante così».
Osservai torva il suo
viso per vedere se ero riuscita a pungolarlo almeno un po'. Ci ero
riuscita. I suoi occhi quella mattina erano di nuovo chiari, di un miele
dorato e intenso, e sembravano un pizzico più tristi di come erano
stati prima. Gli avrei fatto abbassare la cresta!
«Perché l'ingorgo, ieri sera?» Chiesi «Pensavo che avessi deciso di fingere che non esisto, non di irritarmi a morte»
«L'ho fatto per Tyler. Dovevo concedergli una possibilità».
Rise sotto i baffi. Sembrava un criceto.
«Razza di...» rantolai.
Non riuscivo a pensare un aggettivo abbastanza brutto che potesse
essere detto ad alta voce nel parcheggio della scuola, quindi conclusi
«... Topolino».
Sentivo una vampa d'ira
tale da poterlo squagliare (tantopiù che sembrava un pupazzo di neve
dove la carota, al posto di essere messa a naso, era stata tagliata alla
julienne e appiccicata in testa), ma più io mi innervosivo e più lui
sembrava divertito. Era una cacca, una cacca sottile e dritta. Avete
capito cosa voglio dire: quella parola con la S che finisce con la O. Un
escremento brutto.
«E non sto fingendo che tu non esista» Continuò il pupazzo di neve-cacca
«Allora hai deciso di irritarmi a morte, visto che il furgoncino di Tyler non è riuscito a farmi fuori».
I suoi occhi gialli si
socchiusero, illuminati da una vampata di rabbia, e le sue labbra si
irrigidirono in una linea tesa. Non aveva il diritto di arrabbiarsi per quella punzecchiatina, ma il suo buonumore se n'era andato.
«Bella, sei totalmente assurda» disse, la voce bassa e fredda.
Mi prudevano le mani:
avevo un gran desiderio di picchiare qualcuno. Una ragazza meno sveglia
di me, o forse solo più attaccabrighe, sarebbe rimasta lì' e gli avrebbe
risposto per le rime, ma io sapevo cosa fare con i deficienti, ovvero
ignorarli. Gli voltai le spalle e mi incamminai più veloce che potei.
«Aspetta!» Disse lui.
Continuavo a camminare,
sbattendo con collera i piedi nell'acqua delle pozzanghere, desiderando
che gli schizzi gli arrivassero addosso, ma lui mi era accanto e teneva
il mio passo senza fatica.
«Scusa se sono stato
maleducato» disse, senza smettere di camminare. Io lo ignoravo,
ovviamente. «Non dico che non sia vero» continuò «Ma è stato maleducato
dirtelo, ecco»
«Tu sei assurdo» ringhiai fra i denti, senza fermarmi «Tu sei stupido e assurdo e maleducato. Io sono normale. Tu sei un deficiente. Perché non mi lasci stare?»
«Volevo chiederti una
cosa, ma mi hai fatto perdere il filo del discorso» sghignazzò lui.
Sembrava aver recuperato il buonumore... e poi diceva che io ero
assurda. No, questa non era depressione, come avevo potuto pensarlo?
Questo non era disturbo bipolare, niente affatto. Questa era pura,
semplice, stupidità.
«Ti sei preso uno stabilizzatore dell'umore, oggi?» Chiesi, ironica
«Non sviarmi un'altra volta»
«Io ti svio quanto mi
pare» ringhiai «Che cavolo vuoi? Possibile che tu sia l'unico ragazzo di
Forks capace di mandarmi in bestia così?»
«Mi chiedevo se, sabato prossimo... hai presente, il giorno del ballo di primavera...»
«Mi stai prendendo in
giro?» lo interruppi io, voltandomi di scatto. Lo guardavo dritto in
faccia mentre la pioggia mi inzuppava. Sul suo volto, le goccioline si
dividevano e scivolavano come sul marmo.
Il suo sguardo era perfidamente divertito
«Per cortesia» disse lui «Posso finire di parlare?».
Strinsi una mano
nell'altra, per evitare di assalirlo. Dovevo concentrarmi sul bene nel
mondo e sul karma, perché altrimenti lo avrei preso a calci dove non
batte il sole alla velocità di venti calci al secondo finché non fossi
stata sicura che era diventato sterile.
«Ti ho sentita dire che quel giorno hai in programma di andare a Seattle e volevo chiederti se accetteresti un passaggio».
Questo non me
l'aspettavo. Ma d'altronde non mi aspettavo tutti quegli insensati cambi
d'umore, quindi non fu comunque una gran sorpresa.
«Cosa?»
«Vuoi un passaggio fino a Seattle?»
«Da chi?»
«Da me, ovviamente».
Scandì la frase sillaba per sillaba, come se parlasse con una ritardata. Gli risposi per le rime, scandendo anch'io
«No, non è ovvio, Eddy.
Perché se fosse stato ovvio, vorrebbe dire che sei tutto scemo se pensi
che io voglia salire in macchina con uno psicopatico come te».
Edward Cullen sorrideva. Non mi prendeva sul serio proprio ora?
«Beh, avevo intenzione
di fare un salto a Seattle nelle prossime settimane e, onestamente, non
sono sicuro che il tuo pick-up possa farcela»
«Neanche io ce la farei, a salire in macchina con te» dissi «Mi romperei entro i primi dieci minuti»
«Il tuo pick-up ce la
fa anche con un solo pieno di benzina?» mi disse, standomi alle calcagna
mentre ricominciavo a camminare.
«Non credo siano affari tuoi». Stupido possessore caccoso di Volvo metallizzata spiaccicabile.
«Lo spreco di riserve non rinnovabili è affare di tutta la comunità» disse lui.
Gli diedi un pugno leggero proprio al centro del petto, riuscendo a frenarmi proprio all'ultimo momento
«Seriamente, Eddy» gli
risposi «Ti ho visto sbriciolare ciambelle e buttarle sotto al tavolo.
Sei lo spreco fatta persona, quindi non rompere»
«Perché non vuoi darmi una possibilità?»
«Non riesco a seguirti. Pensavo che non volessi essermi amico»
«Ho detto che sarebbe meglio se non diventassimo amici, non che non voglio»
«Ah. Che razza di psicolabile insensato. Pensi davvero che io voglia
diventare tua amica» lo derisi «Nessuno vorrebbe, Edward. Sei un
viziato figlio di papà che tratta le persone come straccetti vecchi. Sei
una persona orribile».
Mi accorsi di essermi
fermata, di nuovo. Ora ci trovavamo al riparo della tettoia della mensa,
perciò guardarlo in faccia era più facile.
«Sarebbe più... prudente che tu non diventassi mia amica» spiegò lui «Ma sono stanco di costringermi ad evitarti, Bella»
«È ovvio!» esclamai
«Che sarebbe più prudente che io non diventassi tua amica. Sei fuori di
testa, che ne so io di quello che vuoi combinare con me? E chi ti fila
più? Hai detto che non ti frega di dirmi il tuo segreto. Che non ti
frega di essere aiutato? Bene, e allora anche a me non frega più niente
di te».
La sua voce era caldissima quando parò di nuovo, quasi celestiale.
«Vieni con me a Seattle?» Chiese, con intensità
«Vacci solo, a quel paese» risposi.
Lui fece per parlare,
le labbra dischiuse. Gli si leggeva in faccia che era pronto a fare un
discorsone, a dirmi delle sue rinnovate intenzioni di amicizia e di
altre cose senza senso come guardare insieme le pareti e buttare le
ciambelle sbriciolate sotto i tavoli. Ma io non ne potevo più di lui e
avevo la mia arma segreta.
Lo interruppi, alzando il palmo di una mano, con le dita ben unite. Lo guardai negli occhi. E poi dissi:
«Vampiri vampiri vampiri sangue vampiri sangue Alaska vampiri vampiri»
Lui si voltò di scatto e tornò sui suoi passi.
Qualcuno, dietro di me, accennò un applauso.
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