martedì 29 maggio 2018

Sunset 53 - Organizzazione di riunioni semi-clandestine



Mi svegliai nel mezzo della notte, spalancando gli occhi. Davanti ai miei c'era un paio di occhi rosso sangue, aperti nel buio, che mi paralizzarono all'istante. Dopo due battiti cardiaci accelerati mi accorsi che erano quelli rossi e tranquillizzanti di Dracula, che si stava accingendo, a zampina tesa, a toccarmi il naso.
«Ciao, bimbo micio» Tubai a voce bassissima. Le fusa di Dracula saturarono l'aria e mi resi conto di averlo proprio sul petto. Gli accarezzai il pelo nero, e sentii subito scemare l'ansia che minacciava di attanagliarmi il petto.
Il gatto si accoccolò contro il mio petto, strusciandosi sulle mie dita con il naso ogni volta che gli arrivavano a tiro. Glielo toccai, quel nasino fresco e morbido, e lui fece una specie di "mrr" fievole e trillante.
Inspirai ed espirai, sentendomi decisamente più tranquilla. Ero sveglia, ora nessun bambino mostruoso né Volturo poteva prendermi.
Ah, no. Aspetta.
Sentii improvvisamente la gola secca e rimasi per un attimo a battibeccare con me stessa sul fatto che fosse il caso di sottrarre il calore e conforto del letto alle mie membra stanche, rischiando di perdere il sonno che mi era rimasto, oppure fosse meglio rimanere e rischiare di dormire male per la sete e gli strascichi dell'incubo.
Alla fine scostai le coperte con un braccio solo tenendo Dracula al petto con l'altro e ciabattai fuori dalla mia stanza.
«Un bambino vampiro» Dissi a Dracula, dandogli un bacetto sulla sua testa pelosa «Cosa penserebbe Freud di me?»
«Mrr»
«Già, qualcosa del tipo che la mia innocenza è stata violata e ho un complesso materno non risolto. Qualunque cosa significhi. Mica Freud lo sa che tra un po' mi sogno un albero vampiro perché il problema non sono i bambini ma quei cosi... Dracula, solo tu mi capisci»
«Mrumumru».
Lo accarezzai tra le orecchie mentre lo deponevo delicatamente a terra e mi procacciavo un bicchiere. La casa era del tutto silenziosa tranne lo statico della TV, che papà si era dimenticato di staccare dallo spinotto, ed il ticchettare ritmico e squittente delle lancette dell'orologio.
Non me lo aspettavo, ma mi tranquillizzò. Mi sentivo al sicuro nel buio di casa mia, senza un respiro fuori posto.
Mentre sorseggiavo l'acqua fresca con un gatto caldo sui piedi e la schiena poggiata contro il ripiano, la mia mente continuava a cercare di convincermi che c'era un significato al mio sogno. Ma c'era davvero? Il sogno di per sé mi sembrava simboleggiasse solo cose ovvie: avevo paura per me e i miei cari, i vampiri erano schifose carogne assassine anche quando sembravano innocenti. Ma perché volevo proteggere il bambino?
«Maaaau».
Perché stavo perdendo sonno e tempo preziosi a cercare di decifrare una cosa che probabilmente non aveva un senso più profondo, ma era solo il mio cervello stanco che cercava di farmi impazzire? Scossi la testa. Mandai un messaggio a tutte le ragazza-lupo e a Jake, chiedendo tutti loro di vederci davanti casa dei Black domattina alle dieci e mezza. Esaurii il credito, ma chi se ne fregava.
Almeno l'avrebbero visto per prima cosa la mattina dopo.
Mi sentii subito più tranquilla, come se mi fossi svegliata solo per smessaggiare i licantropi, finii di bere tutta l'acqua possibile e sentendomi come un barilotto pieno ripresi Dracula come un bambino tra le mie braccia e tornai a dormire, addormentandomi quasi subito.
Il giorno dopo mi svegliai sentendomi decisamente più riposata. Dracula si era spostato durante la notte, e adesso stava fissando la finestra e facendo dei vocalizzi serrati e acuti con la boccuccia.
Non sembrava affatto spaventato: doveva aver visto un qualche uccello fuori dalla finestra.
Mi preparai in fretta, nonostante non ci fosse scuola, e trovai papà al piano di sotto con i capelli spettinatissimi, un gattino tripode su una spalla e una tazza tra le mani.
«'Giorno pa'. Che fai di bello?».
Lui mi guardò colpevole, ed anche Lillo. «Preparo la colazione».
Mi sedetti al tavolo, allungando un braccio per posare di fronte a me il telefonino, in attesa dei messaggini dei miei amici. E nel frattempo mi chiedevo... ma che razza di colazione stava preparando papà?
Mi ci vollero alcuni istanti per accorgermi che la tazza che aveva tra le mani era piena di pastella per fare i pancake e che doveva ancora iniziare a riscaldare la padella in cui versarla.
Mentre il possente poliziotto Cigna si scottava le dita per capire se la temperatura era quella giusta, io ricevetti il primo messaggio. Non era di nessuna delle donne lupo, ma di Mike, che mi informava che erano iniziate le riprese per uno spin-off di PugniCalci, un telefilm che riprendeva la vita di Huan (chi cavolo era Huan? Non me lo ricordavo) e che lui non vedeva l'ora di vedere. Purtroppo, non avevo credito per rispondere, così sospirai e rimisi a posto il telefono.
I pancake che papà servì erano bruciacchiati, ma mangiabili, e li ricoprii con un sottile strato di miele millefoglie prima di tagliarli in pezzettini e gustarli lentamente.
«Hai cucinato con il gatto sulla spalla?» Gli domandai, realizzando improvvisamente che Lillo era ancora lì, saldamente di lato alla faccia di papà
«Ehm... non vuole scendere. Poverino, non lo faccio andare giù, no?»
«Rischi che il gatto ti cada nella padella e si bruci. Ha solo tre piedi, papà»
«Ma si tiene per bene!» replicò, tuttavia fece con delicatezza scendere Lillo, spaventato all'idea che potesse davvero cadergli dentro la padella (anche se ora stavamo mangiando e non c'era nessuna padella).
Il gattino tripode, indignato, si era guardato intorno, aveva drizzato la codina come l'asta di una banidera e poi si era aggrappato al braccio del suo papà umano, cercando di scalarlo e di ritornare a quello che credeva essere il suo legittimo posto.
Quando ebbi finito di mangiare, salutai papà e gli dissi che andavo dalle mie amiche e da Jacob, alla riserva. Lui annuì e mi salutò sventolando la mano, con Lillo attaccato al polso come se avesse il velcro al posto delle zampine.
Fuori pioveva, così indossai la giacca impermeabile e mi tirai su il cappuccio. Entrai in macchina e la avviai, azionando i tergicristalli che si muovevano pigramente per permettermi di vedere la strada. Gocce su gocce, sottili come spilli, cadevano sul parabrezza e poi venivano spazzate via: era ipnotico.
Dopo poco arrivai a metà del tratto settentrionale di Russel Avenue, di fronte a casa Cheney, mentre dall'altra parte del veicolo vivevano i Mark. C'era un motivo per cui mi ero fermata: c'era un cartello nel giardino dei Mark, scritto in ero, scarabocchiato in lettere maiuscole probabilmente vergate con un pennarello mezzo scarico e appeso alla cassetta delle lettere.
Una coincidenza? O era scritto? Non lo sapeva, ma sembrava un po' sciocco pensare che il fato avesse assegnato alle motociclette scalcagnate lasciate ad arrugginire nel prato dei Mark, accanto al cartello VENDESI COME SONO, un ruolo particolare, soltanto perché si trovavano lì dov'erano e sentivo di desiderarle.
Forse, in fondo, non era il destino. Forse c'erano molte cose insensate e strane e meravigliose ed era soltanto questione di aprire gli occhi un po' di più per cogliere.
Avevo già un pick-up meraviglioso, non avevo bisogno di una motocicletta, riflettei... e poi a papà le motociclette non piacevano.
Il lavoro di Carlo non era certamente frenetico come sarebbe stato in una grande città, ma quando si verificava un incidente stradale lui si recava sempre sul posto. A quel genere di impegno era abituato, grazie ai lunghi rettilinei autostradali dal fondo umido che svoltavano di colpo nella foresta, curva cieca dopo curva cieca. Gli automobilisti, compresi i conducenti dei grandi camion trasporto legna, se la cavavano quasi sempre senza problemi. L'eccezione alla regola erano i motociclisti e papà ne aveva già visti parecchi, spesso solo ragazzi, spalmati sull'asfalto.
Prima del mio decimo compleanno, papà mi aveva fatto promettere che non avrei mai accettato un passaggio in moto e già a quell'età non avevo dovuto pensarci due volte per rispondere di sì. Chi era così matto da guidare una moto nella piovosa Forks? Era come fare un bagno a cento all'ora.
Avevo sempre mantenuto quella promessa. E avrei continuato a mantenerla: non mi sarei mai fatta dare un passaggio in moto. Ma questo non significava che non avrei potuto guidarne una io stessa!
Era irrazionale, forse persino stupido, ma sentivo di dover possedere una motocicletta. Sentivo che sarebbe stato importante nella nostra battaglia contro i Volturi.
E se avessi comprato le moto e poi le avessi regalate alle mie amiche alla riserva? Anche quella sembrava una buona idea.
Insomma, le dovevo comprare. Queste furono le mie riflessioni, se di riflessioni possiamo parlare, perché avvennero in non più di trenta secondi.
Parcheggiai, scesi dall'auto e sotto la pioggia scrosciante mi avvicinai alla porta di casa dei Mark. Suonai il campanello.
Ad aprire fu uno dei figli, il più giovane, che frequentava il primo anno. Non ne ricordavo il nome. Aveva i capelli biondicci e mi arrivava alle spalle.
Lui, al contrario di me, ricordò all'istante come mi chiamavo «Belarda Cigna?» esclamò sorpreso
«Quanto vuoi per una moto?» chiesi d'un fiato, indicando con il pollice la merce in vendita alle mie spalle
«Dici sul serio?»
«Certo che si. Non lo vedi che sono sotto un torrente d'acqua? Non perderei tempo a dire queste cose per scherzo, adesso»
«Ma non partono nemmeno».
Sbuffai impaziente: questo l'avevo già capito.
«Quanto vuoi?»
«Se ne vuoi una» rispose «Prendila pure. Mia madre ha costretto mio padre a spostarle in strada per farle portare via assieme alla spazzatura».
Diedi un'altra occhiata alle moto e mi accorsi che erano parcheggiate sopra un tappeto di rami morti e di resti di piante tagliate. In effetti, a guardarle meglio, sembravano proprio spazzatura... ma ormai le desideravo. Specie se era roba gratis: come si fa a dire di no alla roba gratuita?
«Sei sicuro?» Gli domandai «Sicuro sicuro?»
«Certo. Vuoi chiederlo a lei?».
Probabilmente era meglio non coinvolgere adulti che avrebbero potuto spifferare tutto a papà: glielo avrei detto io, a tempo debito. Ma il tempo debito non era ancora arrivato.
«No, no, ti credo»
«Vuoi che ti aiuti? Non sono leggere»
«Si, grazie. Ne prendo soltanto una? Sei sicuro che l'altra non la vuoi vendere?»
«Megli se te le prendi tutte e due» insistette il ragazzo «Possono esserti buone per i ricambi».
Mi seguì sotto l'acquazzone e mi aiutò a caricare entrambe le moto sul cassone del pick-up. Sembrava davvero ansioso di liberarsene, perciò lo lasciai fare.
Lo sentivo, ero in qualche modo destinata ad avere quelle moto, ottenerle era sin troppo facile...
«Scusa, ma cosa vuoi farci?» Chiese lui «Sono ferme da anni»
«lo immaginavo» dissi e feci spallucce. Il mio capriccio momentaneo non si era ancora risolto in un piano completo. «Magari le faccio riparare da Dowling».
Lui ridacchiò, passandosi il dorso della mano sulla bocca.
«Con la cifra che ti chiederebbe per ripararle potresti comprarne due nuove».
Aveva ragione. I prezzi alti di John Dowling erano noti a Forks: nessuno si rivolgeva a lui, se non in caso di emergenza. I più preferivano andare fino a Port Angeles, se l'auto poteva arrivarci. Io ero stata molto fortunata sotto questo punto di vista: quando papà mi aveva regalato il pick-up, temevo che non mi sarei potuta permettere le spese di manutenzione di quel pezzo da museo... invece non mi aveva mai dato un problema, se si esclude l'ovvio rumore assordante del motore e il suo ragionevole limite di velocità di novanta chilometri all'ora. Jacob Black aveva tenuto quel Chevy in forma smagliante, finché era appartenuto a suo padre Billy...
L'idea mi arrivò improvvisa come un lampo.
«Sai una cosa?» Sorrisi «Non c'è problema. Conosco una persona che ripara moto»
«Ah, bene!» anche lui sorrise, soddisfatto.
Mentre me ne andavo mi salutò con la mano, sempre sorridente. Che caro ragazzo.
La mia guida si era fatta più veloce e concentrata.
Ed ecco spuntare la casa dei Black, una piccola costruzione in legno con finestre strette, verniciatura rosso opaco e quel non-so-che di rurale che la faceva somigliare ad un fienile in miniatura. Prima ancora che scendessi dal pick-up, la testa di Jacob spuntò da una finestra: di certo il rombo familiare del motore l'aveva avvertito del mio arrivo. Jacob era stato felice che Carlo avesse comprato il pick-up di suo padre per me, evitando a lui la condanna di doverlo guidare una volta raggiunta l'età giusta. Io e lui non avevamo gli stessi gusti in fatto di auto: a me il pick-up piaceva molto, ma per lui la velocità ridotta era una disgrazia.
Jacob uscì di casa per venire a salutarmi.
«Hey, Belarda!». Sul suo volto era stampato un grande sorriso, il bianco dei denti contrastava vivacemente con il colorito rossastro della pelle. I capelli sciolti cadevano come piccole tende di seta ai lati della sua faccia larga..
Aveva superato il momento in cui la muscolatura tenue dell'infanzia si trasforma nella struttura fisica più solida e slanciata dell'adolescente e sotto la pelle rosso-bruna delle braccia e delle mani spiccavano tendini e vene. Il volto era ancora dolce, ma i lineamenti un po' più marcati, le guance più aguzze, la mascella quadrata. Avevo già osservato questi cambiamenti in lui, la notte del ballo, ma vederli alla luce del sole li rendeva in qualche modo più reali.
Jacob era un mostrone. Un bellissimo mostrone sorridente, non più un bambino lungo e secco, anche se era ancora scoordinato.
«Ciao, Jacob!» Lo salutai, sollevandomi come per istinto sulla punta dei piedi, per cercare di avvicinare un po' più i nostri sguardi sulla stessa linea d'aria.
Lui si arrestò a meno di un metro da me.
«Sembri cresciuto ancora» Esclamai, meravigliata.
Una risata, e di nuovo quel sorriso immenso «Sono più di un metro e novanta» annunciò, fiero di sé
«Sei come quei pesci a crescita indeterminata. Ma ti fermerai mai?» scossi la testa, incredula «È come se da ieri a oggi fossi diventato più grosso»
«Dai, entra, ti stai inzuppando» fece una smorfia.
Mi fece strada, raccogliendosi i capelli con le grandi mani mentre camminava. Dalla tasca tirò fuori un elastico per fissare la coda.
Avevo scelto una pessima giornata, dal punto di vista climatico, per riunirmi con le ragazze-lupo... ma d'altronde, era necessario fare sapere al più presto a tutte loro che cosa stava per succedere.
Non erano ancora le dieci e mezza, perciò avrei dovuto aspettare dentro casa con Jake.
«Ehi, papà» Esclamò lui, abbassandosi per passare dalla porta «Guarda chi è venuto a trovarci!».
Billy era nel piccolo salotto quadrato, con un libro in mano. Quando mi vide lo chiuse e, tenendoselo in grembo, spinse la sedia a rotelle verso di me.
«Ma tu guarda! Che piacere rivederti, Bella».
Mi strinse la mano, quasi nascondendola nel suo grosso palmo.
«Qual buon vento? Carlo sta bene?»
«Si, tutto a posto. Volevo soltanto passare a salutare Jacob, non ci vediamo da una vita. E poi ho anche dato appuntamento ad alcune amiche della riserva, solo che c'è questo tempaccio da lupi...».
Alle mie parole, gli occhi del ragazzo si illuminarono. Sorrideva così tanto da rischiare una paralisi facciale.
«Resti a cena?» Anche Billy era su di giri
«Ma se è ancora mattina?»
«E stai con noi tutto il giorno?».
Di fronte a tanto entusiasmo, non potei trattenere una risatina compiaciuta, ma contemporaneamente scossi la testa
«Mi dispiace, ma no. Sai com'è, devo cucinare per papà»
«Lo chiamo subito» suggerì Billy «È sempre il benvenuto qui».
Cercai di nascondere il disagio (oddio, perché il mondo complottava perché papà scoprisse che avevo preso due motociclette?) con un'altra risata
«Non passerà un'eternità prima che mi rifaccia viva, non preoccupatevi. Prometto che tornerò... talmente spesso che vi stuferete di me. Non c'è bisogno di chiamare papà, lui ha un sacchissimo da fare, specie ora che ha un nuovo gatto».
Dopotutto, se Jacob fosse riuscito a riparare le moto, avrei avuto anche bisogno di qualcuno che mi insegnasse a guidarla.
Billy si strinse nelle spalle, mentre continuava a sorridere «a bene, Bella, facciamo la prossima volta»
«Allora, Belarda, che vuoi fare?» si intromise immediatamente Jacob
«Veramente starei aspettando le ragazze. Hai ricevuto il mio messaggio?».
Lui si accigliò per un istante
«Il tuo messaggio?» domandò «No... non ho... il mio telefono non può ricevere i messaggi, Bell»
«Oh. Me l'ero scordato. Scusa. Caspita, ho perso altro credito telefonico per niente... cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?».
Jacob tentennò, forse intuendo che volevo parlargli di qualcosa
«Stavo per andare a lavorare un po' alla mia macchina» disse «Ma possiamo fare qualcos'altro...»
«No, è un'ottima idea! Mi piacerebbe vederla»
«Va bene» rispose poco convinto «È nel garage sul retro».
Meglio ancora, mi dissi. Salutai Billy «Ci vediamo dopo».

CAPITOLO SUCCESSIVO>


venerdì 25 maggio 2018

Sunset 52 - Quella cosa che rovina i balli e inizia per V



Sentivo di conoscere la risposta e allo stesso tempo temevo che non fosse giusta.
«Torna indietro, Alice» Pregò Rosalie, sembrando stranamente disperata «Cerca il fattore scatenante. Fruga! Forza!».
Alice scosse lentamente la testa, le spalle basse «È uscita dal nulla, Rose. Non stavo cercando né loro né noi. Stavo cercando... beh, lo sai, solo che... ho visto loro». La sua voce si affievolì, gli occhi tornarono a perdersi nel vuoto. Per un istante interminabile mise a fuoco il nulla di fronte a sé.
Mi chiesi se stesse avendo una nuova visione o fosse semplicemente affranta dalla perdita di Jasper. Mi sentii improvvisamente triste per lei, in colpa, ma scossi la testa, ricacciando quei sentimenti del tutto inappropriati. No, non potevo mettermi a provare compassione per i mostri, specie quando i miei amici erano in pericolo. Quello che dovevo fare era pensare...
«L'orso vampiro» Dissi.
Alice sollevò la testa di scatto, lo sguardo duro come selce. Sentii Edward trattenere il fiato. Diverse paia di occhi dorati si posarono su di me, come aspettandosi che io elaborassi.
Per qualche motivo, Rosalie mi parve la più nervosa. Quasi spaventata, e questo contrastava in qualche modo con l'idea di fredda, malvagia bellezza a cui aveva sempre aderito per me.
«Magari mi sbaglio, ma pensateci» Dissi sottovoce, interrompendo Esme che stava per parlare «Come reagirebbero i Volturi se sapessero che un Cullen ha creato una creatura immortale, potentissima, e soprattutto, del tutto incapace o incurante di mantenere il segreto della vostra esistenza?».
Scese di nuovo il silenzio mentre gli altri arrivavano alla conclusione che io avevo già raggiunto.
Jacob aveva iniziato a scalpitare dal suo posto, e Mike gli parlava concitato, poggiandogli una mano sulla spalla indeciso.
«Un orso immortale» Sussurrò Carlisle.
Sentii Rosalie inginocchiarsi accanto a me. Fu del tutto inaspettato e feci un saltello indietro spaventata; le sue ginocchia fecero un rumore innaturale e pietroso contro l'asfalto, come di granito su granito.
«Ma si sbagliano. Tu ti sbagli, Belarda» Disse lei. Sembrava terrorizzata, l'angoscia riflessa nelle sue iridi dorate tratta direttamente da un incubo «L'orso non è una minaccia così grave, sarà facile da eliminare, e poi l'elemento che lo ha creato non è neppure tra noi. Il vero problema sono i licantropi, i licantropi che cercano di eliminarci, mentre noi non siamo un problema, noi sappiamo controllarci. L'orso non può metterci nei guai, è stato solo un incidente, neanche sanno che lo abbiamo creato noi, neanche sanno che esista...!».
Continuò a sproloquiare, probabilmente in attesa che qualcuno sospirasse di sollievo, che il gelo di sciogliesse perché ci eravamo resi conto che aveva ragione. Invece la tensione sembrò aumentare. Finché la sua voce, sempre più fievole, svanì nel mezzo di una frase.
Per un pezzo nessuno aprì bocca.
Poi Carlisle si chinò accanto a Rosalie e le passò una mano tra i capelli. «Cosa hai fatto Rosalie, quando sei andata a trovare i nostri amici a Denali pochi giorni fa?»
«Non sono andata a Denali» il labbro inferiore di lei iniziò a tremare «Volevo giustizia. Giustizia per Emmett. Noi non possiamo batterli Carlisle, ma loro possono, i Volturi li spazzeranno via, come è giusto che sia!»
«Cos'hai fatto? Stupida!» esclamò Alice.
Io guardai, Edward, confusa. Lui colse il mio sguardo, ma decise deliberatamente di guardare male la sorella mentre chiariva per me: «Rosalie ha sentito molto la mancanza di Emmett in questi giorni. Ci ha detto che si era ritirata a Denali per affrontare il lutto lontana da Forks, ma in realtà è andata a denunciare ai Volturi la ricomparsa dei licantropi per vendicare il suo compagno, convinta che sia stato un licantropo a farlo, ma in realtà non ne abbiamo le prove».
Guardai Rosalie inorridita. Voleva la morte di tutte le mie amiche di La Push, e di Jacob e il suo branco... e forse avrebbe ottenuto quello e molto più di quanto aveva chiesto.
«Perché Alice non è riuscita a vederla in tempo?»
«Perché ha passato gli ultimi giorni a cercare di vedere Jasper» disse tristemente Edward in un soffio
«Adesso i Volturi verranno qui e troveranno non solo dei licantropi adolescenti che scorrazzano in giro, ma un orso mostro e noi gli unici in grado di averlo creato in zona!» Strillò Alice verso la sorella prostrata, i lineamenti minuti contorti in una spaventosa smorfia di rabbia come un piccolo angelo vendicatore
«Per crimini come questo non è previsto alcun processo, Bella. Per Aro i pensieri di Rosalie sono una prova, e quando verrà qui, beh, avrà tutte le prove di cui ha bisogno» disse Edward, cupo
«Ma i licantropi non mettono a rischio nessun segreto, loro sono...» ansimai, ma lui mi interruppe
«Non ci lasceranno il tempo di spiegare».
Il suo tono di voce era ancora gentile, dolce, vellutato... tuttavia era impossibile non coglierne la nota dolente e disperata. La sua voce era come gli occhi di Alice poco prima, sembrava provenire da una tomba.
«Cosa possiamo fare?» Domandai.
Fu Alice a rispondere alla mia domanda retorica: «Combatteremo» disse, troppo calma dopo la sfuriata che aveva propinato a Rosalie. Sembrava ancora più pericolosa.
«Non possiamo vincere» Osservò gentilmente Carlisle, rimettendosi in piedi ed offrendo una mano per fare alzare anche la figlia adottiva. Già immaginavo che espressione avrebbe avuto, in che modo si sarebbe curvato, protettivo, su Esme.
«Non possiamo nemmeno scappare. Non con Demetri in giro» Disse Edward «Io non so se non possiamo vincere. Ci sono un paio di possibilità da considerare. Non dobbiamo affrontarli da soli».
A quelle parole sgranai gli occhi. Certo, i Quileute avrebbero combattuto con onore per la propria vita e di sicuro avrebbero portato qualche schifosa salma di Volturo con sé tra le braccia di nostra Sorella Morte, ma non mi andava giù che pagassero perché Rosalie si era data la zappa sui piedi.
Sarebbe stato davvero ironico se, per colpa del fato, vampiri e licantropi si sarebbero trovati forzati a militare sotto la stessa bandiera. Il fato sapeva essere davvero un bambino capriccioso.
«Non dobbiamo nemmeno condannare a morte i Quileute, Edward!» Esclamò il dottor Cullen, nervosamente
«Tranquillo, Carlisle, non alludevo al branco. E poi sono già condannati a morte»
«Ma siamo realistici: pensate che Ayita o Sam si lasceranno uccidere senza reagire? Certo non lo faranno per voi, ma adesso, grazie a Rosalie, c'è la loro vita in gioco» sbottai «Vampiracci combinaguai»
«Certo, perché quei cani rognosi sono i buoni!» si scaldò Rosalie, guardandomi digrignando i denti. Aveva gli occhi lucidi o era un'impressione mia? Potevano piangere, poi, i vampiri? «Com'è che nella tua storia va bene se Emmett muore per quei bastardi ma non va bene se pagano? Il problema è che voglio difendere la mia famiglia, non quei cani!»
Scossi la testa. Non avevo alcuna intenzione di stare a parlare con Rosalie, lei non era in condizione di apprezzare ragionamenti lucidi e io non ero in condizione di sopportare ancora la presenza dei Cullen.
«Va bene» Dissi «Ora so qual'è il problema. Se permettete, sono sconvolta e voglio andare a pensarci con calma. Con permesso».
Lasciando Edward a sgolarsi per chiamare il mio nome, ritornai dai miei amici. Non appena fui lontana dalla famiglia di succhiasangue scoprii che avevo ricominciato a respirare normalmente: fino a quel momento avevo preso respiri troppo brevi.
«Allora, che volevano?» Incalzò immediatamente Jessica
«Niente» mi strinsi nelle spalle «Una cosa che riguarda le mie amiche di La Push. Le solite idiozie».
Mi ci volle un sangue freddo terribile per non suonare come un condannato a morte. Jacob mi guardò, le sopracciglia aggrottate, e io annuii. Lui aprì leggermente la bocca come se stesse per chiedermi che cosa c'entravano le ragazze di La Push, ma io alzai una mano
«Dopo, Jake. Dopo, per favore. Adesso sono stanca».
Fui la prima ad essere accompagnata a casa da Jessica. Avevamo fatto sedere Mike sul sedile posteriore e lui si era messo a giocare a Snake sul telefonino.
Quando rividi il vialetto di casa, debolmente illuminato, sentii un peso terribile gravare sul mio cuore. Non appena fossi entrata avrei dovuto fingere di stare bene, poi avrei dovuto salire al piano superiore e chiamare Ayita per raccontarle dei Volturi.
I Cullen mi avevano rovinato la serata del ballo scolastico. Li odiavo di un odio bruciante e imperituro, terribile. Strinsi un pugno e Jessica se ne accorse.
«Che succede, Belarda?» Mi domandò «Che ti hanno detto i Cullen?»
«Niente» mentii «Mi hanno solo fatta arrabbiare con le loro solite sciocchezze. Non devi preoccuparti»
«Sembri molto nervosa»
«No, sto benissimo»
«Non sei così brava a mentire, Bell»
«Buonanotte, Jessica. Ho solo bisogno di un buon sonno»
«Buonanotte»
«Buonanotte, Belarda!» esclamò Mike, dandomi una pacchetta su una spalla «Mi raccomando, dolci sogni di karate»
«Dolci sogni di karate anche a te».
Ridacchiando, aprii la portiera e mi avviai lungo il vialetto. La porta di casa che si avvicinava, quella sera, sembrava il pannello di un'enorme tomba bianca. Solo che non avrei avuto pace neanche dopo che ci fossi entrata dentro.
Aprii la porta mentre sentivo il motore dell'auto di Jessica che si avviava. Avevo davvero passato una serata splendida con i miei amici e dovevo essergli grata.
Incespicando sui tacchi entrai e mi richiusi il portoncino alle spalle. La casa era buia e silenziosa: papà doveva essere andato a dormire da un pezzo e Lillo insieme a lui. Dracula probabilmente mi aspettava in camera da letto.
Mi tolsi le scarpe con i tacchi e sospirai di sollievo mentre camminavo a piedi nudi sul pavimento fresco. A pensarci bene, c'era uno strano silenzio. Ero quasi certa che papà mi avrebbe aspettato alzato: dopotutto era la prima volta che andavo ad un ballo scolastico in vita mia e lui era proprio tipo da trovare una scusa per stare alzato fino a tardissimo (quale scusa migliore di una figlia adolescente a un ballo pieno di ragazzi scalmanati?). Invece dormiva già.
Salii le scale e appoggiai un'orecchia sul pannello della porta della camera di papà. Dall'interno non proveniva nessun suono, neanche un russare sommesso, neanche un respiro. Bussai per fargli sapere che ero tornata. Nessuna risposta.
Il mio cuore iniziò a fare le capriole e me lo sentii immediatamente in gola.
«Papà!» Gridai «Papà!»
«Che c'è?!» urlò lui dal bagno
«Sono tornata!» esclamai, sollevata.
Era solo andato in bagno. E io già con la mente mi ero figurata che i Volturi lo avessero rapito per usarlo come esca per l'orso vampiro o qualcosa del genere. Ormai ero paranoica.
Dopo qualche istante Carlo Cigna comparve sul pianerottolo, la sua sagoma illuminata da dietro dalla luce del bagno, dopo aver tirato lo sciacquone. Era in pigiama, con due leggere occhiaie, e sorrideva
«Ti ho aspettato alzato» disse, un po' imbarazzato «Ma proprio quando dovevo aprirti la porta, sai, la natura chiamava».
Risi nervosamente, poi corsi ad abbracciarlo. Goffamente, lui indietreggiò travolto dall'impeto del mio gesto, poi mi strinse delicatamente le braccia intorno alle spalle.
«È successo qualcosa che mi vuoi dire?» Domandò
«No» risposi, mentendo ancora una volta «Sono solo contenta, contentissima, che tu sia il mio papà»
«Potevi avere di meglio» si schermì lui, sciogliendo l'abbraccio.
A malincuore, anch'io lo lasciai e cercai di mettermi le mani nelle tasche che non avevo.
«Dimmi un solo papà migliore di te» Lo sfidai, alzando il mento
«Uno con tanti soldi» rispose lui, prontamente «Che ti possa comprare tutto quello che vuoi»
«Cosa? Ma no, papà...»
«Non come un piccolo poliziotto di provincia» continuò lui «Un papà chirurgo o un papà scienziato spaziale o un papà attore. Uno che ha tanti, tantissimi soldi. Vorrei poterti comprare tutto quello che vuoi, ma non posso».
Mi si inumidirono leggermente gli occhi. Mio padre, che persona straordinaria: avevo tutto ciò che potevo desiderare, lì con lui, e lui desiderava comunque che io avessi di più. E poi mi aveva comprato il Chevy e non aveva fatto storie per il gatto, cos'altro potevo chiedere?
«Non saprei che farci» Replicai «Se non avessi un papà come te».
Lillo spuntò dalla porta del bagno, con la codina alzata, ed emise un lungo miagolio di saluto prima di prendere a strusciare la testolina contro la caviglia di papà.
«Gli ho messo la lettiera in bagno» Replicò Carlo, cambiando immediatamente discorso con imbarazzo.
Oh, che bello, così potevano fare anche la cacca insieme. Presi a ridere.
«Buonanotte, papà. Vado a dormire»
«Buonanotte, Belarda».
E finalmente mi chiusi nella mia stanza. Scivolai con difficoltà fuori dal maledetto vestito, buttai le scarpe in un angolo, per terra, e mi misi il pigiama. Dracula, come avevo previsto, se ne stava accoccolato sul letto a sonnecchiare e non appena si accorse che ero entrata nella stanza spalancò i grandi occhioni rossastri.
«Ehy, Drakey, ti sono mancata?».
Lui fece le fusa. Mentre sedevo accanto a lui sul letto, con una mano gli facevo i grattini fra le orecchie e con l'altra componevo sul telefonino il numero di Ayita.
Era arrivato il momento di raccontarle che cosa ci aspettava. Ma Ayita non rispose: probabilmente era in giro in forma di lupo gigante.
Un po' fui delusa, ma mi ripromisi di telefonarle di nuovo la mattina dopo. Mi sdraiai, tirandomi il lenzuolo fin sopra la testa, e aspettai che Dracula si infilasse al mio fianco, poi finalmente lasciai che la stanchezza mi risucchiasse nel sonno.
Avevo pensato che, spossata com'ero, il mio cervello non avrebbe trovato il tempo o la forza per un incubo. Beh, mi sbagliavo: la paura ancora una volta stava avendo la meglio sulla mia povera immaginazione, costringendola a vedere cose.
Sapevo che era un sogno e questo era un punto a mio favore... ma non era un bel sogno.
Di punto in bianco eccomi di fronte ad una radura grigia e deserta, mentre un greve odore di incenso bruciato impregnava l'aria. Non ero sola.
La calca di sagome al centro dello spiazzo, avvolti in mantelli color cenere, avrebbe dovuto spaventarmi. Non potevano essere che i Volturi, gli amministratori della legge dei vampiri, ma sapevo, come spesso mi accadeva nei sogni, di essere invisibile ai loro occhi.
Disseminati intorno a me c'erano tumuli fumanti. Riconobbi l'aroma disgustoso nell'aria (l'odore di vampiri che bruciano) e non li esaminai troppo da vicino. Non mi andava di guardare il volto dei vampiri appena giustiziati, quasi temessi di riconoscere qualcuno nelle pire ancora roventi.
I soldati dei Volturi si disposero in cerchio attorno a qualcosa o a qualcuno, e sentii il bisbiglio delle loro voci alzarsi in fermento. Mi avvicinai alle figure avvolte nei mantelli, spinta dal sogno (e non certo da un qualunque impulso razionale) a osservare cosa o chi stessero esaminando con quell'intensità. Strisciai con cautela fra due mantelli alti e sibilanti, finché non scoprii l'oggetto della discussione, posto in alto su un montarozzo da cui li dominava.
Era bellissimo, adorabile. Ancora piccolo, il bambino aveva al massimo due anni. Riccioli castano chiaro ne incorniciavano il volto da cherubino, le guance tonde e le labbra piene. E tremava a occhi chiusi, come se fosse troppo spaventato per vedere la morte che, un secondo dopo l'altro, gli si avvicinava.
M'invase il bisogno urgente di salvare il bimbo incantevole e terrorizzato, tanto che ignorai persino la presenza e la minaccia devastante dei Volturi. Sgattaiolai fra loro senza preoccuparmi che percepissero la mia presenza. Passata oltre, scattai verso il bambino.
Poi mi fermai vacillando quando riuscii a vedere bene il cumulo sul quale era seduto. Non era fatto di terra e roccia ma di corpi umani, rinsecchiti e inerti. Troppo tardi per non vederne i volti.
Li conoscevo tutti: Angela, Ben, Jessica, Mike... ed esattamente ai piedi dell'adorabile infante c'erano i cadaveri di mio padre e mia madre.
Il bambino aprì gli occhi, luminosi e rossi come il sangue.




mercoledì 23 maggio 2018

Sunset 51 - Ci avete creduto, eh?



Avrei potuto scrivere la parola fine a questa "favola". Certo. Avrei potuto ballare con Jacob ancora un po', poi presentarlo a Mike e Jessica e divertirmi con i miei amici e magari sapere che, un giorno, la mia amica Sarah si sarebbe risvegliata e avremmo giocato tutti insieme a Dungeons & Dragons. Avremmo mangiato pizza e deriso i Cullen e la mia vita a Forks sarebbe stata straordinaria, dopo quel ballo scolastico.
Ma io non ero la protagonista di una fanfiction e quindi non poteva concludersi così. Magari fossi stata la protagonista di una fanfiction: avrei trovato l'amore della mia vita al capitolo cinque ed entro la fine dell'anno saremmo stati re e reginetta del ballo e tutti mi avrebbero amata senza che io facessi niente per meritarlo. Invece niente amore (almeno quello romantico, perché vedete, ero circondata da amici meravigliosi) per me, solo guai che si approssimavano come nubi minacciose, cariche di una pioggia radioattiva e acida.
Forse ero la protagonista di una tragedia, non lo so, o di una distopia vampiresca. Definitivamente una distopia vampiresca.
L'orso vampiro era ancora a piede libero. E le mie sfortune non si erano concluse. Oh, se non si erano concluse.
Sarebbe stato bello credere ad un finale, ma non c'era nessun finale.
La serata stava volgendo al termine e io e i miei amici ci eravamo spostati fuori, nel parcheggio.
Avevo presentato Jacob a Mike e Jessica e i tre stavano ancora timidamente cercando di conoscersi meglio. Vedere Jacob dagli occhi dei miei compagni di scuola era strano: erano impressionati dalla sua taglia, dal suo aspetto "oscuro" e in qualche modo esotico, mentre per me era pur sempre Jacob, il ragazzino con cui giocavo da piccola e che mi aveva accompagnata a vedere il wrestling con una maglia gialla di Steve Austin.
Teoricamente, tutti quanti avremmo dovuto andarcene a casa, ma eravamo nella fase di "dai, ancora cinque minuti di chiacchiere" che sembra sempre essere contemporaneamente troppo breve e capace di prolungarsi all'infinito.
Ma eccoli comparire, i vampiri. Alice era in testa, con un gran vaso di fiori fra le mani, certamente regalo di qualche suo ammiratore, dietro di lei venivano Rosalie ed Edward.
«Guarda» Sussurrò Jacob, abbassandosi verso di me e con i pugni stretti «Ci sono i succhiasangue»
«Hmm...» annuii «Sfigati».
Jacob rise forte. Mike ci chiese cosa ci sembrasse così divertente e io gli indicai con molta discrezione, con il pollice, i vampiri alle sue spalle.
«Perché sono divertenti?» Domandò Mike, a bassissima voce, quasi spaventato «Sono dei criminali»
«Ma dei criminali tristi» gli risposi «È sempre divertente quando chi se lo merita è triste».
Alice stava venendo verso di noi. Mi accorsi solo con un paio di secondi di ritardo che era solo perché eravamo tutti fermi a parlare davanti alle loro automobili.
Mi spostai e così fecero i miei amici. Mentre i Cullen mi passavano vicino, potei vedere il vaso di cristallo pieno di rose bianche e rosse. A parte uno dei fiori bianchi, che accennava appena ad appassire, quel bouquet era impeccabile.
Ero tornata a rivolgermi a Mike, perciò non mi accorsi quando il vaso sfuggì di mano ad Alice. Udii solo il fruscio dell'aria sul cristallo e spostai gli occhi appena in tempo per vedere il vaso esplodere in diecimila schegge adamantine sull'asfalto del parcheggio.
Restammo tutti perfettamente immobili mentre i frammenti volavano e rimbalzavano in tutte le direzioni con un tintinnio discordante, gli occhi puntati sulla schiena di Alice. Il mio primo pensiero fu che lei odiasse in realtà quelle rose perché, si sa, i vampiri non possono amare le cose belle. Impossibile che avesse lasciato cadere il vaso per sbaglio. Io stessa avrei avuto il tempo di saettare fino a lì e afferrarlo prima che toccasse terra, se non avessi dato per scontato che l'avrebbe fatto lei e se me ne fosse davvero importato qualcosa. E poi, come aveva potuto scivolarle di mano? Con le sue dita infallibili, dure come il marmo e capaci di stritolarmi gli ossicini della mano come spicchi di limone...
Non avevo mai visto un vampiro lasciar cadere qualcosa per sbaglio. Mai.
Alice ci stava fissando. Si era voltata con un movimento così fulmineo che nemmeno pareva essere esistito.
Sentii Jacob sobbalzare e mi chiesi se sapesse controllarsi o se si sarebbe trasformato lì, nel parcheggio, e avrebbe attaccato i Cullen.
Alice, però, non sembrava ostile nei nostri confronti: i suoi occhi erano a metà strada fra noi e il futuro che li teneva inchiodati, spalancati, fissi e dilatati in modo abnorme. Le luci del parcheggio si riflettevano sulle sue iridi gialle creando punti di una luminosità troppo intensa. Guardarli era come guardare fuori da una tomba; l'angoscia e la disperazione nel suo sguardo erano soffocanti.
Udii Edward ansimare con un suono spezzato, quasi da soffocamento.
«Cosa c'è?» Ringhiò Rosalie, balzando al fianco di Alice in un lampo nebuloso e calpestando le schegge di cristallo. La afferrò per le spalle e la scosse brutalmente. Alice si lasciava sbatacchiare silenziosa fra le sue mani.
«Oddio» Commentò Jessica, un po' inquietata «Secondo voi sta avendo un attacco di qualcosa? Tipo di panico? Oppure sta per avere le convulsioni?»
«No» disse serio Jacob, senza spiegare la sua risposta, ancora concentrato sui Cullen.
Edward deglutiva convulsamente e tirò fuori un telefonino dalla tasca: compose il numero e disse qualcosa nel ricevitore a voce così bassa che pareva strano pure pensare che il microfono dell'apparecchietto l'avesse captata.
«Avete bisogno di aiuto?» Domandò Jessica, ad alta voce
«Lasciali stare, Jess» la fermò Mike
«Già, non ne vale la pena» Jacob scosse la testa «Lasciali stare»
«Stagli lontana, se puoi» mi aggiunsi io, seria «Non ti conviene immischiarti con le loro stupide faccende e i loro stupidi malori».
Jessica ci squadrò tutti con le sopracciglia aggrottate, sorpresa
«Ragazzi... ma che avete tutti quanti contro i Cullen? Lo so che sono degli egoisti bastardi e che Edward è un mezzo criminale, ma Alice sta male, dovremmo aiutarla»
«No» fu la risposta mia e di Jacob, sincronizzati, mentre Mike si stringeva nelle spalle.
Jessica non sapeva ancora tutta la verità. E neanche la verità parziale che avevo raccontato a Mike, quindi non sapeva che quei cosi dagli strani capelli e la pelle pallida non meritavano nessuna compassione. Ah, la mia ingenua, splendida Jessica. Un tempo anch'io ero stata così...
Praticamente dal nulla spuntò Carlisle.
«È il dottor Cullen?» Domandò Mike, strizzando gli occhi «Che ci fa qui?».
Doveva essere corso a velocità supersonica usando i suoi poteri di vampiro. La cosa era più seria di quanto pensassi.
Rosalie scosse di nuovo Alice, lanciando un'occhiata al suo papà adottivo «Che cosa è?».
«Stanno venendo a prenderci» Dissero Edward e Alice, in perfetto sincrono «Ci sono tutti».
Erano una delle cose più inquietanti che avessi mai visto.
«I Volturi» Gemette Alice
«Tutti» precisò Edward, nello stesso momento e con lo stesso tono di voce
«Perché?» sussurrò Alice fra sé e sé «Come mai?»
«Quando?» bisbigliò Edward
«Perché?» fece eco Rosalie.
Alice non batté nemmeno le palpebre, ma fu come se gli occhi le calasse un velo. Il suo sguardo divenne completamente vitreo, solo la bocca conservò un'espressione di orrore.
«Fra non molto» Rispose all'unisono con Edward. Poi aggiunse «C'è neve nella foresta, neve in città»
«Ma perché?» questa volta era Carlisle.
Anche Esme spuntò fuori da in mezzo alle auto. Mi faceva strano immaginarla a correre velocissima: a volte dimenticavo che anche quella cosina dall'apparenza fragile, che raccontava agli estranei i suoi problemi personali, era un vampiro letale.
«Deve esserci un motivo» Disse lei «Forse per vedere...»
«Non è Belarda, probabilmente» disse Alice, cupa «Stanno venendo tutti, Aro, Caius, Marcus, la guardia al completo, persino le mogli»
«Le mogli non lasciano mai la città» obbiettò Rosalie con voce incolore «Mai. Non l'hanno lasciata durante la guerra del Sud, né quando i rumeni hanno cercato di conquistare il potere, neanche quando...» mi lanciò un'occhiata e rimase in silenzio.
Tutti i Cullen si girarono a guardarmi. Avevano fatto il mio nome, prima! Che cosa c'entravo io con le loro stupide guerre fra clan di stupidi vampiri?
«Lasciatemi fuori da questa storia!» Sibilai, indietreggiando
«Bella...» sussurrò Edward, protendendo una mano verso di me
«Stai indietro!» ruggì Jacob, abbassandosi sulle gambe «Non la toccare!»
«Stai indietro tu, cane» rispose Edward, acido «Non sai neanche cosa voglio dirle»
«Lasciala in pace» aggiunse Mike «Hai ancora un ordine restrittivo. Non rivolgerle la parola»
«Come dicono loro» mi affrettai ad aggiungere, mentre Jessica rideva sotto i baffi e mi dava pacchette su una spalla.
Edward indietreggiò, tenendo la schiena ben dritta. Una brezza sottilissima gli muoveva dolcemente il ciuffo ribelle.
«Belarda» Disse «Siamo tutti in mortale pericolo. Dobbiamo parlare. Solo per un attimo»
«No» ansimai «Non voglio più avere niente a che fare con tutti voi...».
Jacob e Mike mi facevano scudo con i loro corpi. Jessica mi strinse una mano
«Hai sentito, Cullen» urlò «Non vuole parlarti. Adesso lascia stare in pace Belarda».
Edward digrignò i denti rilucenti
«Moriranno tutti, Bella» minacciò «Moriranno, se non ci organizziamo»
«Li stai minacciando?» quasi strillai, allibita «Come ti permetti, animale?»
«Non li sto minacciando. Sto dicendo cosa succederà. Non posso dirtelo di fronte a loro, ma sono in pericolo. Tutti siamo in pericolo»
«Balle»
«Almeno ascolta quello che ho da dire. Ti prego. Ti prego, Bella!».
Guardai tutti i miei amici. I miei splendidi, meravigliosi amici che non meritavano di stare a sentire le baggianate che Edward sparava da quel buco sbrillucicante di denti che aveva per bocca, ma neppure di morire per colpa di chissà quale cosa orribile stava arrivando.
Annuii
«Ragazzi, per favore, fatemi parlare un attimo con Edward»
«Che cosa?!» Mike mi strattonò da un braccio «No, hai detto tu che...»
«Ti prego, solo per un attimo. Se mi dirà le sue solite stupidaggini lo manderò a quel paese e basta»
«Non puoi, Belarda» disse Jacob «Lo sai che cosa sono! Non ti lascerò da sola con loro!»
«Solo io non so cosa sono?» si lamentò Jessica «E comunque non ci parlare, Belarda! Se tutti pensate che portano solo guai lasciali stare!»
«Avete ragione tutti» dissi, prendendo un gran respiro «Ma voglio sentire che cosa ha da dire. Solo per un istante. Solo un attimino ino ino. Mi potete guardare da laggiù» indicai uno spazio del parcheggio vuoto, fra due macchine basse «E intervenire se ci sono problemi. Edward vuole solo che non lo sentiate parlare»
«È una follia» disse Mike «Ma la rispetto. Andiamo»
«Io non la rispetto!» ruggì Jake, scoprendo i canini bianchi e deliziosamente appuntiti «Questo bastardo le potrebbe fare del male! Io sono qui per...»
«Calmati!» ordinai «E vai con gli altri. Ti raggiungo subito. Calmati, Jacob: lo sai cosa può succedere se non ti calmi».
Il ragazzone chiuse la bocca, serrando le labbra. Gli tremavano le sopracciglia, ma sembrava aver capito di cosa stavo parlando.
«Vai» Dissi ancora «Ti prometto che non succederà niente»
«Promettilo»
«L'ho appena fatto, Jake! Ma le orecchie ce le hai funzionali o sono solo vestigiali?»
«Eh? Che cavolo hai detto?»
«Vai con loro Jacob. Proteggili e stai attento».
Lui annuì e, titubante, accompagnò i miei compagni di scuola allo spazio vuoto. Sentivo i loro occhi che mi fissavano la schiena, pronti a intervenire al minimo cenno di pericolo.
«Ora possiamo parlare» Dissi ad Edward, alzando il mento con aria di sfida «Ma fai in fretta. Di cosa vi state preoccupando? Che c'entro io? Perché i miei amici sono in pericolo?».

Edward tentennò, come cercando di trovare di comunicarmelo nel modo più delicato possibile. Non volevo la sua delicatezza, ma lasciai che riorganizzasse le idee.
«I Volturi» Ripeté lentamente Edward «Bisogna iniziare da loro per capire qual è il pericolo che stiamo correndo. Aro, Marcus, Caius».
Ricordavo di aver già sentito quei nomi, ma la mia limitata memoria non mi consentì di ricordare dove. Lui sembrò quasi deluso dal mio stoicismo e i suoi occhi iniziarono a vagare.
«Cosa sono i Volturi?» Chiesi, schioccando le dita per attirare la sua attenzione
«Una famiglia» rispose, ancora con lo sguardo lontano «Una famiglia di nostri simili, molto antica e potente. Quanto di più vicino abbiamo ad una casata reale, più o meno. Comunque sia i Volturi non vanno fatti arrabbiare, a meno che non si cerchi la morte o qualunque altra cosa ci tocchi»
«Fammi indovinare, voi li avete fatti arrabbiare» dissi. Questa faccenda dei nobili vampiri sembrava più vicina agli standard dati da Van Helsing.
«C'è una ragione per cui li consideriamo la nostra famiglia reale... la classe dirigente» Si inserì Rosalie, con un certo luccichio fanatico negli occhi «Nel corso dei millenni hanno assunto il ruolo di controllori delle regole, il che consiste, a conti fatti, nel punire i trasgressori. E svolgono il proprio compito con rigore».
Strabuzzai gli occhi, sorpresa. «Ci sono delle regole? Cioè, voi cosi siete a regola?»
«C'è soltanto una regola sensata e la maggior parte di noi ce l'ha ben presente... dobbiamo mantenere segreta la nostra esistenza» Proseguì Edward «Ma nei secoli capita che qualcuno si annoi. O impazzisca. Cose del genere. In quel caso, i Volturi intervengono prima che il ribelle comprometta loro, o altri».
«Quindi, Edward... dato che mezzo mondo sa che sei un vampiro, ti sei fatto beccare dalla sbirraglia e sarai annientato?» Chiesi speranzosa.
Lui mi guardò con le sopracciglia aggrottate e assottigliò le labbra, come se fosse stato davanti ad una bambina particolarmente disobbediente. «Non sanno che tu sai il nostro segreto, e non dovranno mai saperlo. Se i Volturi scoprissero una cosa del genere, saresti condannata: o uccisa... o trasformata in una di noi. E se vedessero che i cani si sono trasformati, li sterminerebbero dal primo all'ultimo. Sono molto potenti, e i licantropi non gli stanno molto simpatici Bella».
La faccenda sembrava molto meno divertente. Anzi, sembrava proprio una schifezza. Guardai con orrore Edward, e lui ovviamente sorrise vedendo il mio sconforto.
«Quindi stanno venendo a prendervi... ma non per me?» Chiesi, più timidamente
«Ma perché?» Chiese di nuovo Carlisle «Non abbiamo fatto niente! E se anche avessimo fatto qualcosa, cosa potrebbe essere tanto grave da farci meritare questo?»
«Siamo in tanti» rispose Edward atono «Vorranno assicurarsi che...». Non terminò la frase.
«La domanda cruciale è un'altra! Perché?».

--------------------------------------------------------

Note degli autori: Quando abbiamo interrotto a metà la storia, vi abbiamo dato degli indizi e fra questi c'era la colonna sonora dei Volturi. Nei commenti abbiamo risposto a qualcuno che la ragione di esistenza di questa storia era l'orso vampiro. Vi avevamo promesso che questo libro sarebbe stato MOLTO più lungo di Twilight. Eppure nessuno ci ha domandato come mai l'avevamo troncata bruscamente alla scena del ballo.
Ragazzi, non è ancora successa neanche la scena del prologo! Vi avevamo promesso che le parti adrenaliniche ancora devono venire e noi non ci rimangiamo le promesse.


La parte migliore del libro comincia... adesso. Godetevela.