martedì 29 maggio 2018

Sunset 53 - Organizzazione di riunioni semi-clandestine



Mi svegliai nel mezzo della notte, spalancando gli occhi. Davanti ai miei c'era un paio di occhi rosso sangue, aperti nel buio, che mi paralizzarono all'istante. Dopo due battiti cardiaci accelerati mi accorsi che erano quelli rossi e tranquillizzanti di Dracula, che si stava accingendo, a zampina tesa, a toccarmi il naso.
«Ciao, bimbo micio» Tubai a voce bassissima. Le fusa di Dracula saturarono l'aria e mi resi conto di averlo proprio sul petto. Gli accarezzai il pelo nero, e sentii subito scemare l'ansia che minacciava di attanagliarmi il petto.
Il gatto si accoccolò contro il mio petto, strusciandosi sulle mie dita con il naso ogni volta che gli arrivavano a tiro. Glielo toccai, quel nasino fresco e morbido, e lui fece una specie di "mrr" fievole e trillante.
Inspirai ed espirai, sentendomi decisamente più tranquilla. Ero sveglia, ora nessun bambino mostruoso né Volturo poteva prendermi.
Ah, no. Aspetta.
Sentii improvvisamente la gola secca e rimasi per un attimo a battibeccare con me stessa sul fatto che fosse il caso di sottrarre il calore e conforto del letto alle mie membra stanche, rischiando di perdere il sonno che mi era rimasto, oppure fosse meglio rimanere e rischiare di dormire male per la sete e gli strascichi dell'incubo.
Alla fine scostai le coperte con un braccio solo tenendo Dracula al petto con l'altro e ciabattai fuori dalla mia stanza.
«Un bambino vampiro» Dissi a Dracula, dandogli un bacetto sulla sua testa pelosa «Cosa penserebbe Freud di me?»
«Mrr»
«Già, qualcosa del tipo che la mia innocenza è stata violata e ho un complesso materno non risolto. Qualunque cosa significhi. Mica Freud lo sa che tra un po' mi sogno un albero vampiro perché il problema non sono i bambini ma quei cosi... Dracula, solo tu mi capisci»
«Mrumumru».
Lo accarezzai tra le orecchie mentre lo deponevo delicatamente a terra e mi procacciavo un bicchiere. La casa era del tutto silenziosa tranne lo statico della TV, che papà si era dimenticato di staccare dallo spinotto, ed il ticchettare ritmico e squittente delle lancette dell'orologio.
Non me lo aspettavo, ma mi tranquillizzò. Mi sentivo al sicuro nel buio di casa mia, senza un respiro fuori posto.
Mentre sorseggiavo l'acqua fresca con un gatto caldo sui piedi e la schiena poggiata contro il ripiano, la mia mente continuava a cercare di convincermi che c'era un significato al mio sogno. Ma c'era davvero? Il sogno di per sé mi sembrava simboleggiasse solo cose ovvie: avevo paura per me e i miei cari, i vampiri erano schifose carogne assassine anche quando sembravano innocenti. Ma perché volevo proteggere il bambino?
«Maaaau».
Perché stavo perdendo sonno e tempo preziosi a cercare di decifrare una cosa che probabilmente non aveva un senso più profondo, ma era solo il mio cervello stanco che cercava di farmi impazzire? Scossi la testa. Mandai un messaggio a tutte le ragazza-lupo e a Jake, chiedendo tutti loro di vederci davanti casa dei Black domattina alle dieci e mezza. Esaurii il credito, ma chi se ne fregava.
Almeno l'avrebbero visto per prima cosa la mattina dopo.
Mi sentii subito più tranquilla, come se mi fossi svegliata solo per smessaggiare i licantropi, finii di bere tutta l'acqua possibile e sentendomi come un barilotto pieno ripresi Dracula come un bambino tra le mie braccia e tornai a dormire, addormentandomi quasi subito.
Il giorno dopo mi svegliai sentendomi decisamente più riposata. Dracula si era spostato durante la notte, e adesso stava fissando la finestra e facendo dei vocalizzi serrati e acuti con la boccuccia.
Non sembrava affatto spaventato: doveva aver visto un qualche uccello fuori dalla finestra.
Mi preparai in fretta, nonostante non ci fosse scuola, e trovai papà al piano di sotto con i capelli spettinatissimi, un gattino tripode su una spalla e una tazza tra le mani.
«'Giorno pa'. Che fai di bello?».
Lui mi guardò colpevole, ed anche Lillo. «Preparo la colazione».
Mi sedetti al tavolo, allungando un braccio per posare di fronte a me il telefonino, in attesa dei messaggini dei miei amici. E nel frattempo mi chiedevo... ma che razza di colazione stava preparando papà?
Mi ci vollero alcuni istanti per accorgermi che la tazza che aveva tra le mani era piena di pastella per fare i pancake e che doveva ancora iniziare a riscaldare la padella in cui versarla.
Mentre il possente poliziotto Cigna si scottava le dita per capire se la temperatura era quella giusta, io ricevetti il primo messaggio. Non era di nessuna delle donne lupo, ma di Mike, che mi informava che erano iniziate le riprese per uno spin-off di PugniCalci, un telefilm che riprendeva la vita di Huan (chi cavolo era Huan? Non me lo ricordavo) e che lui non vedeva l'ora di vedere. Purtroppo, non avevo credito per rispondere, così sospirai e rimisi a posto il telefono.
I pancake che papà servì erano bruciacchiati, ma mangiabili, e li ricoprii con un sottile strato di miele millefoglie prima di tagliarli in pezzettini e gustarli lentamente.
«Hai cucinato con il gatto sulla spalla?» Gli domandai, realizzando improvvisamente che Lillo era ancora lì, saldamente di lato alla faccia di papà
«Ehm... non vuole scendere. Poverino, non lo faccio andare giù, no?»
«Rischi che il gatto ti cada nella padella e si bruci. Ha solo tre piedi, papà»
«Ma si tiene per bene!» replicò, tuttavia fece con delicatezza scendere Lillo, spaventato all'idea che potesse davvero cadergli dentro la padella (anche se ora stavamo mangiando e non c'era nessuna padella).
Il gattino tripode, indignato, si era guardato intorno, aveva drizzato la codina come l'asta di una banidera e poi si era aggrappato al braccio del suo papà umano, cercando di scalarlo e di ritornare a quello che credeva essere il suo legittimo posto.
Quando ebbi finito di mangiare, salutai papà e gli dissi che andavo dalle mie amiche e da Jacob, alla riserva. Lui annuì e mi salutò sventolando la mano, con Lillo attaccato al polso come se avesse il velcro al posto delle zampine.
Fuori pioveva, così indossai la giacca impermeabile e mi tirai su il cappuccio. Entrai in macchina e la avviai, azionando i tergicristalli che si muovevano pigramente per permettermi di vedere la strada. Gocce su gocce, sottili come spilli, cadevano sul parabrezza e poi venivano spazzate via: era ipnotico.
Dopo poco arrivai a metà del tratto settentrionale di Russel Avenue, di fronte a casa Cheney, mentre dall'altra parte del veicolo vivevano i Mark. C'era un motivo per cui mi ero fermata: c'era un cartello nel giardino dei Mark, scritto in ero, scarabocchiato in lettere maiuscole probabilmente vergate con un pennarello mezzo scarico e appeso alla cassetta delle lettere.
Una coincidenza? O era scritto? Non lo sapeva, ma sembrava un po' sciocco pensare che il fato avesse assegnato alle motociclette scalcagnate lasciate ad arrugginire nel prato dei Mark, accanto al cartello VENDESI COME SONO, un ruolo particolare, soltanto perché si trovavano lì dov'erano e sentivo di desiderarle.
Forse, in fondo, non era il destino. Forse c'erano molte cose insensate e strane e meravigliose ed era soltanto questione di aprire gli occhi un po' di più per cogliere.
Avevo già un pick-up meraviglioso, non avevo bisogno di una motocicletta, riflettei... e poi a papà le motociclette non piacevano.
Il lavoro di Carlo non era certamente frenetico come sarebbe stato in una grande città, ma quando si verificava un incidente stradale lui si recava sempre sul posto. A quel genere di impegno era abituato, grazie ai lunghi rettilinei autostradali dal fondo umido che svoltavano di colpo nella foresta, curva cieca dopo curva cieca. Gli automobilisti, compresi i conducenti dei grandi camion trasporto legna, se la cavavano quasi sempre senza problemi. L'eccezione alla regola erano i motociclisti e papà ne aveva già visti parecchi, spesso solo ragazzi, spalmati sull'asfalto.
Prima del mio decimo compleanno, papà mi aveva fatto promettere che non avrei mai accettato un passaggio in moto e già a quell'età non avevo dovuto pensarci due volte per rispondere di sì. Chi era così matto da guidare una moto nella piovosa Forks? Era come fare un bagno a cento all'ora.
Avevo sempre mantenuto quella promessa. E avrei continuato a mantenerla: non mi sarei mai fatta dare un passaggio in moto. Ma questo non significava che non avrei potuto guidarne una io stessa!
Era irrazionale, forse persino stupido, ma sentivo di dover possedere una motocicletta. Sentivo che sarebbe stato importante nella nostra battaglia contro i Volturi.
E se avessi comprato le moto e poi le avessi regalate alle mie amiche alla riserva? Anche quella sembrava una buona idea.
Insomma, le dovevo comprare. Queste furono le mie riflessioni, se di riflessioni possiamo parlare, perché avvennero in non più di trenta secondi.
Parcheggiai, scesi dall'auto e sotto la pioggia scrosciante mi avvicinai alla porta di casa dei Mark. Suonai il campanello.
Ad aprire fu uno dei figli, il più giovane, che frequentava il primo anno. Non ne ricordavo il nome. Aveva i capelli biondicci e mi arrivava alle spalle.
Lui, al contrario di me, ricordò all'istante come mi chiamavo «Belarda Cigna?» esclamò sorpreso
«Quanto vuoi per una moto?» chiesi d'un fiato, indicando con il pollice la merce in vendita alle mie spalle
«Dici sul serio?»
«Certo che si. Non lo vedi che sono sotto un torrente d'acqua? Non perderei tempo a dire queste cose per scherzo, adesso»
«Ma non partono nemmeno».
Sbuffai impaziente: questo l'avevo già capito.
«Quanto vuoi?»
«Se ne vuoi una» rispose «Prendila pure. Mia madre ha costretto mio padre a spostarle in strada per farle portare via assieme alla spazzatura».
Diedi un'altra occhiata alle moto e mi accorsi che erano parcheggiate sopra un tappeto di rami morti e di resti di piante tagliate. In effetti, a guardarle meglio, sembravano proprio spazzatura... ma ormai le desideravo. Specie se era roba gratis: come si fa a dire di no alla roba gratuita?
«Sei sicuro?» Gli domandai «Sicuro sicuro?»
«Certo. Vuoi chiederlo a lei?».
Probabilmente era meglio non coinvolgere adulti che avrebbero potuto spifferare tutto a papà: glielo avrei detto io, a tempo debito. Ma il tempo debito non era ancora arrivato.
«No, no, ti credo»
«Vuoi che ti aiuti? Non sono leggere»
«Si, grazie. Ne prendo soltanto una? Sei sicuro che l'altra non la vuoi vendere?»
«Megli se te le prendi tutte e due» insistette il ragazzo «Possono esserti buone per i ricambi».
Mi seguì sotto l'acquazzone e mi aiutò a caricare entrambe le moto sul cassone del pick-up. Sembrava davvero ansioso di liberarsene, perciò lo lasciai fare.
Lo sentivo, ero in qualche modo destinata ad avere quelle moto, ottenerle era sin troppo facile...
«Scusa, ma cosa vuoi farci?» Chiese lui «Sono ferme da anni»
«lo immaginavo» dissi e feci spallucce. Il mio capriccio momentaneo non si era ancora risolto in un piano completo. «Magari le faccio riparare da Dowling».
Lui ridacchiò, passandosi il dorso della mano sulla bocca.
«Con la cifra che ti chiederebbe per ripararle potresti comprarne due nuove».
Aveva ragione. I prezzi alti di John Dowling erano noti a Forks: nessuno si rivolgeva a lui, se non in caso di emergenza. I più preferivano andare fino a Port Angeles, se l'auto poteva arrivarci. Io ero stata molto fortunata sotto questo punto di vista: quando papà mi aveva regalato il pick-up, temevo che non mi sarei potuta permettere le spese di manutenzione di quel pezzo da museo... invece non mi aveva mai dato un problema, se si esclude l'ovvio rumore assordante del motore e il suo ragionevole limite di velocità di novanta chilometri all'ora. Jacob Black aveva tenuto quel Chevy in forma smagliante, finché era appartenuto a suo padre Billy...
L'idea mi arrivò improvvisa come un lampo.
«Sai una cosa?» Sorrisi «Non c'è problema. Conosco una persona che ripara moto»
«Ah, bene!» anche lui sorrise, soddisfatto.
Mentre me ne andavo mi salutò con la mano, sempre sorridente. Che caro ragazzo.
La mia guida si era fatta più veloce e concentrata.
Ed ecco spuntare la casa dei Black, una piccola costruzione in legno con finestre strette, verniciatura rosso opaco e quel non-so-che di rurale che la faceva somigliare ad un fienile in miniatura. Prima ancora che scendessi dal pick-up, la testa di Jacob spuntò da una finestra: di certo il rombo familiare del motore l'aveva avvertito del mio arrivo. Jacob era stato felice che Carlo avesse comprato il pick-up di suo padre per me, evitando a lui la condanna di doverlo guidare una volta raggiunta l'età giusta. Io e lui non avevamo gli stessi gusti in fatto di auto: a me il pick-up piaceva molto, ma per lui la velocità ridotta era una disgrazia.
Jacob uscì di casa per venire a salutarmi.
«Hey, Belarda!». Sul suo volto era stampato un grande sorriso, il bianco dei denti contrastava vivacemente con il colorito rossastro della pelle. I capelli sciolti cadevano come piccole tende di seta ai lati della sua faccia larga..
Aveva superato il momento in cui la muscolatura tenue dell'infanzia si trasforma nella struttura fisica più solida e slanciata dell'adolescente e sotto la pelle rosso-bruna delle braccia e delle mani spiccavano tendini e vene. Il volto era ancora dolce, ma i lineamenti un po' più marcati, le guance più aguzze, la mascella quadrata. Avevo già osservato questi cambiamenti in lui, la notte del ballo, ma vederli alla luce del sole li rendeva in qualche modo più reali.
Jacob era un mostrone. Un bellissimo mostrone sorridente, non più un bambino lungo e secco, anche se era ancora scoordinato.
«Ciao, Jacob!» Lo salutai, sollevandomi come per istinto sulla punta dei piedi, per cercare di avvicinare un po' più i nostri sguardi sulla stessa linea d'aria.
Lui si arrestò a meno di un metro da me.
«Sembri cresciuto ancora» Esclamai, meravigliata.
Una risata, e di nuovo quel sorriso immenso «Sono più di un metro e novanta» annunciò, fiero di sé
«Sei come quei pesci a crescita indeterminata. Ma ti fermerai mai?» scossi la testa, incredula «È come se da ieri a oggi fossi diventato più grosso»
«Dai, entra, ti stai inzuppando» fece una smorfia.
Mi fece strada, raccogliendosi i capelli con le grandi mani mentre camminava. Dalla tasca tirò fuori un elastico per fissare la coda.
Avevo scelto una pessima giornata, dal punto di vista climatico, per riunirmi con le ragazze-lupo... ma d'altronde, era necessario fare sapere al più presto a tutte loro che cosa stava per succedere.
Non erano ancora le dieci e mezza, perciò avrei dovuto aspettare dentro casa con Jake.
«Ehi, papà» Esclamò lui, abbassandosi per passare dalla porta «Guarda chi è venuto a trovarci!».
Billy era nel piccolo salotto quadrato, con un libro in mano. Quando mi vide lo chiuse e, tenendoselo in grembo, spinse la sedia a rotelle verso di me.
«Ma tu guarda! Che piacere rivederti, Bella».
Mi strinse la mano, quasi nascondendola nel suo grosso palmo.
«Qual buon vento? Carlo sta bene?»
«Si, tutto a posto. Volevo soltanto passare a salutare Jacob, non ci vediamo da una vita. E poi ho anche dato appuntamento ad alcune amiche della riserva, solo che c'è questo tempaccio da lupi...».
Alle mie parole, gli occhi del ragazzo si illuminarono. Sorrideva così tanto da rischiare una paralisi facciale.
«Resti a cena?» Anche Billy era su di giri
«Ma se è ancora mattina?»
«E stai con noi tutto il giorno?».
Di fronte a tanto entusiasmo, non potei trattenere una risatina compiaciuta, ma contemporaneamente scossi la testa
«Mi dispiace, ma no. Sai com'è, devo cucinare per papà»
«Lo chiamo subito» suggerì Billy «È sempre il benvenuto qui».
Cercai di nascondere il disagio (oddio, perché il mondo complottava perché papà scoprisse che avevo preso due motociclette?) con un'altra risata
«Non passerà un'eternità prima che mi rifaccia viva, non preoccupatevi. Prometto che tornerò... talmente spesso che vi stuferete di me. Non c'è bisogno di chiamare papà, lui ha un sacchissimo da fare, specie ora che ha un nuovo gatto».
Dopotutto, se Jacob fosse riuscito a riparare le moto, avrei avuto anche bisogno di qualcuno che mi insegnasse a guidarla.
Billy si strinse nelle spalle, mentre continuava a sorridere «a bene, Bella, facciamo la prossima volta»
«Allora, Belarda, che vuoi fare?» si intromise immediatamente Jacob
«Veramente starei aspettando le ragazze. Hai ricevuto il mio messaggio?».
Lui si accigliò per un istante
«Il tuo messaggio?» domandò «No... non ho... il mio telefono non può ricevere i messaggi, Bell»
«Oh. Me l'ero scordato. Scusa. Caspita, ho perso altro credito telefonico per niente... cosa stavi facendo prima che ti interrompessi?».
Jacob tentennò, forse intuendo che volevo parlargli di qualcosa
«Stavo per andare a lavorare un po' alla mia macchina» disse «Ma possiamo fare qualcos'altro...»
«No, è un'ottima idea! Mi piacerebbe vederla»
«Va bene» rispose poco convinto «È nel garage sul retro».
Meglio ancora, mi dissi. Salutai Billy «Ci vediamo dopo».

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