martedì 8 maggio 2018

Sunset 44 - Incontri randomici a spasso per la città 1



Continuai a camminare. Come già detto, non avevo una meta precisa. Rafforzai la mia decisione di andare nella stanza degli specchi quando tutto questo fosse finito, così, se Alice avesse sbirciato nel mio futuro, sarebbe davvero stata la scuola di ballo l'unica cosa che avrebbe potuto vedere.
Certo, era moltissimo che non pensavo più alla scuola di ballo. Da piccina ero entusiasta ma piuttosto timida, e per quanto fossi una frana a ballare e mia madre una sadica a farmi frequentare certe lezioni, quell'attività condivisa era stata una scusa per fare amicizia per tutti noi bambini.
Avevo bei ricordi della mia infanzia a Phoenix, sebbene non rivaleggiassero quelli di Forks. Anche se non avevo lasciato questa città baciata dal sole da molto tempo ebbi voglia di visitare i posti che avevo bazzicato fino ad un anno fa. Avevo voglia di vedere se Phoenix era cambiata nel breve tempo della mia assenza, se le mie conoscenze non mi avrebbero più riconosciuto, anche se erano entrambe improbabili.
Ma un segugio vampiro aveva rintracciato la mia vecchia scuola di ballo pensando proprio che ci sarei andata, e quindi i posti nostalgici erano da evitare come la peste.
Presi un imponente autobus che pubblicizzava una bevanda di un colore troppo dubbio per potermi sembrare commestibile; non sapevo neppure dove mi avrebbe portata, e forse questa era la cosa migliore. Sacrificai un altro po' dei miei pochi spiccioli per la corsa, sorridendo al conducente sovrappeso con una maglia degli AC\DC che si fermò e aprì la portiera per me.
Si si, c'erano altri visitatori che si stavano avvicinando per andarsene dallo zoo, però io ero la prima fila e l'autista guardò proprio me mentre apriva la portiera.
Attirai parecchie occhiate curiose, ma per mia fortuna l'autobus non era così affollato da costringermi a stare in piedi, specie dopo che si svuotò come un secchio rovesciato quando molti dei passeggeri – turisti con cappellini e macchine fotografiche – mi fecero spazio scendendo e barcollando nella calura incombente diretti allo zoo.
Sgusciai dentro in fretta e mi accomodai in uno dei sedili di mezzo, vicino al finestrino, prima che i nuovi visitatori si prendessero i posti più belli.
La vettura non era ancora stata riempita quando, sbuffando, le portiere si richiusero e l'autobus si riaccese. Molti posti erano ancora vuoti: difatti, sia i posti direttamente accanto ai miei che quelli avanti erano vuoti, e in quello dietro c'era solo una bimba che giocava con un gameboy vintage, poco discosta dai suoi genitori.
Non quello accanto al mio.
Accanto a me c'era un uomo alto, biondo e robusto, dai lunghi capelli intrecciati in una complicata acconciatura a cui non sapevo dare un nome. Indossava un paio di occhiali da sole dalle lenti rosse e guardava fuori dal finestrino.
Dalle maniche corte della sua maglietta marrone decorata con il disegno di un serpente argentato spuntavano un paio di braccia grosse e muscolose, ricoperte di peli biondi.
Rimanemmo in silenzio mentre il bus proseguiva, ma non potevo fare a meno, di quando in quando, di lanciare occhiate di sottecchi verso il tizio, che dal canto suo non mi calcolava affatto.
La sua faccia era in qualche modo familiare, ma credevo di non averlo mai visto prima. Forse somigliava a qualcuno.
Anche se era seduto, potevo intuire che fosse più alto di Jacob e anche se non aveva un fisico scolpito era così robusto e muscoloso da poter probabilmente combattere con un orso (ma non con un orso-vampiro-divinità). Dai lunghi capelli biondo grano alla folta barba che gli copriva il profilo della mascella e del mento, sembrava un qualche tipo di dio norreno, un Thor con gli occhiali da sole.
D'improvviso voltò la testa verso di me, le narici dilatate per un attimo.
«Salve» Salutai affettatamente, sapendo di essere diventata rossa.
Lui parve annusare l'aria, poi sorrise amichevolmente. Aveva denti da vampiro vero, non come Edward, ma con grossi canini affilati.
«Salve» Rispose, con gradevole voce da baritono e accento spagnolo «Bella giornata per un giro, eh?».
Voltai la testa dall'altro lato, imbarazzatissima. Quell'accento era stato del tutto inaspettato.
Mentre guardavano fuori dal finestrino, lo sentii annusare di nuovo. Puzzavo forse? Oddio, ero sicurissima di puzzare, soprattutto dopo aver cavalcato una cammella sotto il sole.
«Devo farti una domanda» Mi disse «Se non sono troppo indiscreto»
«D-dimmi» balbettai
«Hai incontrato, nelle ultime ore, una persona molto pallida che evita di esporsi alla luce del giorno e ha occhi di un colore strano?».
Mi irrigidii. Stava descrivendo i Cullen. Mi chiesi se fosse possibile che mi avesse sentito addosso l'odore dei vampiri e sapevo di non stare correndo troppo di fantasia, non dopo tutto quello che avevo passato.
«Si» Dissi, con il cuore che mi batteva pesante nel petto
«Ah. E dove, se posso saperlo?»
«Io... in un albergo» deglutii.
Non riuscivo a guardarlo in faccia mentre lui guardava me.
«Che sbadato» Disse, con quella che sembrava sincera contrizione «Devo esserti sembrato un molestatore, non mi sono neanche presentato! Il mio nome è Alejandro De Rocamora»
«Molto piacere Alejandro, il mio nome è Isabella Swan».
La sua mano, che strinse la mia con delicatezza, era enorme e aveva un'aria letale, con le vene in rilievo sui dorsi e unghie stranamente spesse e giallastre, l'aria di una mano che avrebbe potuto stritolarmi la testa.
Avrei voluto presentarmi a lui con il mio vero nome, ma non si era mai troppo cauti quando si era inseguiti da un vampiro che leggeva nel pensiero delle persone.
«Dove vai di preciso?» Chiese lui, educatamente «Sempre se non sono molesto. È solo per fare un po' di conversazione prima di arrivare»
«Oh, non lo so» mi aggiustai la parrucca, nervosa «Sto solo facendo un giro. È una bella giornata...»
«Stai mentendo» mi disse, sempre nello stesso tono gentile
«Come, scusa?»
«Sono sicuro che tu stia mentendo, cara piccola Isabella. Tu estás huyendo» scosse la testa molto piano «Dai vampiri, non è vero? È da loro che stai scappando»
«Come fai a saperlo?» domandai, con un attacco di fiatone che mi faceva suonare come una pervertita al telefono
«I capelli rosa. La gente si concentrerà su quelli e sugli occhiali e non ricorderà la tua faccia. Stai scappando»
«E come fai a sapere dei... vampiri? Non sto dicendo che è vero» alzai le mani, rendendomi conto di non essere in grado di mentirgli «Sto solo dicendo che è una strana congettura, Alejandro»
«Hueles como un vampiro» mi sorrise come se avessi capito
«Non ho capito» chiarificai
«Puzzi come loro» spiegò.
Ah, allora non puzzavo di cammella, puzzavo di Alice Cullen. Molto, molto peggio.
«Come sai dei vampiri?» Domandai sottovoce
«Non c'è bisogno di parlare piano» lui accavallò le gambe come una signorina «Nessuno penserà che stai parlando di vampiri davvero».
Non potevo dirgli che usavo quel tono di voce perché altrimenti si sarebbe sentito troppo il mio ansimare, così continuai a parlare piano piano
«Si, ma tu come lo sai?»
«Ne ho terminati così tanti...» si guardò le unghie della mano sinistra «Conosco il loro odore, sono stato addestrato»
«Ah. E quindi...» mi illuminai «Potresti uccidere anche loro?»
«Non oggi, no. Io sto andando in un posto, non sto vagando. Ma puoi aiutarmi a localizzarli e ci andrò più tardi, se è quello che desideri»
«Come mai pensi che ti ho chiesto di ucciderli?» domandai.
Lui rise, un rumore come un ringhio, come un rombo di motore, poi si posò entrambe le mani in grembo
«Tu cara se iluminó cuando me preguntaste si podía matar a esos vampiros. Sembravi felice, chiedendomelo».
Annuii, seria
«Voglio solo che muoiano tutti»
«È quello che vogliamo tutti, piccola Isabella. Ma io realizzerò il tuo desiderio, prima o poi. Dimmi dove abitano e questo Babbo Natale porterà il carbone ai bambini cattivi».
Gli diedi l'indirizzo dei Cullen, non lesinando sui dettagli. Gli descrissi la famiglia dei vampiri e i loro poteri e lui si accigliò dietro le lenti rosse degli occhiali da sole quando gli dissi di Alice che poteva leggere nel futuro e di Edward che poteva leggere nel pensiero.
«Nel futuro, hai detto?» Mi domandò
«Si. Ma può vedere solo le conseguenze di decisioni già prese»
«Se io prendessi la decisione di andare a casa loro e bruciarli mentre sono dentro, lei lo vedrebbe, quindi?»
«È probabile» mi strinsi nelle spalle «Ma non lo so. Recentemente uno di loro è morto, ma lei non è riuscita a prevederlo per qualche motivo»
«Come è morto?» la sua voce suonava colma di curiosità.
L'autobus si fermò. Lui guardò il portello aprirsi
«Io scendo qui» disse «Vuoi venire con me?»
«No, grazie»
«Perché no?»
«Spero che tu non ti offenda, ma ne ho abbastanza di combattere vampiri e venendo con te rischio di incontrarne altri. E poi sei uno sconosciuto che ho beccato su un autobus»
«Capisco e hai ragione. Allora goditi la tua giornata» lui annuì e si alzò in piedi.
Era parecchio più alto di Jacob, davvero immenso. Si allontanò con falcata potente sulle sue lunghe gambe muscolose e balzò giù dall'autobus, lasciandomi sola.
Mi sentivo come se avessi appena incontrato un Thor sterminatore di vampiri spagnolo ed era davvero una bella sensazione.
Certo, ma com'era che stavo incontrando tutta questa gente che sapeva del sovrannaturale da quando avevo avuto a che fare coi Cullen? Alejandro, le ragazze della riserva, Undertaker...
Era come se fossi stata appena accettata dentro un club segreto, ma così segreto che i membri non si conoscevano tra loro che di sfuggita e non si capiva bene come ci eri entrato.
Non mi si fraintenda, non mi dava per nulla fastidio che questi alleati, tutti più esperti di me finora, fossero automaticamente dalla mia parte e facessero fuori i vampiri al posto mio. A meno che non mettessero in pericolo sé stessi. A meno che non fossero...
Cercai di non intraprendere quella strada mentale pericolosa, tenendomi alla larga dal pensiero di Sarah (Sarah a terra, Sarah immobile, Sarah in un lago di sangue...) o almeno provando a farlo. Non volevo essere sempre triste, che cavolo.
Felicità, dovevo cercare una cosa che mi rendesse felice il prima possibile!
L'autobus si fermò qualche minuto più tardi, sbuffando e accasciandosi al lato della strada, e mi affrettai a scendere, lasciandomi alle spalle la strada e l'incontro con l'affascinante Alejandro.
Sebbene avessi passato buona parte della mia vita a Phoenix, avevo aspettato abbastanza fermate prima di scendere da far si che mi ci volesse un secondo, prima di riuscire a capire dove mi trovassi con esattezza.
Iniziai a muovermi vagolando tra la folla. Mi piaceva osservare tutte le varie attrazioni, i negozietti, osservare le altre persone. Notai immediatamente quanto mi fossi disabituata ai ritmi della grande città: tutte le persone intorno a me bisbigliavano concitate, gesticolavano in fretta, camminavano in fretta. Erano persone serie, impegnate, con qualcosa da visitare, qualche cosa da fare, un'agenda da rispettare.
Quella madre con gli orecchini tondi, che teneva da un lato il suo neonato e dall'altro la busta della spesa, parlando con abilità al suo telefono incastonato tra la spalla e la guancia. Quell'uomo che si aggiustava i polsini in vista di un meeting o un colloquio. Il ragazzo punk che aggiornava il suo blog mentre camminava, dando spallate e attirando occhiatacce di passanti troppo vicini.
Ed io ero lì, guardandomi attorno e camminando senza meta, senza prendermi la briga di accelerare, né di avere un'agenda mia da completare. Non sapevo se sentirmi imbarazzantemente fuori posto o segretamente superiore, io che entravo ed uscivo dai negozi come potrebbe fare un procione che trova gattaiole a tutte le porte.
Non che tutti quelli che vedevo mi sembrassero tutti uguali o stressati, niente del genere: Phoenix è una città che ospita ogni tipo di persona, sia come aspetto che come carattere. È solo che mi sembrava di essere l'unica che non aveva un cavolo da fare.
E mi piaceva.

Dopo circa una quindicina di minuti da quando avevo preso l'autobus svoltai a destra e presi la North Central Avenue, con una sicurezza che stupiva anche me stessa.
Non riuscivo a ricordare perché, però era una strada collegata a qualche bel ricordo...
Ovviamente la memoria mi tornò subito non appena vidi apparire quell'edificio, che, dal mio punto di vista, sembrava cercare di nascondersi goffamente dietro le sottili palme che costeggiavano la strada grigia e perfettamente liscia, vagamente luccicante sotto la luce biancastra del sole.
La facciata ricoperta di vetro catturava facilmente il sole, facendola brillare come un'enorme masso scintillante.
La Burton Barr Central Library è la biblioteca centrale di Phoenix, scelta come uno dei Punti d'Orgoglio della città. Porta questo nome in onore di Burton Barr, leader del partito repubblicano in Arizona dal '96 all'86 e, cosa di gran lunga più importante, la biblioteca ospita una collezione di circa un milione di volumi e la Stanza dei Libri Rari, situata al quarto piano, che offre una collezione ampissimia di oltre tremila libri diversi: un ben di Dio.
Probabilmente Alice non avrebbe potuto prevedere la mia decisione di entrare, visto che mentre avevo realizzato dov'ero e il fatto che avrei voluto dare un'occhiata ero praticamente già dentro.
L'architettura interna della biblioteca, dovevo ammetterlo, non era tra le mie preferite. Mi sembrava poco consona ad una biblioteca, più simile a qualcosa per una serie di uffici o la palazzina di un bel quartiere rispetto a quello che era il mio ideale.
Scaffali e sedie troppo minimalisti, consumati giù fino all'osso della funzionalità, e ravvivati con qualche colore alle pareti. Per me una biblioteca era legno e profumo di cellulosa in decadenza, piante dove non te le aspettavi, insomma, la biblioteca è arte in sé.
Ovviamente la Burton Barr Central era un edificio moderno, e quindi non c'erano solo libri e sedie brutte: c'erano stanze con materiale multimediale e tour professionali, ma tanto io non ero lì per nessuna di quelle cose.
Quanto ai libri, non avevo assolutamente nulla da rimproverargli: qualunque critica svanì quando nel mio campo visivo entrarono tutti quei libri libri libri libri.
Ah, la gioia della carta frusciante! Ah, dorsi colorati o scuri, copertine belle o brutte, indimenticabili o tremende!
Al primo piano della biblioteca si trovavano, ordinatamente divise, diverse aree in cui orientarsi. C'erano collezioni di materiale in diverse lingue, 10.000 piedi quadrati del "Children's Place" con tanto di stanza delle storie; un auditorium, e il Centro di Accessibilità con equipaggiamento tecnologico e collezioni di libri in tutte le lingue e adattati a praticamente chiunque, che avrebbero fatto sentire a casa anche un alieno analfabeta (nella propria stessa lingua).
Mi misi allegramente a cercare un libro in italiano, giusto per sentirmi rappresentata in quanto italo-americana, ridendo fra me e me di quanto i titoli in spagnolo sembrassero tutti un po' drammatici.
"El lobo estepario", "A sangre frìa", "Cronica de una muerte anunciada". Alejandro De Rocamora si sarebbe trovato proprio a casina qui.
Estrassi incuriosita un libro dal dorso completamente nero e dall'aspetto grezzo, come di tela, e lo osservai attenta. Sul retro del libro vi erano due scritte in corsivo bianco. "Portami via" diceva la prima, quella messa sul bordo della faccia scura. "Wenn du mich wegnimmst, wird das wasser hier rutschen, um den rest zu bekommen" Diceva la frase in fondo al retro della copertina. Ed ovviamente io non capivo neanche una parola di tedesco all'infuori di "kartoffeln" (patate).
Sul fronte dello strano libro campeggiava il dipinto settecentesco, ma estremamente accurato, di una donna pallidissima che guardava dritto verso il lettore su uno sfondo di un nero solidissimo. I capelli, estremamente lisci e tanto neri da non catturare quasi la luce, sembravano due ali a riposo che inquadravano il volto lungo e perlaceo di lei, che aveva contorni sfumati come se fosse stata sott'acqua. I lineamenti erano fini, con il naso lungo e sottile, così come le labbra da cui spuntavano due paia di canini aguzzi e sottili che poggiavano sia sul labbro superiore che quello inferiore. I suoi occhi erano di taglio tondo, non allineati sullo stesso asse, con sia la pupilla che l'iride di un azzurro sbiadito; occhi ciechi.
Mi ricordava istintivamente un pesce abissale, e mi inquietava non poco.
Dicono che non si giudica un libro da una copertina. Certo, in molti casi è vero, anche se non possiamo farne a meno. Ma cosa diamine dovevo pensare di un libro – con quella copertina – incastonato tra due libricini in spagnolo per bambini?
Vidi passare un addetto e mi avvicinai a lui, alzando il libro che avevo preso per farglielo vedere
«Mi scusi, mi scusi...».
Lui si voltò a guardarmi e fece un salto indietro, forse per via della copertina inquietante o forse per via del fatto che una ragazza con parrucca rosa e occhiali da sole gli stesse correndo incontro. Era un ragazzo dalla pelle bruna, magro e ben rasato, che indossava una maglietta con su scritto "I libri della biblioteca di Phoenix ti faranno rinascere!".
«Si?» Domandò poi «Come posso aiutarti?»
«Ho trovato questo» spiegai «Fra i libri per bambini in spagnolo. Dove andrebbe messo? Non riesco a capire neanche a che genere appartenga»
«Oh, vieni con me...».
Lo seguii fino ad un computer bianco che aveva appiccicato, su un lato dello schermo, un adesivo blu con sopra scritto "Antartide". Il ragazzo ci si sedette davanti e mi disse
«Puoi dettarmi il titolo del libro, così lo cerco in archivio?»
«Ehm... è scritto in tedesco, non lo so leggere bene» confessai
«D'accordo. Dammelo un attimo, per favore».
Gli diedi il volumetto e lui ne copiò il titolo, Wenn du mich wegnimmst, wird das wasser hier rutschen, um den rest zu bekommen, in un rettangolino bianco, poi premette il tasto a forma di lente di ingradimento per avviare la ricerca. Nessun risultato corrispondente.
Il ragazzo si grattò il collo
«Ehm... in archivio non c'è»
«Non potrebbe essere una nuova donazione? Magari è per quello che ancora non è stato inserito in archivio» azzardai
«No, stamattina io stesso ho aggiornato con tutte le nuove donazioni. Non ho mai visto prima quel libro, giuro» aggrottò le sopracciglia «E poi è proprio strano e non credo proprio che debba stare fra i libri per bambini, guarda che brutto!»
«Già»
«Senti una cosa, l'hai trovato tu e qualcuno l'ha lasciato qui... vuoi donarlo alla biblioteca o lo vuoi portare via?»
«Cosa?» battei le palpebre «Volete regalarmelo?»
«Non è nostro. E francamente mi inquieta che fosse tra i libri per bambini. Di che cosa parla?»
«Non lo so. Non l'ho neanche aperto»
«Hmm...» pensieroso, lui inclinò la testa da un lato «Non vorrei che fosse uno stupido scherzo di qualche tipo. Sai, a volte li fanno alle biblioteche: lasciano dei libretti pieni di immagini raccapriccianti per spaventare i bambini o i lettori impressionabili. È uno scherzo stupido e insensato, ma succede, sai?»
«Allora sarebbe meglio controllarlo prima di fare altro, no?»
«Giusto».
Il ragazzo sollevò il libro in modo che non potessi vederne l'interno e lo aprì, poi scorse le pagine, una dopo l'altra, in totale silenzio. Dopo un po' lo abbassò, l'espressione incuriosita
«Accidenti» disse «Non credo di capirci niente»
«È in tedesco?» domandai
«No, no. Non è in nessuna lingua che abbia mai visto. Guarda».
Girò il libro per farmelo vedere ed era vero, sulle sue pagine c'erano tanti cerchietti strani, tutti concatenati, talvolta interrotti da serie di lineette, che formavano un linguaggio (se di un linguaggio si trattava) che non avevo mai visto prima.
«La biblioteca non se ne fa niente di una cosa del genere» Mi spiegò «Dev'essere uno scherzo. Ma stavolta più di buon gusto, sai... un libro che nessuno può leggere» sorrise «Quando avevo sedici anni anch'io ne feci uno, con un mio amichetto. Ci inventammo un linguaggio e ci scrivemmo un libretto, poi lo abbiamo fotocopiato e distribuito dappertutto. Tutti erano confusi, non capivano cosa significasse, né in che lingua fosse scritto...»
«E cosa c'era scritto?» chiesi, curiosa
«Oh, era pieno di parolacce e di insulti, quel genere di cose alla "scemo chi legge". Ci divertivano un mondo questo tipo di cose. Questo libro non dev'essere diverso» tamburellò con l'indice sulle pagine piene di cerchietti «Probabilmente sono solo insulti. Allora, lo vuoi oppure lo vuoi donare alla biblioteca? Ma sappi che se lo doni alla biblioteca ci sono ottime probabilità che verrà bruciato»
«Allora lo tengo» mi strinsi nelle spalle «Gli troverò un uso».
L'impiegato mi ridiede l'oggetto
«Se hai un tavolino con una gamba più corta» scherzò «Forse hai trovato l'uso perfetto. Anche se io non la vorrei vedere quella brutta faccia in salotto. Ti serve qualche libro in particolare? Cercavi qualcosa?»
«Qualcosa di non inquietante, tranquillo e per passare un po' di tempo qui dentro al fresco, per favore»
«Che genere di romanzi ti piacciono? Rosa? D'avventura?»
«Un po' di tutto»
«Vuoi scegliere da sola?»
«Credo che una delle cose belle delle biblioteche sia il momento in cui scegli il libro»
«Allora va bene» sorrise «Cerca quello che vuoi».
Lo salutai e ringraziai e mi misi in caccia per qualcosa di bello da leggere. Sottobraccio portavo lo strano volume con la strana signora mostruosa, che sembrava sempre più leggero man mano che mi spostavo nelle stanze.



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Note degli autori: Ne abbiamo approfittato (e quandomai non ne approfittiamo) per crossoveraaare! Alejandro è un nostro personaggio originale, il fratello gemello di Furiadoro, la protagonista del nostro libro "Urban Legends".
Il libro strano dalla copertina inquietante è... no, questo non ve lo possiamo dire. Però possiamo mostrarvi la graziosa signora in copertina (che si chiama Beredice), che abbiamo illustrato:

 Però possiamo mostrarvi la graziosa signora in copertina (che si chiama Beredice), che abbiamo illustrato:


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