Mi parve di vedere un
libro dal dorso interessante e mi appoggiai allo scaffale, ma un libro
in alto messo in bilico mi cadde in testa. Era un manuale che parlava di
antibiotici. Lo rimisi al suo posto alzandomi sulle punte dei piedi e
continuai a cercare.
Vidi libri
infiocchettati come damine cinquecentesche e libri bruni e lucenti come
gusci di scarafaggi, libri con fascette gialle e rosse che strillavano
ai quattro venti che si trattava di best seller e libri scarlatti
addobbati come cardinali, ma alla fine scelsi un libro in italiano
intitolato "Fiabe delle Alpi".
Lo prelevai
delicatamente dallo scaffale, raggiunsi la sala da lettura e mi misi a
fare una delle cose che sapevo fare meglio: leggere e tagliare
completamente fuori il mondo esterno. Dopo tre o quattro fiabe, però,
iniziai ad annoiarmi visto che, come scoprii mio malgrado, conoscevo già
quelle storie. Così riportai indietro la raccolta di racconti, la
rimisi a posto e presi invece un libro in inglese, un romanzo di
Danielle Steel dal grazioso titolo di "Palomino".
Questa volta la lettura,
sebbene si trattasse di un piuttosto stereotipico romanzo rosa in cui
trama e love interest sono inquadrabili in tempo zero, riuscì davvero a
catturarmi e divorai il libro, accoccolata su una poltroncina. Arrivata
più o meno a metà del libro, dalle pagine cadde un foglietto sottile
sottile, con su scritta una nota che qualcuno aveva lasciato come
segnalibro e che diceva "La memoria non dimentica il bacio promesso, ma
il ricordo del bacio ricevuto è presto perduto".
Alzai la testa e mi accorsi di quanto il sole si fosse spostato nel cielo: erano passate intere ore!
Riportai al suo posto il
romanzo di Danielle Steel e uscii dalla biblioteca, salutando il
ragazzo che prima mi aveva aiutata e che avevo incontrato di nuovo nel
tragitto per uscire.
«E grazie del libro» Aggiunsi
«E di che, è un bene che te lo porti via. Torna presto a trovarci!».
Quando ero stata
un'abitante di Phoenix, la biblioteca era il posto numero uno in cui
passavo del tempo, perciò ero diventata molto amica del bibliotecario
capo. Tuttavia quel giorno non avevo voglia di rivederlo, perché lui mi
avrebbe sicuramente riconosciuta anche con la parrucca e sarebbe stato
preso di mira dai vampiri e interrogato se mai Edward avesse letto la
mia presenza nella sua mente.
Il mio stomaco brontolò
sommessamente. Era ora di mangiare e io avevo fame, così decisi di
procurarmi il pranzo con quel poco che mi era rimasto in tasca. Avrei
voluto raggiungere il Red Devil, un locale di cucina italiana proprio
carino sulla McDowell, ma non volevo perdere altro tempo, così entrai
nel primo fast-food che mi capitò di incontrare, una specie di brutta
copia del McDonald dove mi servirono panini mcdonaldeschi con salse
mcdonaldesche ma facendomeli pagare di meno. Presi anche un'insalata e
un bel bicchierone di fresco té al limone e placai così l'ira del mio
pancino vuoto.
Uscii e cercai una
panchina, poi mi sedetti lì, sotto il sole, a contemplare la vita e il
passaggio della gente che andava e veniva. Qualcuno lanciava occhiate
alla mia parrucca rosa, ma nessuno si fermava e a nessuno interessava
davvero: avevano tutti qualche cosa da fare.
Quanto a me, ero tutta
indolenzita, ma tranquilla e felice. Lo stress che sapevo mi avrebbe
riassalita molto presto, al solo pensiero di quello che avevo dovuto
passare con i Cullen, in quel momento sembrava essere scomparso,
scivolato via come una coperta di seta.
Me ne rimasi lì, con gli
occhi socchiusi, finché non mi sentii assopire e infine mi addormentai.
Mi risvegliai quando qualcuno mi spinse contro il braccio.
«Signorina? Signorina, stai bene?».
Aprii gli occhi di
scatto. Davanti a me c'era una ragazzina che non poteva avere più di
nove anni, con i capelli castano miele raccolti in due codine e la pelle
abbronzata punteggiata di lentiggini minute sulle guance e sul naso.
Indossava una maglietta bianche con le maniche lunghe rosse, e la
scritta "Little Miss Heartbreaker" firmata da una freccia rosa
stilizzata.
«Uh, ah, si, sto bene» Dissi stupidamente, tirando su col naso e drizzandomi.
La bambina mi guardò
scettica, tenendomi la mano sulla spalla. Richiusi e tenni gli occhi
chiusi un altro po', tanto non poteva vedermi oltre gli occhiali da
sole.
«Sei ubriaca?» Mi chiese a bruciapelo la piccola
«Cosa? No!»
«E che ci fai sulla panchina?»
«Mi stavo rilassando e mi sono addormentata». Sebbene mi sottopose ad un umiliante esame visivo, sembrai averla convinta.
«Mi stavo rilassando e mi sono addormentata». Sebbene mi sottopose ad un umiliante esame visivo, sembrai averla convinta.
«E tu che ci fai tutta sola?» Chiesi
«Un mago tiene sempre i suoi segreti»
«E tu sei un mago?»
«Anche questo è un segreto».
Sospirai e mi alzai,
scotolando via dalla mia felpa i sesami caduti dal mio Big Mac
posticcio. Doveva essere passato un po' di tempo da quando mi ero
addormentata, sempre affidandomi alla posizione del sole, ma non avrei
saputo dire quanto.
«Come ti chiami?» Mi chiese la bambina
«Isabella Swan» ripetei ancora, riciclando il nome fittizio che avevo usato praticamente tutto il giorno «E tu?»
«Queenie» disse lei
«Non hai paura a parlare agli estranei?»
«Con te no»
«Perchè? Con me no?».
Queenie mi guardò e si strinse nelle spalle, sporgendo in fuori il labbro inferiore. «Così, non lo so».
«Potrei essere una
cattiva persona. Anche se non lo sono» Le feci notare, chinandomi a
raccogliere il mio brutto libro e le varie cartacce. La faccia da pesce
abissale del mostro in copertina attirò l'attenzione della bimba, che si
illuminò.
«Me la fai vedere?» Mi chiese subito, con entusiasmo.
«Ehm...»
«Per favore!»
«Aspetta che butto le
carte». Eseguii e tornai lì vicino a Queenie, che sembrava sul punto di
mettersi a saltellare. «Ma non è un granché. È una signora brutta» La
misi in guardia porgendole il libro.
Queenie se lo divorò con
gli occhi mentre io mi guardavo attorno alla ricerca dei suoi genitori.
Ma che diamine ci faceva una bimba così da sola? E mi avrebbero presa
per una rapitrice, conciata com'ero, se mi avessero trovata con una
bimba sparita?
«Non è che sei scappata di casa, vero Queenie?» Le chiesi un po' timorosa
«Perché, che sei, uno
sbirro?» replicò lei, ma rapita dagli strani simboli dentro il libro.
Sebbene io non ci fossi riuscita in primo luogo, per un momento ebbi
paura che riuscisse a decifrarli e riuscisse a leggere tutte le
probabili parolacce che il geniaccio dell'autore ci aveva infilato.
«Dai, Queenie, dove sono i tuoi?» Incalzai, mettendomi le mani sui fianchi.
Lei sembrò almeno un po'
impressionata e cedette più in fretta di quanto mi aspettassi «A
prendere dei panini. Sono uscita perché si, e ti ho vista, e pensavo che
fossi ubriaca e sono venuta a spingerti»
«Ma tu spingi tutti gli
ubriachi?». Queenie si strinse nelle spalle, lasciandosi cadere sulla
panchina con il libro tra le mani. «Queenie, non si spingono gli
ubriachi. Ci sono ubriachi pericolosi, se li spingi potrebbero farti
male»
«Ah. Okay. Ci sei nata con i capelli rosa?»
«Uhm, no. Ti piacciono?»
«Si. Mi voglio fare le
codine rosa, ma solo le codine» mi informò lei, ridandomi il libro con
il lungo titolo (posto che fosse realmente il titolo) in tedesco «Ora
arrivano i miei. Aspetti con me che arrivano?»
«Perché no. Si ti faccio
compagnia finché non arrivano i tuoi genitori». Non mi sentivo
tranquilla, in tutta onestà e nella mia pulita coscienza di cittadina, a
lasciare da sola questa bambina che spingeva gli ubriachi.
«Senti, senti, ma perché hai un libro che non si può leggere?»
«Perché è un libro
misterioso» Feci con aria di cospirazione, e catturai subito la sua
attenzione, si vedeva «Più tardi proverò a decifrare questo libro che
qualcuno ha abbandonato, sai, ma potrebbe parlare di qualunque cosa.
Potrebbe parlare di un'antica maledizione o di un pic nic...»
«O magari della signora che c'è davanti»
«Oppure della signora in copertina, si»
«Ha i denti di fuori.
Mia nonna ha i denti davanti lunghi, ma non gli escono a questo modo».
Feci del mio meglio per non ridere troppo, ma mi sfuggii comunque uno
sbuffo di divertimento.
Alla fine i genitori di
Queenie arrivarono e non pensarono che io fossi una rapitrice (non so
come, ma si vede che fidarsi della gente a caso era una cosa della
famiglia), ringraziandomi per averla trattenuta lì e rimproverando lei
per essersi allontanata senza dire loro nulla.
Ci salutammo e mi stiracchiai, sentendomi piacevolmente piena e riposata.
Poi vidi qualcosa in
lontananza che mi allarmò: quella che sembrava una donna bassa e
interamente ricoperta di vestiti, con il mento sprofondato in un foulard
giallo, grandi occhiali da sole, un cappello a tese larghe di paglia,
guanti e stivali alti. Sembrava un vampiro che si proteggeva dal sole
del giorno. Probabilmente era un vampiro che si proteggeva dal sole del giorno: Alice.
Mi stava cercando, me lo sentivo, per impedirmi di entrare nella stanza.
Avevo corso un rischio enorme ad appisolarmi al sole, su quella panchina, ma che potevo farci se ero stanchissima e ammaccata?
Alice non stava
guardando nella mia direzione, ma stava chiedendo informazioni a due
ragazzi alti e allampanati, probabilmente descrivendogli una comune
ragazza dai capelli castani, ignara del mio travestimento perfetto.
Raccolsi per bene la
roba sotto il braccio e mi allontanai più in fretta possibile: adesso
era una corsa contro il tempo, ma che dico, una corsa contro i vampiri.
Con la coda dell'occhio vidi i due ragazzi scuotere la testa.
Per un attimo mi misi a
cercare soluzioni per sfuggirle, poi mi rilassai. Non c'era
nessun'altra mossa da fare da parte mia, se non vagabondare nuovamente
lontano dalle fredde grinfie dei vampiri – sia quelli che si ritenevano
miei amici sia quelli che avevano la decenza di non esserlo apertamente –
e lasciare che il mio piano già avviato facesse il suo corso.
Guardai a destra e a
sinistra e raggiunsi il marciapiede adiacente, infilandomi dentro una
pasticceria-bar dall'aria allegra, con le pareti dipinte di bianco ed
arancio ed ornato di inopportuni girasoli giallo canarino uniforme, di
plastica. Il posto era piccolo e quadrato, con foto di ciambelle e
dessert vari incorniciati come santini alle pareti ed un meraviglioso
odore zuccheroso.
Bene. Più forte
l'odore, più sarebbe stato difficile che Alice mi avesse seguito in base
a quello (oltre al fatto che probabilmente, almeno al finissimo naso di
un vampiro, dovevo sapere anche di cammello).
I dolcetti esposti non
mi facevano granché gola dopo essermi rimpinzata per giorni quasi
esclusivamente di alimenti zuccherini e aver probabilmente preso
quindici chili, ma ne apprezzai comunque il bouquet.
«Mi scusi» Dissi, e la
signora con un grembiule arancio dietro la cassa sgranò gli occhi. Non
so perché, ma il mio cervello aveva ritenuto necessario farmi venir su
una voce roca e con un vago accento tedesco, probabilmente per aiutarmi
nel mio travestimento perfetto. Arrossii. «Uh... bagno?».
La donna mi sorrise,
un'espressione forzatissima «Certo». Mi indicò una porta bianca
semi-nascosta e annuì in fretta, fiondandomici dentro.
Il bagno era un
posticino ancora più angusto, uniformemente candido e dal pavimento
scivoloso e piastrellato. Ci rimasi un po' dentro, distraendomi al
pensiero del mio gatto Dracula, del suo nasino piccolo e perfetto, dei
suoi dentini bianchi e i suoi occhioni, come si spalancavano quando papà
faceva svolazzare una busta e come si chiudevano quasi del tutto quando
lo carezzavo sotto il mento.
C'era uno specchio nel
bagno, e sorrisi al mio riflesso. Ero irriconoscibile abbastanza? Di
certo non ad un esame approfondito. Se non per l'odore, venendomi vicino
gli occhi di uno di quei mostri mi avrebbero sgamata all'istante.
Quante erano le probabilità che succedesse?
Poche, decisi, flettendo
un bicipite e rimirandomi di fronte allo specchio. Miracolosamente, non
avevo preso quindici chili. Le meraviglie dello stress e la lotta per
la vita, fantastici per ridurre il peso corporeo.
Già che c'ero, ne approfittai per usare davvero il bagno.
Uscii prima che
potessero preoccuparsi del fatto che mi fosse accaduto qualche incidente
e mi allontanai dal bar, con gran sollievo della cassiera.
I vampiri facevano tutto
di fretta; probabilmente Alice si era già allontanata da un pezzo per
salvarmi in una zona della città lontanissima mentre mi ero rintanata.
Per sicurezza mi guardai discretamente attorno ma avevo, come al solito,
ragione su questi prevedibili ragazzuoli non-morti.
Mi mordicchiai il labbro inferiore.
Dovevo essere sincera?
Iniziavo ad annoiarmi. Era bello viaggiare e fare cose senza senso, ma
sono sempre stata una persona a cui piace avere un letto caldo a cui
tornare alla fine delle proprie peripezie, e mi sentivo un po' persa
senza punti di riferimento.
Non ero sicura di
quanto tempo ci sarebbe voluto perché il mio piano arrivasse a
compimento, ma speravo che si sarebbero sbrigati, perché il mio budget
era piuttosto limitato e non avrei potuto condurre quello stile di vita
molto a lungo.
Continuai a camminare
trascinando i piedi, prendendo la direzione da cui mi pareva di aver
visto venire Alice, sperando che non sarebbe tornata indietro. Oddio, ma
contava come prendere una decisione? La folletta maligna poteva avere
una visione su una cosa tanto irrilevante?
Beh, mi rifiutavo di
camminare ad occhi chiusi. Sperando forse ingenuamente di rimediare,
passai i minuti seguenti a concentrarmi sul fatto che sarei andata nella
stanza degli specchi tra qualche giorno, cercando di bombardare a
distanza Alice della mia decisione.
Mi sentivo ingegnosa ma
anche un po' scema, a dire la verità. Perché era ovvio che non avrei
potuto continuare per giorni interi ad andare a spasso, perché era ovvio
a me stessa che sarei dovuta tornare a casa (a casa di mia madre, che
un tempo era anche la mia) per mancanza di soldi e di un letto in cui
dormire. E che quindi, in un modo o nell'altro, Alice avrebbe predetto
che sarei andata a casa di mamma... tranne che...
Tranne che non ci fossi andata. Tranne che non fossi tornata a Forks, in qualche folle modo. Ma come?
Dovevo resistere più
tempo possibile, essere imprevedibile, e invece ero solo mortalmente
stanca e mi facevano male anche le piante dei piedi.
Avevano anche iniziato a
farmi prurito le mani e mi erano spuntate delle bolle tipo morsetti di
zanzara, forse per la prolungata esposizione al caldo o forse per lo
stress. Più probabilmente per lo stress.
Avevo letto da qualche
parte delle dermatiti legate a periodi troppo lunghi o troppo intensi di
stress e francamente mi sembrava proprio il caso. Sovrappensiero, mi
grattavo il dorso di una mano, peggiorando la situazione.
Lungo il marciapiede
affollato non c'era l'ombra di un taxi. A pochi metri da me, la navetta
per lo Hyatt stava chiudendo lo sportello. Ecco una cosa imprevedibile
da fare!
«Aspettate!»Urlai, sbracciandomi
«Questa è la navetta per l'Hotel Hyatt» disse l'autista, confuso, mentre riapriva le porte
«Si» sbuffai ansimando «Devo andare proprio là».
Salii gli scalini di
corsa. L'autista era perplesso per il fatto che non avessi nessun
bagaglio, ma fece spallucce e non chiese altro.
I posti erano quasi
tutti liberi. Mi sedetti il più lontana possibile dagli altri passeggeri
e vidi allontanarsi prima il marciapiede, poi l'intero aeroporto. Mi
accorsi solo allora che ero corsa così tanto per la città da arrivare
nei pressi dell'aeroporto. Avrei potuto prendere un aereo, invece che la
navetta di un albergo? Ma no, non avevo soldi e poi non è che i
biglietti aerei vengono spacciati come caramelle a persone che non hanno
con sé documenti personali.
I posti erano quasi tutti liberi.
Non potevo fare a meno
di immaginare Edward, sul ciglio della strada, nel punto in cui
terminava la mia scia olfattiva. Non potevo permettermi un collasso
nervoso.
La mia fortuna
proseguì. Di fronte allo Hyatt, una coppia dall'aria esausta stava
estraendo l'ultima valigia dal bagagliaio di un taxi. Balzai giù dal bus
e corsi verso l'auto, sgattaiolando sul sedile posteriore alle spalle
del tassista. La coppia stanca e l'autista mi guardavano sbalorditi,
forse perché ero super-sneaky, forse per via della parrucca rosa
corredata da occhiali da sole.
E ora? Dove sarei andata?
«Ehm...» Iniziai, confusa «Io dovrei andare...»
«Signorina, va tutto bene?» domandò il tassista
«Si. No. Più o meno» mi grattai ancora la mano, ma smisi quando notai che iniziava a farmi male.
Poi decisi. Sarei
andata a casa! A casa di mamma. Voglio dire, non è che ci fosse nessuno
ad aspettarmi lì, visto che mia madre era da qualche parte nel mondo con
Phil, mentre il vampiro malvagio e segugio si aspettava di
intrappolarmi nella stanza con gli specchi della scuola di ballo.
Diedi al tassista l'indirizzo di mia madre.
«Devo arrivarci il prima possibile» Specificai
«Ma è a Scottsdale» replicò lui
«Ti do tutti i soldi che ho» mi vuotai le tasche e gli misi tutto, compresi gli spiccioli, sul sedile
«Caspita, ragazzina, ci vuoi proprio arrivare lì, vero?»
«Mia madre... mia madre ha bisogno di me. Sta male» mentii
«D'accordo, ragazzina. Ti ci porto subito».
Bingo. Mi abbandonai
sullo schienale, incrociando le braccia. Le vie familiari della città
iniziarono a sfrecciarmi attorno, ma non guardavo fuori dai finestrini.
Cercavo di mantenere il controllo dei miei nervi. Ora che il mio piano
stava finalmente funzionando, ero decisa a non lasciarmi andare, almeno
finché non fossi arrivata a casa di mamma dove avrei urlato, distrutto
cose e poi probabilmente avrei dormito per sedici ore filate in un letto
comodo per recuperare un po' di energie. Certo, poteva non essere
l'idea più brillante del mondo, soprattutto perché Alice avrebbe potuto
trovare un modo per recuperarmi, ma avevo davvero bisogno di dormire per
sedici ore.
Immaginai di essere
rimasta con i vampiri. Chissà dove mi avrebbero portata... forse al
Nord, per poter uscire alla luce del giorno. O forse in un posto remoto,
isolato, dove avremmo potuto restare tutti quanti alla luce del sole.
Li immaginavo su una spiaggia, con i costumi da bagno, un'idea
assolutamente ridicola, tanto che ridacchiai tra me e me ad alta voce.
Restare intrappolata di nuovo con loro, e in particolar modo con lui, quello di cui non osavo neppure pensare il nome, sarebbe stato un incubo.
Ero talmente coinvolta dalle mie visioni di incubo ridicolo da aver perso il senso del tempo.
«Ehi, a che numero hai detto?».
La domanda del tassista
sgonfiò le mie fantasie come fossero un palloncino e gliene fui grata.
Avevo bisogno di ancorarmi alla realtà, di non volare via con la mente,
di ricordarmi che ero ancora libera.
«Cinquantotto ventuno» Dissi, con voce strozzata.
Il tassista mi sbirciò,
temendo che stessi per avere una crisi o qualcosa del genere. Era più
vicino alla realtà che ad una mera supposizione.
«Eccoci».
Non vedeva l'ora che scendessi, e probabilmente sperava anche che non gli chiedessi il resto. Non glielo chiesi.
«Grazie» Sussurrai.
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