martedì 3 marzo 2020

Un boccaccio di Amuchina - 2. Damiano e il prezzo dell’ispirazione


+ Damiano e il prezzo dell'ispirazione, una storia di Piera Elodea della Francesca +


D’accordo, d’accordo, inizio io.
Mi serve un’idea, però, per una storia… Ehm…
Beh, una volta conoscevo un uomo che continuava ad avere problemi con le idee, molto di più di quanti ne ho io adesso! Non che gli mancassero, anzi, però non riusciva mai a portarle a compimento come si deve. Potrei raccontare questo, ora che ci penso.
Per la storia, chiamiamo quest’uomo Damiano: in fondo viviamo tutti nella stessa città e non sarebbe giusto se io raccontassi queste cose su di lui facendovelo riconoscere, sarebbe come spettegolare. Perciò se lo riconoscete da qualcosa che dico, mi raccomando, fate finta di niente.
Damiano era un uomo semplice, senza moglie e senza figli, che viveva nel paese di Caltaleone.
Aveva solo un cane molto sporco, che si chiamava Cesare e mangiava davvero di tutto, dai calamari morti da tanti anni, che erano i suoi preferiti, ai sacchetti di plastica, che non gli piacevano tanto ma si accontentava. Una volta ho dovuto inseguirlo con la scopa, ma alla fine si è mangiato pure quella e si è sentito male, così ho pagato l’intervento dal veterinario per scusarmi.
Anche se era un uomo semplice, Damiano sognava di non esserlo più: voleva un giorno diventare un grande autore di opere teatrali, e ogni giorno si impegnava a scrivere nuove pagine delle proprie storie per esercitarsi e cercava di vedere più rappresentazioni dal vivo che poteva, per studiarle e diventare un grande artista.
Damiano, però, non era partito nelle migliori condizioni per realizzare il suo sogno.
I suoi studi arrivavano fino alla terza media e non c’erano tante occasioni di lavoro nel paese, perciò, in attesa di tempi migliori o di fare il grande salto come drammaturgo, faceva il badante, e quando i suoi amici erano impegnati, raccontava ai vecchi e ai malati le sue idee.
Lui amava raccontare storie che potessero colpire il suo pubblico e drammi di grande angoscia e pathos, perciò raccontava ai vecchi storie di anziani rapinati, abbandonati e morti di vecchiaia, ed ai malati storie in cui la loro malattia aveva un triste decorso e nessuno dei parenti li ricordava più. Insomma, i parenti continuavano a chiamarlo solo perché era bravo nel suo lavoro, perché se fosse stato per le persone che accudiva avrebbero preferito spedirlo in Kuwait, o andarci loro stessi, piuttosto che passare un altro solo giorno in compagnia di quella sciagura travestita da uomo.
Insomma, Damiano continuò per un anno, sei mesi e trenta giorni così, senza avere la grazia del colpo di fortuna che desiderava tanto disperatamente. Nessuna compagnia teatrale accettava i suoi copioni, i video fatti con i due figli dei vicini come attori non avevano riscosso nessun successo, neppure negli eventi locali. Ovunque si girasse non c’erano che porte chiuse, e quando erano semi aperte, gli venivano sbattute in faccia.
Non ho tenuto il conto di quanto tempo è passato, ovviamente, mi è solo capitato di rendermene conto ora. Ma certo che si può fare un calcolo così, su due piedi! E poi sono seduta.
Sì, lo so, era una brutta battuta, scusate.
A furia di fare questa vita, Damiano era diventato afflitto da una brutta bestia: la sindrome da pagina bianca. Non aveva affatto rinunciato al suo sogno, ma ogni volta che cercava di scrivere qualcosa, gli venivano in mente tutti i rifiuti e i fallimenti che aveva ricevuto e improvvisamente ogni idea che aveva in testa sembrava troppo brutta, troppo banale, troppo poco.
Sembrava che avesse finalmente smesso di appestarci coi suoi racconti tristi.
Un giorno nel paese arrivò una donna misteriosa, che aveva capelli biondi ed occhi unici, quasi del colore dell’uva spina. Questa donna, che chiamerò Lianna, veniva da lontano, ed era così riservata che solo una manciata di persone si accorsero che si aggirava nella nostra zona, anche se non ho mai capito dove alloggiasse la notte.
E tuttavia, parlando poi con gli altri che erano riusciti ad accorgersi della sua presenza, mi accorsi che tutti quelli che avevano avuto la fortuna di vederla erano rimasti sottilmente affascinati dalla sua figura e che tuttavia l’unica cosa che riuscivamo a ricordarci davvero erano i suoi occhi e i capelli straordinari, e il fatto che qualcosa in lei ci avesse stregati, anche solo per un attimo.
Damiano non era uno di quelli che si erano accorti di Lianna, ma per qualche motivo sembrava che fosse successo il contrario. Era un giorno scuro quando si incontrarono per la prima volta, il cielo era carico di nuvoloni grigi e prometteva pioggia da un momento all’altro.
Quel giorno ero lì vicino, del tutto per caso, e così potei sentire cosa si dissero.
«Io so cosa tu desideri» Gli disse la donna, che indossava un lungo abito nero, leggero come nebbia.
«Spero bene, l’ho detto proprio a tutti» rispose Damiano.
La donna rise, e sembrava un po’ che lo stesse compatendo. «Dolce uomo, io posso darti ciò che desideri. Ma io e la mia gente non mentiamo e non amiamo i bugiardi, perciò ti avverto: l’ispirazione arriverà come un temporale d’estate e le tue idee saranno amate da chiunque le ascolti, ma proprio a causa di questo, soffrirai e perderai ciò che ora possiedi»
«È una profezia?».
Vi sembrerà strano che le abbia detto questo in risposta, invece di “chi sei?” o “ma chi vuoi prendere in giro?”, ma vi assicuro che questo è perché non avete sentito parlare quella strana donna. Era impossibile dubitare di lei, anche se tutt’ora non saprei dirvi perché.
«No, dolce uomo» Gli disse Lianna «Ogni cosa che vive può scrivere il proprio fato, anche se non sarà mai l’unica mano. Se non accetterai, potresti rimanere per sempre nella tua condizione attuale, o persino scalare fino in cima con le sole tue forze. Se mi dirai di sì, tutto ciò che desideri ti sarà dato all’istante, ma se non lavorerai bene, sarà effimero e potrebbe segnare la fine anche di tutto ciò che avevi prima».
Se io fossi stata un’impicciona, gli avrei detto subito di non accettare, che era una follia mettere tutto a rischio così. E poi, devo essere onesta, non mi aspettavo che fosse tanto disperato.
Però Damiano non ebbe neanche bisogno di pensarci: «Certo» Le disse «E come no».
Io pensai che fosse un cretino.
Lianna però fece un piccolo sorriso che diede un’aria bella e malinconica al suo viso pallido, come un paesaggio invernale. Si sporse a dare un bacio sulla guancia a Damiano e gli disse qualcosa all’orecchio che non riuscii a sentire, poi si allontanò e non la vidi più.
Poco dopo, si mise a piovere e sia io che Damiano cercammo riparo dall’acqua, prendendo strade diverse. Non li vidi insieme mai più, ma sono convinta che non finì lì, e si incontrarono ancora molte altre volte mentre nessuno li stava vedendo.
Comunque, qualunque sia il modo in cui Lianna lo abbia aiutato, funzionò davvero: Damiano cominciò ad avere idee a raffica, ed erano cose davvero bellissime, fuori da questo mondo.
Mi raccontò qualcosa mentre eravamo alla fermata dell’autobus; giuro che non sta mai zitto un secondo quello, ho provato a rispondergli delle cose a caso ed era come non dirgli niente, non credo che ascolti nessuno quando parla. Cioè, sempre. Comunque, quando salii sul bus avevo gli occhi pieni di lacrime: quello che mi aveva raccontato era una storia bellissima e triste su una guerra immaginaria che avveniva proprio qui, in Italia, che mi fece soffrire come se avessi conosciuto personalmente le persone che avevano perso la vita nel suo breve racconto.
In quel periodo ebbe tante ideuzze, tutte belle, ma ora che aveva avuto quest’ispirazione incredibile tra le mani non si perse ad inseguirle tutte: aspettò l’idea che sarebbe stata il suo capolavoro, ed infine arrivò. Era una storia che parlava di un uomo che perde la sua famiglia per colpa di un’organizzazione criminale, così si improvvisa angelo vendicatore e cerca i responsabili per punirli. Lo so che a sentirlo non sembra granché, ma non lo avete letto, è difficile capirlo. Era un’opera viscerale, incredibile: se solo gli attori fossero stati in grado di trasmettere un quarto dell’emozione che lui aveva messo in quelle pagine sul palco, allora sarebbe diventata un’opera in grado di toccare i cuori di tutti.
Damiano inviò via messaggio il copione grezzo a tutti quelli di cui aveva il numero, insieme a un paio di pubblicità che promettevano di farti ricevere un Iphone gratis e che invece ti mettevano un sacco di virus nel telefono.
Ci mise il cuore in quell’opera, che chiamò “L’Uomo Buono in Guerra”, passò notti insonni a rifinire tutte le scene nella propria testa. Noi del quartiere ci eravamo accorti che praticamente non dormiva più e che la salute ne risentiva un po’ per questo: era sempre raffreddato, se ne andava in giro tutto imbacuccato e con due occhiaie così, però diceva che non poteva mollare proprio adesso che era vicino. Si sentiva un fuoco dentro, sapeva che ce l’avrebbe fatta.
Due giorni dopo che ci aveva fatto vedere il copione, nel teatro locale uscì un’anteprima in esclusiva di un’opera
E ufficialmente l’opera non era di Damiano.
Cos’era successo? Beh, presto detto. Anche se non era mai riuscito ad entrare nel mondo del teatro a pieno titolo, Damiano aveva nel tempo fatto amicizia con diverse persone che lavoravano nel settore: registi, attori, drammaturghi, compositori.
In pratica, mentre noi stavamo a prenderci i virus… sì, ridi, ridi, intanto mi avrebbe fatto comodo un Iphone. Comunque, mentre noi ci prendevamo i virus dai messaggi che ci aveva mandato, uno dei suoi presunti amici aveva ascoltato quello che Damiano aveva da dire, letto quel che c’era da leggere, e si era innamorato talmente tanto del concetto che Damiano gli aveva esposto che non aveva resistito. Quest’uomo, che chiameremo Matteo il Rubalavori, aveva riunito il personale necessario e, come in preda ad una febbre, in due soli giorni aveva scritto un copione e girato un cortometraggio completo, bello che pronto da proiettare con effetti speciali e tutto.
Proprio come aveva detto Lianna, chiunque sentisse la storia non poteva fare a meno di amarla… ma pure troppo.
Il lavoro di Matteo fu un successo, e qualche mese dopo vinse un premio in una piccola fiera.
Dopo cinque mesi esatti, vinse un premio molto prestigioso in una grande fiera, e Matteo il Rubalavori divenne piuttosto popolare, così continuò sulle proprie gambe a fare prima cortometraggi di successo, e poi film più lunghi.
Damiano, comprensibilmente, prese molto male com’erano andate le cose: una persona che aveva creduto suo amico lo aveva tradito, e l’opera che aveva curato con tanto amore gli era stata soffiata sotto il naso. Si sentiva come se gli avesse rapito un figlio dalla culla.
Certo, avrebbe potuto provare a produrla comunque, dato che non aveva mostrato altro a Matteo che la bozza non rifinita, ma temeva di essere accusato di plagio per un’opera che era stata sua a tutti gli effetti, e non avrebbe sopportato un’onta simile. Avrebbe comunque potuto portare avanti l’opera teatrale, dato che lui e Matteo avrebbero fatto media diversi, o confrontare Matteo il Rubalavori su quello che era successo, ma non fece nulla di queste cose. Il colpo era stato tale che non riuscì ad andare avanti e seppellì il copione nel giardino, ci pianse sopra e poi si chiuse in casa.
Siccome pianse moltissimo e non prese luce per una settimana intera, si avvizzì e il suo raffreddore peggiorò. Sembrava che qualcosa nel suo fisico si fosse rotto: non l’ho più visto del tutto sano, anzi, tutt’ora mi pare che più tempo passi più sia debole e peggiori.
E così, la prima opera si prese la sua salute.
Dopo un terribile periodo di assestamento in cui attraversò tutte le fasi del lutto, portò per l’ultima volta i fiori alla lapide che aveva fatto fare nel proprio giardino e decise di andare avanti. Non fu facilissimo, perché aveva piazzato la lapide, creata in memoria della propria opera rubata, proprio davanti la porta di casa, perciò non solo non riusciva più ad aprire completamente la porta e doveva sforzarsi di passare da uno spiraglio, ma ogni volta che ce la faceva subito si intristiva.
L’Ommo Buono in Guera” Diceva la lapide, che era stata commissionata a dei suoi amici poco acculturati per ottenere un prezzo di favore “Morto di rubamento”, e sotto la data di nascita e quella in cui era uscita l’anteprima del lavoro di Matteo.
Si impegnò nel lavoro di badante, e presto, tornare a fare questa professione che amava lo risollevò non poco. Non guarì mai dai suoi acciacchi, ma il suo motore creativo sembrava essersi rimesso in moto: anzi, era ancora più pronto di prima!
Non faceva altro che cianciare e raccontare i fatti suoi agli anziani e gli ammalati di cui si prendeva cura, e infine, mentre stava tagliando le unghie dei piedi ad una delle sue clienti, gli venne l’ispirazione che stravolse ancora una volta la sua vita. Stavolta il progetto era perfettamente formato nella sua mente, delineato in ogni suo più piccolo dettaglio: sì, se lo sentiva, “La Ragazza e Lo Spazio” sarebbe stato un successo incredibile.
Decise che non ne avrebbe parlato con nessuno dei suoi amici, o presunti tali, che avessero avuto a che fare con un qualunque settore creativo o artistico, escludendo così anche la sua amica d’infanzia Pina, che faceva cake design, dal privilegio di saperne qualcosa. Sentiva il bisogno di parlare con qualcuno de “La Ragazza e Lo Spazio” e voleva testare la sua idea su un pubblico, ma allo stesso tempo voleva essere sicuro che non avrebbero potuto rubargli questa nuova opera in boccio…
Alla fine, un lampo di genio! Decise che avrebbe narrato la sua nuova storia strappalacrime ai suoi clienti, che gli sembravano un pubblico piuttosto sicuro. Ed era vero: nessuno dei vecchi, malati e vecchi malati che egli badava gli rubò l’idea.
Ma ormai Damiano era diventato così bravo che aveva raggiunto perfettamente lo scopo che si era prefisso in passato: raccontare drammi che toccassero i cuori della gente e li turbassero. Queste persone, che avevano già i loro problemi a cui pensare, ora sapevano che ogni volta che Damiano avesse aperto bocca in loro presenza li avrebbe depressi oltre ogni dire.
I vecchi, i malati e i vecchi malati a cui raccontava queste storie non facevano che sentirsi miserevoli e turbati ormai, e i parenti se ne accorsero. Quando chiesero spiegazioni, gli fu detto come stavano le cose: il loro badante raccontava loro sempre la storia di una ragazzina che era scappata di casa da piccola e aveva frapposto fra sé e la sua famiglia troppa distanza, e un incendio aveva ucciso tutta la sua famiglia mentre lei era via. Così ora girava con una mappa pieghevole in tasca e il posto a cui corrispondeva la sua casa cerchiato, per ricordarle che, ormai, era troppo tardi per raggiungere i suoi familiari e lei non avrebbe colmato quella distanza mai più.
I parenti rimasero a loro volta turbati, e decisero che non volevano che Damiano mettesse più i loro cari in quello stato di desolazione.
E così, la seconda opera si prese il suo lavoro.
Man a mano che passava il tempo, diventava sempre più chiaro che quello che Lianna aveva detto era vero. Damiano era uscito malconcio da entrambe le sue grandi idee, e adesso aveva da parte solo i soldini che si era messo da parte con il suo lavoro di quegli anni, che non erano moltissimi; non tanto perché il lavoro fosse sottopagato, quanto perché non era un uomo in grado di gestire molto bene le proprie finanze e spendeva quasi tutti i risparmi alla prima occasione.
La sua reazione a questa seconda sciagura, però, ci sorprese tutti.
Se la prima lo aveva spezzato, la seconda sembrava aver acceso la sua mente di un’energia malsana: non la smetteva più di parlare tra sé e sé, era sempre fuori casa a passeggiare con le mani in tasca nonostante fosse cagionevole di salute; se prima era concentrato su sé stesso, adesso smise completamente di badare a noi altri. Non cercò un nuovo lavoro e non si chiese dove avesse sbagliato con gli approcci precedenti, ma continuò a passeggiare e fare progetti su progetti, senza portarne a termine nessuno: gli sembrava tutto meno importante di concentrarsi sulle idee che gli frullavano per la testa. Tutto poteva essere rimandato a più tardi: togliere quell’alberaccio che gli era cascato sul tetto durante l’ultimo temporale, fare la spesa, dormire, andare a farsi un bagno. Tutto poteva essere fatto dopo.
Alla fine noi del quartiere ci sentimmo in obbligo di intervenire, se non per lui, almeno per noi altri: la sua casa aveva iniziato a fetere e i gatti randagi, che normalmente abitavano nei cassonetti, avevano scelto il suo giardino come posto diletto per riposare e graffiarsi gli uni con gli altri, senza nessun rispetto per la lapide di fronte alla porta.
Così pagammo Geltrude, una donna delle pulizie con una mutazione che le impediva di sentire gli odori dalla nascita, perché ripulisse quello schifo una volta a settimana.
Aveva più o meno l’età di Damiano e i polsi da falegname, oltre ad essere una persona incredibilmente disponibile e ragionevole. Era l’unica che entrasse in casa di Damiano e che lo trattasse come una persona anziché un caso umano (e detto tra noi, lo trattavamo così perché era un caso umano ormai) e che non fosse disgustata da lui o dalla sua dimora. Il suo comportamento era dovuto sì alla sua natura di per sé affabile, ma principalmente perché era pagata per stare lì e perché non poteva sentire l’odore schifoso di quell’ambiente; ma per Damiano fu comunque qualcosa di così stravagante che riuscì a colpirlo, penetrando nella barriera di egoismo che si era creato.
La vedeva trattarlo con gentilezza, la vedeva sedare le liti tra i gatti selvaggi nel suo giardino e ripulire senza giudicare la sua lapide dedicata alla sua prima opera, e i battiti del suo cuore, ormai, non servivano più solo a sopravvivere, ma le erano dedicati.
Damiano si innamorò di lei: fu Geltrude a diventare musa della sua terza grande opera.
Ci mise molte settimane e ancor più tormenti a selezionare le migliaia di idee che lo assillavano come stormi di uccellini rumorosi e a cucirle perfettamente insieme per creare l’opera che l’avrebbe colpita e fatta innamorare di lui. La sua ultima storia si chiamava “Vittoria d’amore”, ed era una lunga, accorata opera che aveva bisogno di una sola persona per essere interpretata.
Passò una settimana a perfezionarla e la domenica seguente, quando la signora Geltrude tornò a pulirgli casa, lo trovò dritto di fronte al divano con un faretto che lo illuminava.
«Se si sposta» Gli disse «Posso fare sotto al divano, ci finiscono sempre un sacco di pelucchi».
Ma Damiano non si spostò; le spiegò che avrebbe messo in atto un’opera che aveva scritto in quei giorni e di cui andava tremendamente fiero, e lei sarebbe stata la prima e forse l’unica persona al mondo a vederla. Non ebbe ancora il coraggio di dirle che l’aveva creata per lei, le disse soltanto di mettersi comoda, perché sarebbe stata un po’ lunga.
Geltrude allora prese una sedia, si sedette con le mani in grembo e aspettò fiduciosa.
Capitò che io fossi casualmente vicino alla finestra di Damiano quel giorno, perché dei gatti si erano messi a litigare particolarmente forte ed ero uscita a controllare cosa fosse successo, così vidi quello che accadde poi e così adesso posso raccontarlo a voi.
L’opera “Vittoria d’amore” era un lungo monologo diviso in tre atti: nel primo il protagonista, Damiano (il nome è proprio quello fittizio che ho scelto di usare nel mio racconto), è un giovincello che si rivolge al mondo e parla di sé e come vive la sua vita nella società, col sostegno della sua famiglia, conoscendo l’amore dei suoi cari, ma desiderando di crescere in fretta.
Nel secondo atto, ormai uomo, Damiano parla a sé stesso e scopre quante cose sono cambiate rispetto alla gioventù, e di come ormai si senta di bastare a sé stesso ma rimpianga il desiderio di approvazione e l’amore che sentiva per gli altri quando era ragazzo.
Nel terzo atto, si rivolge senza risposta al sentimento amoroso personificandolo come un invisibile Cupido, rimpiangendo quando l’amore che aveva per sé stesso gli bastava: ma ora sente di amare una donna che non lo ricambia, e sente che l’unico modo per sfuggire al suo scontento è non arrivare al quarto atto. Nel finale, attraverso il dialogo, si capisce che anche Cupido è cresciuto insieme a Damiano e, posati arco e frecce, raccoglie una falce, rivelando di essere un tutt’uno con la Morte. Damiano promette di seguire Cupido/Morte, e poi si lascia cadere al suolo.
Idealmente il faretto avrebbe dovuto spegnersi, in realtà gli cadde in testa e rischiò di accopparlo, ma Damiano sopravvisse e guardò speranzoso la donna che amava.
«È bella» Gli disse Geltrude alla fine, gentilmente «È la storia triste più bella che io abbia mai sentito. Non so come ha fatto a scrivere una cosa fuori dal mondo come questa, è incredibile. Però a me, signor Damiano, piacciono le storie allegre».
Detto questo, fece le pulizie come era suo lavoro, salutò e se ne andò a casa propria. Damiano ci chiese di non farla venire mai più in casa sua, perché non ne sopportava la vista.
Ora per vederlo dobbiamo andare a trovarlo, e comunque non è mai granché. Possiamo andare quando vogliamo, tanto lascia sempre la porta aperta. Cosa dici? I criminali? Ah, certo che di quello non si preoccupa. La casa puzza, perciò i ladri non entrano proprio.
Prima o poi gliela prenderanno anche, questa casa, visto che ha smesso di pagare le tasse per avere i soldi con cui comprarsi da mangiare, ma sembra che sia una cosa che non gli interessa affatto ora che non ha più un sogno. Sa che ormai per lui non vale la pena aver nulla, perché ora che non ha avuto nulla e ha sognato di tutto, nulla gli basterebbe; così mi ha detto.
Come in quell’atto quarto che il suo alter-ego in “Vittoria d’Amore” ha preferito evitare.
È una cosa un po’ complicata: se l’avete capita voi, spiegatemela per favore.
E così, senza salute, senza lavoro e senza sogni, la terza opera si prese Damiano.



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