martedì 2 novembre 2021

La Cattedra del Giocatore - 2. Il tavolo da gioco


L'interno della sala era nero e oro, elegante come la carta di un cioccolatino costoso, e sarebbe parso realmente raffinato se non fosse stato illuminato da un guazzabuglio di luci al neon, metà verdi e metà fucsia.
L'aria puzzava di fumo e di un deodorante al pino così penetrante da far pensare che fosse stato usato per coprire l'odore di qualcosa di disgustoso. Alcune statue a forma di sfinge, dorate, fissavano i giocatori con occhi rossi e traslucidi, sfaccettati, che sembravano fatti di rubini.
Manuel Karas avanzò verso il tavolo più grande, al centro della sala, che era tutto ingombro di ogni sorta di oggetti colorati. Foglietti, penne, dadi di strana foggia, carte da gioco, tessere, palline e monete che sembravano uscite dal tesoro di un pirata fittizio scintillavano sotto i neon in un modo irreale, quasi fossero parte della grafica di un videogioco e non cose vere, tangibili. Intorno al tavolo sedevano sei persone: due donne dai capelli vivacemente colorati, rispettivamente rosa e blu, un uomo vestito da prete, una ragazzina che non poteva avere più di sedici anni e che stava masticando del tabacco, un ragazzo dall'aria delicata che indossava una camicia da notte e infine lui, l'organizzatore del gioco, quello che aveva parlato... era lui, lui, il motivo per cui Manuel si trovava lì.
Aveva la pelle scurissima, di un marrone grigiastro che era quasi nero, e i capelli raccolti in una coda cespugliosa. Nonostante il colore della sua pelle, lui non aveva lineamenti da africano, ma un naso sottile, adunco, gli occhi piccoli, due perle lucenti e stranamente pallide, che splendevano sempre come se fossero fiocamente retroilluminate. Il suo sorriso, poi, era tutto denti e con due canini leggermente ricurvi, da animale.
Manuel si sedette accanto a lui, senza dire niente.
«Quanti soldi hai portato?» Domandò lui
«Cinquantamila euro» rispose Manuel, lapidario
«Avevi detto di non possedere più nulla... che spreco, giocarti l'anima quando puoi ancora rialzarti...»
«Ho venduto tutto e lo sai benissimo. Non ho più una casa, né un'automobile. Non ho niente, tranne questi soldi»
«Hai venduto anche i dischi di Nick Cave?».
Manuel trasalì: non aveva mai rivelato a quell'uomo di possederli.
«Sì» Rispose però.
La donna con i capelli rosa diede una corta risata roca. Indossava una maglietta dei System of a Down, strappata sul petto, che lasciava intravedere un reggiseno rosso fuoco.
«E i dischi dei Verdena?» Chiese ancora lui
«Sì» Manuel annuì, sentendo qualcosa che gli si stringeva intorno al cuore
«E i CCCP?»
«Sì» un altro colpo, una fitta al petto
«Anche quello di Rancore, quello che ti aveva regalato tuo figlio?»
«Sì. Sì, anche quello».
Un dolore terribile, che gli fece serrare i pugni nascosti sotto al tavolo. Ecco cos'era quella sofferenza: la realizzazione, sempre più acuta, di tutto quello che aveva perso. Per sempre. Senza un passato e forse senza un futuro, pronto a giocarsi l'anima e quel tavolo.
«Ora ci siamo tutti» Disse l'uomo nero, con il suo sorriso tutto denti, bianco fra le labbra nere «Possiamo presentarci, no?».
La donna con i capelli rosa fece un'altra risatina. Quasi tutti mossero gli occhi verso di lei, discretamente, quasi con paura: lei era l'unica a sembrare felice, mentre gli altri erano tetri, distrutti.
«In senso antiorario, forza! A partire dalla mia sinistra» L'uomo nero aprì il palmo e indicò Manuel.
L'uomo prese un profondo respiro e mise le mani sul tavolo. Non erano più serrate, non stavano tremando: tutto a posto.
«Mi chiamo Manuel» Disse, con voce chiara «Sono un archeologo»
«Ciao sexy!» esclamò la ragazza con i capelli rosa.
Manuel deglutì: non se la sentiva di rispondere, di dire niente di più. Non aveva detto “un ex-archeologo”, non voleva essere compatito, voleva solo morire.
«Io sono Achille» Disse il ragazzo con la camicia da notte «Studente di architettura. Sono qui per aiutare la mia famiglia: non abbiamo più nulla»
«Mi chiamo Luna» si presentò la ragazza che masticava tabacco, con una vocina da bimba piccolissima «E non faccio niente nella vita. Non sono una sfigata: sono qui perché voglio esserci»
«Io sono Trevor» disse l'uomo vestito da prete, il vocione da basso che stonava con il volto scarno e pulito
«Eleonora» si presentò la donna con i capelli azzurri, laconica
«Santa!» quasi urlò quella con i capelli rosa, agitando le dita
«E infine io!» Esclamò l'uomo nero, allargando le braccia «Fyodor! E avrei anche un cognome, ma visto che nessuno di voi ha deciso di condividerlo, non vedo perché dovrei farlo io. Anche se vi conosco tutti, eh».
Il suo sguardo passò su tutti i presenti, lo stesso brillare morto nello smalto bianco dei denti e nelle pallide iridi, e i giocatori si fecero piccoli.
«Siete qui per vincere: denaro, amore, sesso, gloria. Siete qui per giocare: il denaro o l'anima. Ognuno di voi sceglierà un gioco e noi lo faremo. Sei manche: ognuna un gioco diverso. Ci sono domande? Sì, Santa?»
«Si può giocare alla roulette russa?»
«No, perché non possiamo uccidere gli altri giocatori, Santa»
«Ah. Il mercante in fiera?»
«Sì, il mercante in fiera sì. Va bene tutto, purché non si uccidano gli altri giocatori prima della fine del gioco»
«Lo scopone scientifico?»
«Sì»
«Lo strip poker?»
«Adoro lo strip poker. Spero in sei manche di strip poker, a dire il vero» un sorriso malandrino, ma che non contagiava gli occhi: finta malizia, un'eccitazione che non ha niente di sessuale.
Manuel ebbe l'impressione vivida che quei denti potessero mangiargliela, l'anima, masticarla come un pezzo di sedano e farne uscire il succo come acqua dal fusto della verdura. Chomp chomp.
«Si inizia in ordine di età» Spiegò Fyodor «Quindi tocca a te, Luna. Scegli il gioco, sono sicuro che per te non sia un problema... ti conosco, piccola monella!».
La ragazzina si grattò una guancia con le unghie smaltate color oro. Le sue labbra rosee si curvarono più volte, prima in un broncio, poi in un mezzo sorriso, una serie di piccole smorfie concentrate mentre cercava il gioco perfetto.
«Giocheremo a carta sasso o forbice» Disse lei alla fine
«Le regole?» domandò Fyodor, bramoso
«Ci si scontrerà uno contro uno, immagino... di volta in volta chi perde esce dal gioco. I vincitori si sfidano con i vincitori. Alla fine, il vincitore prende tutto. Semplice, no?»
«Semplicissimo. Ma siamo sette, non potremo formare tre coppie, uno di noi entrerà solo in finale e... non sembra giusto»
«Sarà la sorte a scegliere le coppie e quindi anche chi rimane fuori per sfidare il vincitore. Scrivete i vostri nomi su dei pezzetti di carta e metteteli in quel portapenne».
Manuel allungò la mano per prendere un post-it rosa e una penna. La penna aveva l'inchiostro glitterato: sembrava che non ci fossero normali biro nere o blu.
“Manuel” Scrisse sul foglietto, poi lo ripiegò a metà e lo infilò nel portapenne a forma di teschio verde acido. Anche gli altri stavano ripiegando i foglietti e li stavano riponendo nello stesso contenitore.
Stava davvero per giocarsi parte di ciò che gli rimaneva a carta sasso forbice? E poi, le aveva capite bene le regole? Non era sicuro di niente...
 
 

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