«Per chi di voi non conoscesse le regole, esse sono semplicissime»
Spiegò Fyodor, allungando le mani davanti a sé dopo aver sollevato
un po' le maniche della camicia viola.
Aveva le unghie
bianche, quasi madreperlacee, che contrastavano con le dita color
liquirizia.
«Bisognerà dire
“carta sasso forbice”, cantilenandolo con questo ritmo.
Ricordatevelo, “ca-rta sa-sso fo-rbi-ce”. D'accordo? Alla fine
della cantilena, la vostra mano dovrà aprirsi e mostrare una delle
tre posizioni possibili nel gioco, ovvero carta» e mostrò la mano
aperta, con le dita ben distese e vicine tra loro «Sasso» un pugno
«Forbice» indice e medio alzati ad imitare le due lame della
forbice «Il sasso sconfigge la forbice, piegandola, ma perde contro
la carta, da cui è avvolto. La carta quindi sconfigge il sasso, ma
perde contro la forbice, da cui è tagliata. La forbice vince contro
la carta, tagliandola, ma perde contro il sasso, che la spezza. Tutto
chiaro?».
La maggior parte
dei presenti annuirono, Luna rise. Ovviamente tutti conoscevano le
regole di quel semplicissimo gioco da bambini.
«Bene. Ogni
giocatore punterà una posta uguale o equivalente rispetto al proprio
compagno di coppia. Mettetevi d'accordo fra voi. Tre sole partite,
chi vince due su tre prende l'intera somma. Poi i vincitori si
sfideranno fra loro. Alla fine, uno solo di voi vincerà l'intero
malloppo. Tutto chiaro?»
«No» borbottò
Trevor
«Facciamo finta
che ci sfidiamo io e te» suppose Fyodor, smettendo di sorridere
«Prova, su. Ca-rta sa-sso fo-rbi-ce. Ecco!».
Trevor aveva
buttato forbice, Fyodor carta.
«Ho vinto, in
teoria?» Domandò l'uomo vestito da prete
«Sì, hai vinto la
partita. Ma per prendere quello che io e te abbiamo scommesso devi
vincere altre due volte. Adesso è chiaro?»
«Un poco... e se
perdo?»
«Perdi i soldi e
sei fuori dal primo gioco. Niente di che, puoi ri-giocare al secondo,
tranquillo. Ora è tutto chiaro?»
«Sì»
«Bene. Allora
estraggo le coppie».
L'uomo nero infilò
una mano nel portapenne a forma di teschio, mescolò con furia i
bigliettini e ne estrasse due, tenendone uno fra pollice e indice e
l'altro fra medio e anulare. Li aprì sul tavolo e li lesse.
«Trevor e Luna,
prima coppia!».
Ancora
un'estrazione, due bigliettini alla volta. Manuel si masticò un po'
l'interno della guancia, nervoso: tutte le persone così abili con le
dita erano sempre riuscite a fregarlo, sembrava che ci fosse una
correlazione genetica fra la prestidigitazione e l'essere dei
disgustosi truffatori senza scrupoli.
«Manuel e
Eleonora, seconda coppia!».
La donna dai
capelli azzurri posò gli occhi su Manuel. Aveva l'aria di qualcuno
che è seccato anche solo dal proprio respiro.
«Achille e Santa,
terza coppia!».
Il ragazzo con la
camicia da notte trasalì e i suoi occhi guizzarono verso la ragazza
dai capelli rosa. Sembrava spaventato.
«Rimane fuori
solo... io. Solo io rimango fuori» Fyodor si strinse nelle spalle «E
vabbé, il migliore di voi sfiderà me».
Manuel serrò la
mascella: era fin troppo palese che quel tizio aveva segnato il
proprio bigliettino per evitare di estrarlo, assicurandosi così di
partecipare solo alla “finale” di quella manche, in modo da
minimizzare le possibilità di perdere. Però non disse niente,
limitandosi a voltarsi verso la sua compagna.
«Cosa ci
giochiamo, Eleonora?» Le chiese
«Tutto» rispose
lei, rovesciando sul tavolo tutte le fiche che possedeva
«A quanto ammonta
il tuo...»
«Novantamila e
cento euro»
«Io non ce li ho
tutti questi soldi»
«Non me ne
importa. Punta tutto quello che hai».
Manuel mise tutte
le fiche sul tavolo. Gli si strinse lo stomaco: quella donna era
pazza, come le era venuto in mente di puntare tutto sul primo gioco?
E perché, perché lui la stava assecondando?
Puntare tutto
subito, perdere tutto subito... non aveva senso. Non stava neanche
giocando contro Fyodor, ed era solo per confrontarsi con lui che era
arrivato fin lì, che aveva venduto tutto ciò che possedeva.
Chiuse gli occhi
per un istante e la sagoma polverosa del suo vecchio giradischi,
stagliata contro il muro giallo della veranda, riempì la sua
visuale. Riaprì gli occhi.
«Perché vuoi
perdere tutto?» Domandò lui, sistemando ordinatamente i propri
gettoni di plastica in pile dello stesso colore
«Io voglio vincere
tutto» rispose Eleonora, a denti stretti
«Ma se perdi...»
«Sono fortunata»
«E allora perché
sei qui, se sei così fortunata?».
Eleonora batté le
palpebre, leggermente sorpresa, ma non disse niente. Sollevò il
pugno chiuso, cercando di invogliare Manuel ad iniziare la partita.
«Perché sei qui?»
Ripeté lui, serio
«Perché tu sei
qui?» gli domandò indietro Eleonora, seccata
«Perché al
contrario di te sono sfortunato. Sono sfortunato da tutta la vita. E
ho perso tutto»
«Gioca»
«Ma
perderò...»
«Gioca o ti spacco la testa».
«Gioca o ti spacco la testa».
Manuel sorrise da
sotto i baffi. «Che caratterino!» Commentò, alzando il pugno
chiuso «Giochiamo, se hai così tanta fretta. Io non ne ho affatto»
«Forza. Uno,
due...»
«Ca-rta sa-sso fo-rbi-ce» Dissero i due sfidanti, contemporaneamente.
«Ca-rta sa-sso fo-rbi-ce» Dissero i due sfidanti, contemporaneamente.
Eleonora aprì il
pugno: carta. Manuel aprì il pugno: sasso.
«Te l'ho detto»
Borbottò Eleonora «Sono fortunata»
«Non sembri
contenta» commentò l'uomo, deglutendo e sfregandosi il palmo della
mano «Io sarei contento di vincere»
«Forza. Ca-rta
sa-sso...»
«No. Aspetta, no. Dimmi perché, prima. Stai per eliminarmi dal gioco, prendendo tutto quello che ho, prima di essere rovinato mi piacerebbe sapere perché lo stai facendo»
«No. Aspetta, no. Dimmi perché, prima. Stai per eliminarmi dal gioco, prendendo tutto quello che ho, prima di essere rovinato mi piacerebbe sapere perché lo stai facendo»
«Non ti eliminerò
dal gioco. Dopo che avrai finito tutti i soldi potrai comunque
giocarti altre cose»
«Cosa vuoi dire?»
«Ci sono gettoni
supplementari. Puoi giocarti un rene, per esempio. Oppure gli occhi.
Oppure favori sessuali, cose così... anche se perdi tutto il denaro
in una sola manche, puoi comunque giocare alla prossima. Sei fuori
solo da questa, ma alla prossima torni in gioco, solo senza soldi».
Eleonora parlava
con amarezza, ma anche con la sicurezza consumata di chi aveva
percorso questo sentiero decine e decine di volte. Quanto spesso
metteva in gioco parti di sé stessa? Manuel percorse il poco corpo
visibile di lei con gli occhi, alla ricerca di cicatrici... di certo
i bulbi oculari di lei sembravano normali. Cos'è che aveva perso? Un
rene? O magari l'onore, la dignità? Aveva la faccia di qualcuno che
sì, forse aveva perso persino la voglia di vivere. L'anima. O
magari non aveva perso mai: stava puntando più di novantamila euro e
se aveva tutti quei soldi da scommettere su carta sasso forbice,
forse non aveva mai avuto bisogno di dar via i propri organi.
«Sei fortunata»
Mormorò Manuel, alzando il pugno «Ca-rta sa-sso for-bi-ce».
Manuel buttò
carta, Eleonora sasso. L'uomo si aggrappò al bordo del tavolo,
un'espressione di trionfo sul viso.
«Stiamo uno ad
uno» Disse «Forse anche io ho un briciolo di fortuna, non credi?».
Eleonora alzò il
pugno chiuso, determinata. Manuel aveva già visto quella
determinazione, in una situazione che da un lato somigliava
incredibilmente a questa, e dall'altra sembrava lontana migliaia di
anni luce. Era stato un bambino, a quel tempo. Manuel non ricordava
con nostalgia la sua infanzia, non gli richiamava alla mente
innocenza e spensieratezza, leggerezza e amore. Manuel non vedeva i
propri ricordi ammantati di luce, non sentiva odore di latte, non
vedeva i capelli di sua madre aureolati di luce, non sentiva la voce
rassicurante di suo padre... la sua infanzia, lui la ricordava come
una battaglia.
Si ricordava gli
stivaletti di gomma solidamente piantati nel fango, mentre cercava di
non farsi strappare un giocattolo dalle mani di un altro bambino,
piatti di zuppa o di patate mangiati di fretta, cassettine musicali
registrate di nascosto e tenute altrettanto nascostamente in scatole
di cartone sotto il letto o dietro i libri, corse lunghissime nei
prati fradici d'acqua all'inseguimento di nemici reali o immaginari,
il cielo grigio come un sudario che prometteva di inzupparlo di
pioggia al più presto.
E ricordava, con la
chiarezza di un'immagine vista appena in uno specchio, una partita a
carta sasso forbice. Il suo avversario era un ragazzo più grosso di
lui, con una testa taurina e i capelli biondi pettinati all'indietro.
Gianfranco Maritozzi, detto il Bue d'Oro, e no, non era mai stato un
complimento.
«Ca-rta sa-sso
fo-rbi-ce» Avevano cantilenato i due bambini, rannicchiati sotto una
tettoia di lamiera, in attesa che la pioggia passasse.
Manuel aveva
buttato carta, Gianfranco sasso. Quando aveva perso, il Bue d'Oro si
era arrabbiato, ma aveva anche insistito per giocare di nuovo. Sul
suo muso da ruminante era dipinta una determinazione cieca, quella di
chi pensa di essere fortunatissimo e che basterà buttare di nuovo lo
stesso simbolo, di nuovo sasso, per vincere contro un avversario che
invece avrebbe cambiato simbolo.
La stessa
determinazione, su un volto completamente diverso, era quella di
Eleonora. Manuel sapeva esattamente cosa stava per succedere: lei
avrebbe di nuovo calato il pugno e lo avrebbe fatto rimanere chiuso.
“Sasso”. Ci si giocava tutto su un'intuizione, sulla fugace idea
che una donna con i capelli azzurri si sarebbe comportata come un
ragazzino stupido incontrato quella che sembrava una vita prima.
Manuel prese un
profondo respiro.
«Ca-rta sa-sso
fo-rbi-ce».
Lui distese le
dita, mimando la carta. Lei le tenne chiuse, un pugno duro,
impietoso: sasso. Manuel sorrise, le punte arricciate dei baffi
grigio-bianchi che curvavano in alto, anche se gli occhi rimasero
freddi.
«Sembra che io sia
più fortunato di te» Disse.
Eleonora non disse
nulla, si limitò a spingere il mucchio disordinato di fiche verso
Manuel e poi incrociare le braccia con l'aria di chi aveva dovuto
subire l'ennesima ingiustizia ma non aveva alcuna intenzione di porvi
rimedio. Manuel iniziò a mettere a posto i dischetti, separandoli
per colore, impilandoli sopra ai propri. Soldi, soldi. Quei
dannati pezzetti di plastica glitterata rappresentavano una quantità
di denaro eccezionale, superiore a tutto quello che era riuscito a
raggranellare vendendo ogni oggetto in suo possesso. Bastavano per
ritirarsi adesso? Gli altri lo avrebbero lasciato andare via dopo
aver vinto tutti quei soldi? Manuel si guardò intorno: la maggior
parte dei giocatori avevano già finito la loro partita e i perdenti
stavano cedendo, imbronciati, le fiche che avevano scommesso.
Fyodor sogghignava,
sfregandosi piano le unghie pallide. Sotto alla capannuccia formata
dai suoi avambracci, fra i gomiti poggiati sul tavolo, si
ammucchiavano centinaia di fiche giallo brillante, ognuna delle quali
valeva simbolicamente diecimila euro. Alcune decine di dischetti
violacei, di cui non era stato palesato il valore ma che sembravano
particolarmente preziosi, stavano in cima al mucchio, mandando
bagliori rosati. “Voglio sfidarlo” Pensò Manuel, con un
brivido “Oh, voglio sfidarlo, quel maledetto...”.
Non era solo perché
desiderava avere più denaro, no: era perché gli sembrava ingiusto
che qualcuno potesse tenere sul tavolo una tale somma e sogghignare,
guardando tutta la povera gente disgraziata che si sfidava in un
gioco per bambini pur di ottenere una piccola parte di quella
ricchezza. Fyodor lo guardò, sorridendogli con quei denti che
sembravano capaci di masticargli l'anima.
«Bravo, Manuel»
Gli disse, notando il gruzzoletto di fiche che si era accumulato di
fronte a lui e la sparizione di tutte quelle di Eleonora «Cominci
davvero bene».
Ad essere usciti
trionfanti da quella prima manche erano stati Trevor e Santa, oltre
ovviamente a Manuel. Trevor aveva guadagnato solo duecento euro
(tanto era quello che si era deciso a puntare su un gioco che, a sua
detta, non si poteva affrontare con l'intelligenza), mentre Santa
aveva arricchito il suo gruzzolo di oltre quarantamila euro. Manuel,
sorpreso, scoprì di essere quello che aveva guadagnato di più.
«Estraiamo un po'
le coppie finali...» Disse Fyodor, rimettendo nel portapenne solo i
nomi di chi aveva vinto.
Manuel deglutì, si
disse che non aveva niente da perdere e parlò.
«Posso lasciare il
gioco?» Domandò, alzandosi in piedi.
Tutti lo
guardarono, la maggior parte con sguardi seccati, come se avessero
visto uno scolaretto stupido che manca di rispetto ad un professore
ben voluto. Fyodor, però, continuava a sorridere.
«Potete lasciare
il gioco in qualsiasi momento fra una manche e l'altra» Rispose,
scandendo bene le parole «Quindi se vuoi puoi prendere i tuoi soldi
e andartene. Ti basterà portare le fiche al banco di registrazione
per fartele cambiare in banconote o lingotti d'oro e andar via, non
hai bisogno di dare spiegazioni».
Manuel si sedette
di nuovo, circospetto. Non si aspettava minimamente quella risposta:
l'aspetto diabolico di Fyodor, le sue parole, quel posto strano gli
avevano dato l'impressione di una trappola mortale, non di un gioco
che potesse realmente essere divertente. Non aveva alcun senso!
Perché organizzare qualcosa del genere, qualcosa in cui chiunque
potrebbe andarsene tranquillamente dopo aver vinto tutti quei soldi?
«Come ci si porta
via le fiche?» Domandò ancora, indicando il mucchio di gettoni di
plastica «Non mi entrano in tasca»
«Lì» Fyodor
indicò distrattamente una serie di borse di tela attaccate ad un
grosso gancio nero «Prendi una di quella, la riempi ed esci. Ciao
ciao!».
Manuel abbassò lo
sguardo sulle fiche e deglutì: erano una bella quantità di denaro
quei centoquarantamila e cento euro, abbastanza per comprarsi una
casetta in una località rurale, per provare a ricominciare lavorando
onestamente. Si alzò per andare a prendere una delle borse di tela.
«Le coppie!»
Esclamò Fyodor, teatrale e usando un buffo accento britannico
«Trevor e Santa! E se Manuel fosse rimasto a giocare... contro di
me! Ma sta per andarsene, il nostro cowboy, quindi...».
Manuel si fermò,
la sua mano, che aveva appena sfiorato la borsa, si ritrasse come se
avesse toccato una fiamma viva. Perché era venuto fin lì? Di certo
non per portarsi a casa centoquarantamila miserissimi e sporchi euro:
Fyodor gli aveva promesso qualcosa di completamente diverso. Non era
lì per i soldi eppure stava per andarsene solo con quelli, che razza
di stupidaggine! Girò sui tacchi degli stivaletti e tornò a sedersi
al suo posto.
«Io gioco» Disse,
secco. Voleva intensamente tenere in mano una di quelle fiche di
colore diverso, anche solo per capirne il valore... un milione di
euro? Un miliardo? O magari era la valuta che simboleggiava il prezzo
di un'anima?
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