Al banco di
registrazione, l'uomo aveva dato un nome falso.
La donna che aveva
il compito di scrivere le generalità dei giocatori lo aveva guardato
da sotto gli occhiali con l'aria di chi aveva capito esattamente con
chi aveva a che fare.
«Devo scrivere
Manuel Karas? Davvero?» Domandò.
L'uomo annuì.
La donna scrisse,
con un sospiro.
«Sei il quinto
Karas che si iscrive questo mese» Commentò, esasperata «Non
diventate più bravi a giocare solo perché prendete il suo nome, lo
sapete?»
«Lo so. Io sono
pessimo» rispose l'uomo, tetro.
La sua voce era
tetra tanto quanto il suo tono ed entrambi facevano il paio con il
suo aspetto: aveva capelli castani scuri, lunghi e lisci, che gli
incorniciavano la faccia come tende di velluto, chiaramente tinti
visto che la corta barba uniforme era invece ormai imbiancata.
Indossava una camicia nera a sottili strisce argentate, un po' aperta
sul petto e infilata in un paio di pantaloni di pelle, a loro volta
rimboccati dentro alti stivali scuri.
«Se sei pessimo
non dovresti essere qui» Disse la donna «Dovresti tornare a casa.
Da tua moglie o tuo marito o il tuo cane o qualunque cosa ti aspetti
a casa»
«Voglio solo
perdere tutti i miei soldi» rispose l'uomo. Pronunciava la lettera S
in modo strascicato e questo faceva apparire la sua parlata ancora
più triste.
«Beh, se ti preme
così tanto di perderli tutti potresti anche darli a me adesso»
Scherzò la donna, poi alzò lo sguardo per incontrare gli occhi di
lui.
Erano vuoti, quegli
occhi, due pozzi neri e asciutti in cui non sembrava agitarsi nulla,
neppure un anelito di vita.
«Età?» Domandò
lei
«Sessantadue»
rispose l'uomo
«Ah. Portati
benissimo, vedo. Genere dichiarato?»
«Come scusi?»
«Genere di... ok, uomo, donna o qualcosa di diverso?»
«Uomo»
«Come scusi?»
«Genere di... ok, uomo, donna o qualcosa di diverso?»
«Uomo»
«Specie?»
«Come scusi?»
«Specie. Lei è un essere umano?»
«Come scusi?»
«Specie. Lei è un essere umano?»
«Ah. Sì, certo...
potrei essere qualcos'altro?».
La donna sospirò,
continuando a scrivere.
«Telefono e
indirizzo? E per favore, almeno questi che siano veri».
L'uomo glieli
disse, senza mentire.
«Quanti soldi ha
portato, signor Karas?»
«Cinquantamila
euro: è tutto quello che possiedo»
«Glieli cambio
subito in fiches. Li metta sul tavolo».
L'uomo estrasse le
banconote dalla sua borsa di pelle e mise i mazzetti ordinatamente
sul tavolo. La donna li prese uno ad uno, strappò la fascetta e li
infilò nella macchina contasoldi. Alla fine aprì un cassetto e
pescò una manciata di fiches colorate, dischetti scintillanti di
plastica glitterata con sopra scritti numeri bianchi, che mise
direttamente nelle mani dell'uomo.
«Firmi qui, adesso, e poi la registrazione sarà finita».
«Ho le mani occupate...»
«Può firmare anche con la bocca»
«Non è particolarmente divertente, questa cosa»
«Deve firmare. Metta da parte quelle e usi le mani, oppure mi permetta di prenderle una goccia di sangue...».
Una goccia di sangue. Chi avrebbe accettato una goccia di sangue come firma legalmente valida?
«Prendi il mio sangue».
La donna estrasse un piccolo ago d'oro da dentro un minuscolo astuccio di plastica. La punta brillava acuta, allegra, e con quella lei gli punse il lato del polso, attese che una gocciolina rossa si formasse e poi usò quel sangue per sporcare il contratto, nel punto in cui avrebbe dovuto esserci la firma. L'uomo non disse niente: non gli interessava di questi giochetti, lui voleva un gioco più grande.
«Bene, signor
Karas. Vede quella porta laggiù?»
«Come potrei non
vederla?»
«Alcuni non ne
sono capaci. E non parlo solo dei ciechi... comunque, la vede?»
«Sì»
«La attraversi e
si ritroverà nella sala da gioco. Si diverta pure. Perda tutti i
suoi soldi, come desidera»
«Grazie»
«Oh. E lasci qui
la sua borsa, non è ammesso portarla dentro. Gliela custodirò io».
L'uomo si sfilò la
tracolla e la passò alla donna, poi si diresse verso la porta. La
porta che torreggiava come un palazzo, apparentemente così grande
che ci si chiedeva come la parete potesse contenerla, come potesse
non spaccare il tetto. Più ci si avvicinava al pannello di ottone e
più ci si chiedeva se non fosse un'illusione ottica.
Era bella, la
porta: figure di carte da gioco, fiamme e teschi, bassorilievi
che mandavano bagliori metallici, si snodavano per tutta la sua
superficie come un serpente composto di tutti questi elementi, una S
mostruosa e meravigliosa che terminava in una testa di donna
piangente.
L'uomo allungò la
mano verso la maniglia e la spinse verso il basso, poi attraversò la
soglia ed entrò, richiudendosi alle spalle il monolitico pannello di
ottone.
Le luci al neon gli
fecero stringere gli occhi.
«Benvenuto,
Manuel» Disse una voce allegra, pastosa, con note graffiate come di
sabbia al vento «Non credevo davvero che l'avresti fatto, oh, non
credevo davvero... ma vieni, vieni a sedere al tavolo con noi!».
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