L'odore dell'Acciaio
Abbassò finalmente le mani, rilassando appena i tendini, facendo si che
la pelle si tendesse meno sulle nocche sbiancate. C'era qualcosa ancora
incrostato sotto le sue unghie, ma non riusciva a capire se fosse terra o
sangue. Non che questo dettaglio avesse più alcuna importanza...
Non
sapeva dire quanto avesse lottato, quanto a lungo e con quanta forza
avesse scavato. Era arrivato il momento, per lui, di andare fino in
fondo.
Un tempo il nome del ragazzo era stato Jean-Carl e anche lui
era stato come gli altri, normale, annoiato, felice come può esserlo un
ragazzino, in quel modo sempre un po' sufficiente, un po' insoddisfatto.
Aveva avuto una ragazza da amare, una volta, ma loro se l'erano portata
via per sempre.
Aveva avuto una vita, una famiglia, dei fratelli.
Loro
si erano portato via tutto, lasciandolo come aperto, squartato, in
mezzo a quella disperazione, ad imputridire, come una carogna, alla
ricerca di uno scopo.
Loro non aveva messo in conto che
Jean-Carl potesse trovare un senso in tutto questo, una felicità
estratta con le unghie dalle macerie di una vita distrutta, uno zaino
pesante da mettersi sulle spalle e armi da infilare nella cintura, non
avevano messo in conto che lui potesse imparare ad amare di più la vita,
da quando la morte gli aveva sfiorato la fronte.
Il ragazzo, ora,
non era più Jean-Carl, perchè aveva imparato a sue spese che avere
un'identità era pericoloso e limitante. Era solo il ragazzo.
Prese un
profondo respiro che gli riempì i polmoni, dilatandoli fino a fargli
male. Il profumo della menta e del mentastro, che crescevano mescolati
al trifoglio nel campo, gli stuzzicarono le narici piacevolmente dopo il
greve odore della terra umida.
Farsi seppellire vivo non era stata
una scelta facile, ma era l'unico modo che aveva avuto per sopravvivere
mentre i suoi nemici scorrazzavano liberi in superficie. In effetti, a
pensarci bene, non era stata neppure una vera scelta: aveva trovato una
vecchia bara sforacchiata e capiente, ormai era diventato facile
beccarne qualcuna nelle case di quelli come loro, e ci si era
nascosto a scopo mimetico. Solo qualche decina di minuti più tardi si
era sentito sollevare da terra e per poco non aveva urlato, pensando di
essere stato scoperto; si era sentito trasportare, sballottato in giro, e
si era sforzato di rimanere in silenzio assoluto, di calmarsi,
respirare piano, di non irrigidirsi. Avevano seppellito la bara e il
ragazzo era rimasto in silenzio ad ascoltare ogni manciata di terra che
si infrangeva contro il legno, ogni risata, ogni battuta, dei necrofori
che lo stavano seppellendo, per fortuna senza troppa cura. Era una
tortura, che si insinuava sempre più a fondo nel suo cervello: la
sensazione nera di essere in trappola, di sapere che lo spazio intorno
al suo corpo si stava restringendo sempre di più.
Immaginate voi di
essere laggiù, di sapere che non potete emettere un solo suono, di
sapere che lentamente, un po' alla volta, la terra vi sta ricoprendo,
sta schiacciando la fragile cassa di legno in cui vi trovate. Non ne
uscirete mai più, pensate, morirete laggiù, annaspando alla ricerca di
aria come insetti chiusi in una bottiglia, dibattendovi come pesci
tirati fuori da un fiume, artigliando il coperchio sopra di voi nella
vana speranza di smuoverlo. Non c'è morte più orribile, più consapevole,
più vana.
Questi, e molti altri pensieri, si affollavano nella testa
del ragazzo, ma egli non vi diede ascolto: si disse che la terra, a
giudicare dal numero di volte in cui le vanghe avevano lavorato a quella
sepoltura, non doveva essere poi molta sopra di lui, che l'aria era
abbondante e che il coperchio della bara era leggero. Non si perse
d'animo, il ragazzo, e attese silenzioso di poter compiere la sua
vendetta, sorridendo ad occhi chiusi nel grembo oscuro della terra,
prendendo come una benedizione quella prematura sepoltura che lo aveva
celato agli occhi dei nemici.
“Forse sono pazzo” Pensò, ma fu solo per un istante.
Sentiva ancora le voci della gente che stava in superficie, dunque il momento di tentare una risalita non era ancora arrivato.
Passarono
ore, intense e buie, ore contate secondo dopo secondo, un ticchettare,
uno snocciolare di istanti che parve eterno, più lungo della nascita e
della morte di un uomo. Ma il ragazzo era tenace e sorrideva. E
finalmente scese il silenzio.
Fu allora che il ragazzo tentò di
uscire e vi riuscì, senza sapere neppure lui come aveva fatto, ma
ritrovandosi con le mani sanguinanti, sporco dalla testa ai piedi di
terra umida e con schegge di legno fra i vestiti e la pelle.
E ora, finalmente, era libero e un mattino chiaro e radioso gli illuminava il volto.
Il
ragazzo si controllò i coltelli alla cintura: erano sette, un numero
magico e fortunato, affilati per giorni su pietre di fiume e assicurati
con improvvisati legacci di cuoio e spago. Li aveva intinti tutti
nell'acqua santa, anche se non credeva davvero che servisse a qualcosa, e
subito dopo li aveva asciugati con cura perchè la ruggine non si
formasse sul loro lucente, freddo, perfetto metallo argenteo. Li aveva
curati come se fossero i suoi figli e quelli lo avrebbero servito
fedelmente, assecondando i movimenti delle sue mani, intagliando e
penetrando, disegnando il più perfetto dei lavori artistici: la
vendetta.
Qualcosa si mosse alle spalle del ragazzo.
«Tu devi
essere Jean-Carl Corsaro, non è così?» Gli chiese una voce calma,
profonda, con un accento leggero dell'est europeo. C'era qualcosa di
remoto in quel tono, come se provenisse da una registrazione.
Il ragazzo si voltò di colpo e mise mano all'impugnatura del più grosso dei suoi coltelli
«Tu...» disse soltanto, poi strinse le labbra fino a ridurle ad una linea dritta.
L'uomo
che ora fronteggiava era alto poco meno di lui e aveva le spalle ampie,
un torace da sollevatore di pesi, chiuso in una stretta camicia bianca
aperta sul petto, e una cascata di capelli neri e ricci che gli scorreva
lungo la schiena. Il suo volto era crudelmente atteggiato ad un sorriso
aperto, che mostrava denti saldi e canini grossi e affilati, il labbro
superiore ombreggiato da un paio di baffi folti, un naso avido, affilato
e voluminoso, e occhi grandi, dalle iridi scarlatte, terrificanti,
innaturali in quella faccia così comunemente umana, così imperfetta.
«Io»
disse quell'uomo, incrociando le braccia «Si, proprio io, mio caro e
giovanissimo amico... cosa vuoi fare, con quel coltello? Non è neppure
d'argento. Non ha il manico di frassino. Quello è solo acciaio,
semplice, vile acciaio. Piantamelo in petto, dai, ficcamelo qui sul
cuore e vedrai cosa succede...».
Acciaio. Il ragazzo guardò oltre le
spalle della creatura dagli occhi rossi e ne vide tanto, tantissimo...
acciaio ovunque. L'erba, la menta, il mentastro che egli aveva fiutato
erano solo l'illusione di un prato immenso, erano solo uno spazio verde,
disseminato di croci, che conviveva con un cantiere di dimensioni
pazzesche.
Pali in cemento si sollevavano, come le torri oscure di un
romanzo fantasy, a reggere cavi spessi e tesi da un lato all'altro
della struttura; impalcature abbandonate, tubi di un grigio brillante,
attrezzi di ogni sorta, dalla vanga al martello pneumatico, giacevano
disseminati. Tutto era fermo e si stagliava contro un cielo di un
azzurro profondissimo e così terribilmente sbagliato a confronto di
quello spettacolo artificioso.
«Cos'è?» Domandò il ragazzo. La sua voce era arrochita dalla stanchezza, dal caldo, dal fumo.
L'uomo dagli occhi rossi si guardò alle spalle solo per un istante, così rapidamente che parve un robot.
«Oh,
quello?» disse poi, sollevando le sopracciglia e distendendo i
lineamenti «Diventerà solo un castello. Un castello moderno,
s'intende... non c'è più lo stile di una volta, il maledetto acciaio si
sta divorando il mondo»
«Vuoi uccidermi?»
«Perché dovrei volerti uccidere?»
«Perché è quello che fa la tua gente. Quello che fanno i vampiri»
«Tu credi che io sia un vampiro»
«Non sono stupido» Jean-Carl sputò per terra, poi indietreggiò di mezzo passo «Non funzionerà, con me»
«Lo so. Hai già ammazzato molti di noi. Sei un assassino molto bravo»
«Grazie. Ma non sono un assassino e non ho ucciso nessuno. Erano già morti»
«Peccato che non ci siamo mai conosciuti prima... sei uno che va, tu, uno che va forte»
«Chi sei?» chiese il ragazzo, ignorando il significato della frase del vampiro
«Che
strano» l'uomo con gli occhi rossi, il vampiro, assunse un'aria
perplessa «Mi sarei immaginato, conoscendo la fama che aleggia intorno a
te, che tu mi domandassi “cosa sei, mostro?”, oppure “perchè non stai
bruciando al sole?”. Chi sei? Beh, è una domanda così civile... e non so
come risponderti»
«Dimmi il tuo nome, mi basta»
«Vlad»
«Vlad?»
«Si»
«Un
nome così... così da vampiro...» il ragazzo estrasse il coltellaccio da
caccia dal suo fodero, ma lo tenne basso, allineato alla coscia «Lo
trovo stupido»
«Ti sbagli. Non è un nome da vampiro, è al contrario»
«Cosa?» le sopracciglia scure e sottili del ragazzo si aggrottarono «Cosa significa?»
«Non è che Vlad è un nome da vampiro. Al contrario: vampiro è un nome da Vlad».
Jean-Carl
non capì cosa volesse dire. Non gli interessava capirlo, voleva solo
perdere tempo. Sapeva che quello di Vlad era un bluff, che l'acciaio
poteva benissimo uccidere un vampiro, straccargli via la testa dal
collo. Dopo bastava bruciarli e, oh, come bruciavano!
Vlad si
avvicinò a lui, senza fretta, con movimenti troppo ferali per essere
umani: sembrava che in ogni suo passo si scatenasse la forza di un leone
arrabbiato, che usasse gruppi muscolari che non dovrebbero essere
attivati solo per camminare. Jean-Carl aveva guardato spesso i vampiri
spostarsi, ma dovette ammettere che non aveva mai visto qualcosa del
genere. Non aveva neppure mai visto uno di loro che camminasse alla luce
del sole.
«Sono più antico di tutti loro, il sole brucia solo un pò»
Spiegò Vlad, come se gli avesse letto in mente. Probabilmente l'aveva
fatto davvero, se era così vecchio come diceva.
Jean-Carl rafforzò la presa sul coltello, irritato.
Vlad dilatò le narici, fermandosi
«Il
tuo sudore sta colando sul metallo» disse, a bassissima voce, quasi un
sibilo «Sento l'odore dell'acciaio che si ravviva. Un assassino non
dovrebbe essere così nervoso»
«Non ho mai ucciso uno di voi così...»
«Guardandolo negli occhi? Da sveglio? Tu tagli le gole dei vampiri che dormono»
«Non ho altra scelta» ringhiò fra i denti il ragazzo
«Lo so. Non sei un vigliacco, solo che non sei neanche stupido. Anche a me piace tagliare le gole»
«Vuoi tagliarmi la gola?»
«Non
c'è romanticismo, così, non c'è caccia» gli occhi di Vlad parvero
scintillare per un istante, due letali rubini incassati nel cranio, e la
sua mascella si contrasse appena «Sono dalla tua parte, ragazzo. Sul
serio»
«Cosa vuoi dire?»
«Non sono qui per uccidere te. Sono qui per ammazzare la fazione più numerosa, è molto più divertente. Tu sei solo».
Jean-Carl
non credeva di aver compreso bene. Il vampiro voleva fare fuori i suoi
stessi simili? Bisognava lasciarglielo fare? E poi aveva altra scelta?
No. Il vecchio Vlad avrebbe fatto a pezzi il suo giovane corpo mortale
ed esausto con la facilità con cui un bambino può spezzettare un
cracker. L'avrebbe spezzettato e divorato.
«Vieni con me» disse Vlad «Prendiamoli che dormono. Non si aspettano che io sia qui»
«Tu
sei uno di loro e basta! Tu mi vuoi in trappola!» realizzò il ragazzo,
trionfante, sollevando il coltello «La luce del sole ti indebolisce.
Vuoi portarmi fra i tuoi per ammazzarmi. Non verrò».
La lama tintinnò contro le rocce, volando via dal pugno chiuso del ragazzo. Vlad sorrise sornione
«Ti
ho disarmato. Senza che ti accorgessi di come ho fatto. Se avessi
voluto ucciderti l'avrei già fatto da un pezzo, Jean-Carl».
Il
ragazzo sobbalzò: non gli piaceva che lo si chiamasse con quel nome.
Socchiuse le palpebre, guardando la figura tarchiata di Vlad dallo
spiraglio, pensando che magari sarebbe cambiato un po', che sarebbe
diventato meno inquietante, ma non era così: rimaneva uguale a sé
stesso, così strano, un po' goth, un po' nobile, un po' pazzo. Uno
zombie pallido, un corpo morto ammantato di un'apparenza di umanità, e
occhi rossi come sangue dalle pupille immobili. Niente di ciò che era
vivo, neppure i rettili, riusciva a dare una simile impressione di
immobilità.
Jean-Carl non poteva fidarsi di lui e non era perchè non
era umano, ma perchè era un mostro, una cosa che non avrebbe dovuto
esistere in natura. E se prima era stato in qualche modo scettico, lo
convinse il guardare la sua ombra: la figura del corpo di Vlad non era
riportata fedelmente sul terreno, ma era deformata, più alta, curva, e
tremava in un modo che non era in alcun modo spiegabile, ma che,
semplicemente, era terrificante.
Il vampiro guardò la propria ombra,
le labbra strette in una linea. Poi prese a ridere. Rise forte,
spalancando le fauci. I suoi denti scintillarono al sole ed erano tutti affilati, non solo i canini, e la lingua esangue finiva in una punta rettilesca ed era gonfia, innaturale.
Il
ragazzo sentì un brivido di freddo lungo la spina dorsale, poi la sua
mano si mosse come se avesse vita propria e conficcò dritto in quella
lingua, in mezzo alle zanne ricurve, uno dei coltelli. Il sangue non
zampillò come avrebbe dovuto, ma prese a scendere lentamente, scuro e
freddo, formando rivolette intorno alla lama e sulla gola del vampiro,
dove la punta dell'arma aveva trapassato la carne e lacerato la pelle.
Vlad emise un gorgoglio strozzato, spalancando gli occhi.
Poi
il ragazzo non vide né sentì null'altro che un dolore acuto e sparso
lungo tutto il corpo, come se fosse stato investito in pieno da una
locomotiva e schiacciato sotto le sue ruote pesanti, poco prima di
perdere i sensi.
Si risvegliò al buio, al chiuso, con tutte le
membra doloranti. Si sentì sconfitto. Era questa la morte? Non avrebbe
dovuto forse essere una cessazione di tutta la vita? E allora perchè,
perchè stava soffrendo in quel modo, perchè sentiva le spalle che
pulsavano e i polmoni stretti in una morsa?
Era vivo e questo era chiaro come la luce del giorno anche laggiù, in quella oscurità fredda.
Fredda
come metallo, realizzò il ragazzo, quando allungando le mani di fronte a
se, in alto, sentì con i polpastrelli una superficie liscia come uno
specchio. Non era tutto buio, il mondo: una fessura nel metallo lasciava
penetrare una lama pallida di luce. Con le dita, il ragazzo interruppe
il chiarore, poi cercò di sistemarsi in modo da poter guardare fuori.
Era notte, ma potenti fari rischiaravano il cantiere in cui quelle
creature disgustose lavoravano alla costruzione di un mastodontico
edificio di vetro, cemento e metallo.
Il terrore afferrò con le sue
mani artigliate e secche lo stomaco di Jean-Carl: molto peggio che
essere seppellito vivo, era stato nascosto nel bel mezzo del cantiere,
in quella che sembrava una tomba di metallo invece che di terra e legno.
Non ne sarebbe uscito vivo, il cemento si sarebbe chiuso su di lui,
ecco la fine crudele che Vlad aveva deciso per colui che lo aveva
accoltellato.
Eppure il ragazzo non gridò. Si distese. Forse si
sarebbe salvato, forse no, ma quello che sapeva di certo era che non
avrebbe gridato, non avrebbe dato a quegli esseri mostruosi il pretesto
per venire a prenderlo.
Chiuse gli occhi. Impose alle pupille di smettere di tremare dietro le palpebre.
C'era
anche un'altra cosa che sapeva di certo: se mai si fosse salvato, se ce
n'era anche solo una possibilità, avrebbe odiato per sempre l'odore
intenso, singolare, metallico, dell'acciaio.
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Questo è un vecchio pezzo del 2013, creato per il contest di #
ArteScritta sul tema "L'odore dell'Acciaio". Ah, e abbiamo anche vinto il contest con questo ;)
È stato anche l'esordio su internet di Jean-Carl (personaggio che aveva già
"esordito in privato").
Ringraziamo ancora
Afterlaughs per la bellissima illustrazione che ci ha donato (e potete vedere l'originale
QUI su Deviantart)!