martedì 6 giugno 2017

Sunset 3. Un gruppo di malati




Quella notte aprii gli occhi nel dormiveglia, lo ricordo bene. Ancora piena di sonno, girai la testa per guardare fuori dalla finestra. Lo sbuffo continuo del vento non taceva, cullandomi, e mi strinsi le coperte al petto, sentendomi protetta; avevo la sensazione di essere dentro una tana, in tempi remoti e semplici, in un luogo dove nessuno avrebbe potuto farmi del male. Chiudendo gli occhi, immaginai che sul fondo della caverna vi fosse un fuoco, mentre il suono della brezza sull'erba mi faceva accapponare per un attimo la pelle.
Era l'una di notte. L'ora delle streghe. Sorridendo, mi addormentai di nuovo, scivolando in un sogno colorato di verde e marrone, con il rumore del vento che scuoteva le fronde.
Il mattino dopo, dalla mia finestra non vedevo altro che nebbia densa. È magico, pensai, e scesi a piedi nudi dal letto, inspirando a fondo.
La colazione con Carlo fu tranquilla. Lui mi augurò buona fortuna per il mio primo giorno di scuola. Io lo ringraziai, anche se ora ero molto più tranquilla del giorno precedente e sentivo di non aver bisogno di quegli auguri. Carlo uscì per primo per andare alla centrale di polizia, che per lui era una moglie, sicuramente migliore di quella che si era lasciato alle spalle, e una famiglia. Rimasta sola, mi sedetti al vecchio tavolo quadrato di quercia, su una delle tre sedie spaiate, ed esaminai la piccola cucina, con le pareti rivestite di pannelli scuri, gli armadietti giallo chiaro e il pavimento di linoleum bianco. Non era cambiato niente. Mia madre aveva dipinto gli armadietti diciotto anni prima, con quella stupida scusa di portare un po' di sole in casa, quando in realtà aveva solo fatto in modo che quel colore stonasse con i caldi e confortanti contrasti del resto del mobilio. Sopra il caminetto, nel microscopico e accogliente salottino adiacente alla cucina, c'era una fila di fotografie.
La prima era un'immagine del matrimonio di Carlo e mia madre, vestiti come due buffoni a Las Vegas, poi una di noi tre scattata probabilmente da un'infermiera, in ospedale subito dopo la mia nascita; infine una processione di mie foto scolastiche, un anno dopo l'altro, che ritraevano ogni mio cambiamento nell'altezza e nei lineamenti. Quelle erano vagamente imbarazzanti (andiamo, una sfilza di fotografie dove c'ero solo io?), dovevo fare il possibile per convincere papà a spostarle altrove, almeno finché avessimo vissuto insieme.
Bastava uno sguardo alla casa per rendersi conto che Carlo non era ancora riuscito a dimenticare mia madre, che lei lo aveva manipolato con tanta violenza da farlo sentire in colpa per qualcosa che non poteva controllare, e questo mi metteva a disagio. Non volevo vedere niente di mia madre in quella casa, perciò decisi che presto avrei anche ridipinto gli armadietti, magari di un bel color mogano.
Non volevo arrivare troppo in anticipo a scuola, perciò iniziai a prepararmi con estrema lentezza, infilando nella borsa un paio di quaderni, una barretta energetica ai cereali, una bottiglia d'acqua e le penne. Indossai il giubbotto – immaginai per un attimo che fosse una fighissima tuta anticontaminazione e non era difficile pensarlo visto quanto era rigido – e uscii sotto la pioggerellina che aveva ricominciato a cadere.
Poiché piovigginava, mi inzuppai per cercare la chiave di casa, nascosta come sempre sotto lo zerbino, e a chiudere la porta. Stavo per ripromettermi di dire a papà di non lasciare le chiavi sotto lo zerbino, ma poi ricordai che a Forks non c'era praticamente criminalità e che era anche merito suo, quindi poteva tenere le chiavi dove diamine voleva, anche appese direttamente alla porta.
Entrai nel pick-up e inspirai a fondo. L'abitacolo era ordinato e asciutto, Billy o Carlo ovviamente lo avevano ripulito, ma il rivestimento di pelle dei sedili (e tirai un pugno di vittoria all'aria quando mi accorsi che avevo sedili di pelle) avevano ancora un po' di odore di tabacco e deodorante alla mente, una miscela virile e gradevole.
Il motore, con mio grande sollievo, si accese subito, ma prese vita con un rombo e già al minimo faceva un rumore assordante. Un mezzo così vecchio, mi dissi, doveva almeno avere un difetto. Ad ogni modo aveva la radio, una grossa radio d'antiquariato, che funzionava perfettamente, così la accesi e partii.
Trovare la scuola ovviamente non fu per nulla difficile, malgrado non ci fossi mai stata prima. Come quasi tutto, a Forks, era poco lontana dall'autostrada. A vederla non avrei mai detto che fosse una scuola: mi ci fermai solo grazie al grande cartello di legno, con l'illustrazione in rilievo di una testa protetta da un elmo con il cimiero, che indicava la "Forks High School, Casa degli Spartani". Sembrava già un posto fighissimo! La vegetazione di alberi e cespugli era folta e non riuscii a farmi subito un'idea di quanto fosse grande il complesso. Dov'era finita l'atmosfera tipica dei luoghi pubblici? Dov'erano le recinzioni e i metal detector? A quanto pareva ero capitata in una bella favola e stavo per frequentare una scuola per creature della foresta.
Parcheggiai di fronte al primo edificio, sulla cui entrata spiccava il cartello "Segreteria". Non c'erano altre auto, perciò era senz'altro zona vietata, ma decisi di entrare a chiedere la strada, invece di girare in tondo sotto la pioggia come un'idiota. Uscii dall'abitacolo caldo del pick-up, mi tirai su il colletto del giubbotto e seguii un sentierino di ciottoli fra due siepi scure, sentendomi furtiva. Prima di aprire la porta feci un respiro profondo.
All'interno c'erano più caldo e luce di quanto avessi immaginato. L'ufficio era piccolo, un'area con sedie pieghevoli imbottite faceva da sala d'attesa, la moquette era scura, variegata di arancione, le pareti tappezzate di avvisi e graduatorie, ed un grosso orologio metallico ticchettava pesantemente.
C'erano piante ovunque, in grossi vasi di plastica e sorrisi nel vedere che, almeno qui a Forks, sapevano come i luoghi pubblici vanno arredati per fare sentire qualcuno a proprio agio. C'era un'aralia più alta di me che protendeva le sue foglie palmate verso il lungo bancone che divideva in due la stanza, disseminato di cestini metallici pieni di volantini, depliant e moduli. Dietro il bancone c'erano tre scrivanie, una delle quali occupata da una donna imponente, occhialuta e di capelli rossi, che mi ricordò istintivamente il personaggio di un romanzo fantasy che avevo letto, l'Uomo dei Cimiteri. Indossava una maglietta viola, evidentemente lei era più abituata di me a questo freddo, o magari era solo atermica...
La donna dai capelli rossi alzò lo sguardo
«Posso esserti utile?»
«Si, certo!» risposi, annuendo «Buongiorno, sono Belarda Cigna» la informai e vidi immediatamente i suoi occhi accendersi di interesse. Mi aspettava per qualche motivo, forse conosceva mio padre o forse ero solo destinata ad un'impresa eroica di cui lei era a conoscenza, chi poteva dirlo...
«Certo» disse. Rovistò con una mano in una pila molto precaria di documenti sulla scrivania, finché ne estrasse quello che stava cercando «Qui c'è il tuo orario, assieme ad una pianta della scuola». Sistemò sul ripiano parecchi fogli e me li mostrò gentilmente nel dettaglio: mi indicò sulla pianta le aule delle mie lezioni e il percorso migliore per raggiungerle (come se ne avessi avuto bisogno, in una scuola tanto piccola), poi mi diede un modulo da fare controfirmare a ciascuno dei miei professori e da riportare lì in segreteria entro fine giornata. Mi sorrise e, come aveva già fatto mio padre, mi augurò di trovarmi bene, lì a Forks.
«Se tutti sono così gentili» Le risposi, sincera «Non ho dubbio che sarà una favola».
Quando tornai al pick-up, gli altri studenti erano già arrivati. Feci un giro attorno alla scuola per andare a parcheggiare con loro nell'area riservata e notai con piacere che la maggior parte delle auto era vecchia come la mia, niente di appariscente. A Phoenix avevo vissuto in uno dei pochi quartieri a basso reddito inclusi nel distretto di Paradise Valley. Lì era stato normale trovare una Mercedes o una Porche nuova nel parcheggio degli studenti. Qui l'auto più costosa era una Volvo tirata a lucido che spiccava in mezzo alle altre, probabilmente appartenente a uno di quei damerini figli di papà che hanno i soldi che gli spuntano dalle orecchie e lo vogliono dare a vedere.
Mi affrettai a spegnere il motore non appena trovai un parcheggio, per non disturbare tutti con quel rombo tremendo.
Prima di scendere osservai bene la mappa, memorizzandola in un istante; così magari non avrei dovuto camminare tutto il giorno con la cartina sotto il naso, anche se a onor del vero sapevo già che l'avrei tirata fuori di nuovo solo per il gusto di guardarla. Si, mi piace tenere pezzi di carta in mano mentre cammino, e allora?
Scesi tranquilla dal pick-up. Camminavo sul marciapiede affollato di ragazzi e mi accorsi con piacere che il mio giubbotto non era per loro una qualche stramberia esotica, ma che in molti portavano abiti simili e che anzi un paio di ragazze avevano giubbotti identici al mio.
Giunta alla mensa, l'edificio numero 3 non era difficile da individuare. Sulla facciata est era dipinto il grosso numero nero su sfondo bianco. Seguendo due ragazzi in impermeabili unisex, varcai l'entrata.
L'aula era piccola, tutti gli edifici e gli ambienti erano sorprendentemente piccoli a Forks, forse perché era una piccola città. Le due persone che mi precedevano si fermarono subito oltre, per appendere gli impermeabili ad una lunga fila di ganci, già costellata di altri cappotti e ceratine varie. Le imitai. Erano due ragazze, una bionda, dalla pelle color porcellana, e l'altra ugualmente pallida, ma con i capelli castano chiaro. Visto, erano tutti uguali a me! Non avevo niente di cui preoccuparmi e lo sapevo.
Portai il mio modulo al professore, un uomo alto e calvo, dall'aria diplomatica, che secondo la targhetta sulla cattedra si chiamava Mr Mason. Quando lesse il mio nome mi fissò con l'aria di chi casca dalle nuvole, così mi strinsi nelle spalle
«Sono italiana» dissi
«Si, lo so» rispose «La figlia di Carlo Cigna?»
«Si, signore»
«Ah, benissimo!» mi fece un sorrisetto, poi mi accompagnò nell'ultima fila e mi assegnò un posto, senza nemmeno presentarmi ai compagni di classe. Per questi ultimi era difficile osservarmi, ma in qualche modo ci riuscirono, girando furtivamente le teste di tanto in tanto.
Io tenevo gli occhi bassi sulla lista di letture che avevo ricevuto dal professore. Era piuttosto elementare, c'erano tutti quei vecchi autori che conoscevo e di cui avevo letto, persino qualcuno che amavo come Shakespeare. Avevo già fatto tutto, potevo riposare sugli allori e godermi il tempo libero, una piccola grande vittoria sin dalla prima ora di scuola.
Il professore iniziò a fare lezione e accompagnata dal suo mormorio monotono mi persi in una divagazione sui vampiri Shakesperiani, chiedendomi se davvero avesse scritto qualcosa su Dracula (chiamandolo "Dracola" o "Dracole", non ricordavo bene) e comparando lo stile del vecchio drammaturgo inglese a quello di Bram Stoker.
Quando si diffuse il suono nasale e ronzante della campana, un ragazzo allampanato, con qualche problema cutaneo e i capelli neri come ali di corvo, si sporse dalla sua fila per parlarmi.
«Tu sei... Bella Cigna, vero?». Aveva l'aria del tipico cervellone, impacciato e pieno di attenzioni. Dovevo stare attenta se volevo diventare sua amica, conoscevo quei tipi e sapevo che bisognava dargli solo la giusta quantità di confidenza.
«Belarda, il nome sarebbe Belarda» Dissi, sapendo che probabilmente non sapeva pronunciarlo in modo corretto.
Nel raggio di tre banchi da me, tutti si voltarono a guardarmi.
«Dov'è la tua prossima lezione?» Chiese lui, ignorando completamente la mia puntualizzazione
«Educazione fisica, con Jefferson, edificio 6» risposi
«Io sto andando al 4, se vuoi ti mostro la strada...» hmm, troppe attenzioni, decisamente «Mi chiamo Eric» aggiunse.
Abbozzai un sorriso e risposi
«Grazie! Ma so come ci si arriva, quindi vado tranquilla. Ci si vede, Eric».
Mi alzai in fretta, mi infilai il giubbotto e uscii sotto la pioggia, che cadeva più fitta. Avrei giurato che la nutrita folla che ci seguiva a pochi passi di distanza fosse intenta a origliare ogni mia conversazione e mi voltai di scatto a guardarli. Tutti, facendo finta di niente, si dispersero, tranne Eric che spuntò come un fungo dalla folla e mi affiancò
«Così c'è una bella differenza tra qui e Phoenix, eh?» chiese lui
«Già»
«Laggiù non piove molto, vero?»
«Uh mamma, che domanda banale» ridacchiai «Certo che non piove molto, è Phoenix! E qui invece è Forks, la cittadina più piovosa d'America! A Phoenix capiterà che piova tre o quattro volte l'anno».
Lui parve imbarazzato e sfregò i piedi per terra, ondeggiando, poi tornò all'attacco
«Caspita, chissà com'è»
«Com'è cosa?»
«Phoenix»
«Assolato»
«Non sembri molto abbronzata, per essere di Phoenix, eh?»
«Magari è il mio tipo di pelle, no?»
«Il tuo tipo di pelle? Che non si abbronza neanche a Phoenix, dove piove tre o quattro volte l'anno? Quanto stavi chiusa in casa?»
«Sono un fototipo due, ma anomalo perché non ho i capelli chiari, ok? Vuoi anche il mio gruppo sanguigno? Sapere quante volte esco di casa? Il risultato delle analisi delle urine?»
«Io cercavo solo di... essere gentile, fare conversazione» si difese lui, stizzito
«Io invece sarei arrivata e vorrei andare in aula, se non ti dispiace, non rispondere a domande personali» gli feci notare. Avevamo girato attorno alla mensa, passato accanto alla palestra, diretti verso l'ala sud della scuola e lui aveva continuato a parlare a raffica e pretendeva anche che non tagliassi corto, quando mi faceva domande personali. Ma chi cavolo era questo?
«Beh, buona fortuna» Disse, mentre aprivo la porta «Magari ci vediamo a qualche altra lezione». Sembrava speranzoso. Non aveva speranze con me.
Il resto della mattinata trascorse più o meno allo stesso modo. Il professore di trigonometria, Mr Varner, mi costrinse a salutare i miei nuovi compagni, presentandomi davanti alla cattedra.
«Salve a tutti, sono Belarda Cigna, Bella per gli amici. E solo per gli amici, eh! Vengo da Phoenix, sono per metà italiana dalla parte di mio padre e sono un'appassionata di natura e di letteratura. Spero di trovarmi bene con voi, ho già potuto constatare che Forks è una splendida città, quindi» mi strinsi nelle spalle «È tutto per ora».
Dopo due lezioni, iniziai appena a riconoscere qualche volto. C'era sempre qualcuno più coraggioso degli altri che si presentava e mi chiedeva come mi trovassi a Forks, così intavolammo un paio di brevi conversazioni e scoprii alcune cose molto piacevoli su quella cittadina, come il fatto che i fiumi fossero meta per i pescatori sportivi perché ricchissimi di salmoni e trote, che c'era anche un museo (sebbene non so quanto possa essere interessante un museo del legno) e spesso si organizzavano escursioni diurne nella foresta di Hoh.
«Escursioni? E sono frequentate?»
«Di solito le fanno i giovani. Sai, quelli della nostra età» Mi rispose una ragazza di nome Alexa, con un piercing al naso e un gran sorriso «A te piace andare per boschi? Magari da te non era consuetudine, ma qui lo facciamo tutto il tempo...».
Non ebbi mai bisogno di tirare fuori la mappa e non ne avrei avuto bisogno neanche se avessi dimenticato i percorsi, perché mi accompagnarono da un'aula all'altra e chiacchierammo tutto il tempo di fiumi e di escursionismo. Caspita, mi consideravo una ragazza di poche parole, ma forse fino ad ora avevo speso poche parole solo perché a nessuno interessava sentirmele dire! Qui a Forks era diverso. Erano genuini.
Avevo già quattro cotte per quattro ragazzi diversi e intuivo potenziali di amicizia, ma ero un po' timida e non avevo il coraggio di rivolgere per prima la parola a chiunque, così lasciai che gli interlocutori andassero e venissero a loro piacimento. Una ragazza si sedette accanto a me sia durante la lezione di trigonometria che in quella di spagnolo (in cui ero più brava di tutti i miei compagni perché l'Italiano era una lingua molto più simile), e a pranzo mi accompagnò persino in mensa. Era piccola, molti centimetri più bassa del mio metro e sessantasette, ma i suoi capelli ricci e arruffatissimi colmavano quasi tutto il divario. Non ricordavo il suo nome purtroppo, ma quella follettina piena di energia che continuava a ciarlare di professori e di lezioni mi colpì.
Ci sedemmo in fondo a un tavolo pieno di suoi amici, che mi presentò. Dimenticavo i loro nomi un istante dopo averli sentiti, erano troppi!
Eric, il ragazzo di inglese troppo appiccicoso, mi salutò con la mano dall'altro lato della sala e quasi quasi decisi che magari era tanto solo e per questo si comportava in quel modo.
Fu in quel momento, seduta a pranzo, impegnata a conversare con sette estranei curiosi seduti allo stesso tavolo, che li vidi per la prima volta.
Erano seduti nell'angolo più lontano e isolato della mensa. Erano in cinque. Non parlavano e non mangiavano, benché ognuno di loro avesse di fronte a sé un vassoio pieno di cibo, intatto. Non mi stavano squadrando, a differenza degli altri studenti, perciò li potei osservare tranquillamente.
Dovevano essere i ragazzi affetti da handicap che frequentavano la scuola, sul momento non trovai alcun'altra spiegazione al fatto che non parlassero e fissassero il vuoto. Sembrava che tutti avessero subito dei brutti traumi cerebrali e in generale non avevano una bella cera.
Non si somigliavano affatto. Dei tre ragazzi, uno era grosso, nerboruto e muscoloso come un sollevatore di pesi professionista, i capelli neri e ricci. Uno era più alto e magro, biondo miele. Il terzo era smilzo, meno robusto degli altri due, con i capelli rossicci e spettinati che sembravano essere stati ridotti in quello stato da una terribile folata di vento; quest'ultimo sembrava molto più giovane degli altri due, che avrebbero anche potuto essere studenti universitari, o addirittura insegnanti.
Le ragazze erano sedute di fronte a loro. Quella più alta sembrava uscita da un catalogo di costumi da bagno, con lunghi capelli biondi e perfetti, che le accarezzavano la schiena come un'onda delicata. La ragazza più bassa era una nanerottola sottopeso, dai tratti facciali delicatissimi e l'apparenza fragile, con capelli neri corvini, corti e scompigliati. Era chiaro che né lei né il ragazzo rosso avevano la capacità di pettinarsi da soli e questo mi fece molta pena, perché avrebbero potuto anche essere carini se non fossero sembrati così malati.
Eppure c'era qualcosa in loro che li rendeva tutti somiglianti. Ognuno di loro era pallido come il gesso e non intendo pallidi come me o come gli abitanti di Forks o come i Norvegesi, ma proprio albini, erano più pallidi di tutti gli studenti di quella città senza sole. Tutti avevano occhi molto scuri, a dispetto del diverso colore di capelli, e cerchiati da ombre pesanti, da occhiaie viola scuro simili a lividi che sembravano quelle di qualcuno che ha davvero brutti problemi circolatori o non dorme da molte notti di seguito. Forse non erano malati, forse avevano avuto un incidente, era capitato qualcosa che aveva scosso tutto il gruppo e ora erano tutti sotto shock e non riuscivano a parlarsi o a guardarsi in faccia, chissà.
Erano tutti graziosi, con un che di affascinante, se ci fosse stata una scintilla di intelletto dietro a quegli occhi scuri, tanto da sembrare statue di marmo. Forse non erano studenti, riflettei, forse erano statue di marmo con le parrucche, il risultato di qualche scherzo goliardico: non sembravano stare respirando.
Tutti guardavano altrove, lontano dal loro tavolo,lontano dagli altri studenti, lontano da qualsiasi cosa, per quel che potevo capire. Mentre li osservavo, cercando di capire se erano fatti di marmo o di polistirolo, la ragazza minuta e spettinata si alzò con il vassoio in mano – bibita ancora sigillata, mela senza l'ombra di un morso – e si allontanò con una falcata veloce, aggraziata, da atleta. Meravigliata da quel passo di danza (e dal fatto che fosse una persona reale) la guardai finché, rovesciato il contenuto del vassoio nella spazzatura, sparì dalla porta secondaria ad una velocità impensabile. Ero indignata: perché non aveva dato la bibita e la mela a qualcuno che li desiderava? Perché non se li era portati a casa? Che cafona maleducata e sprecona!
Il mio sguardo guizzò di nuovo sugli altri ragazzi dall'aria malaticcia, che erano seduti esattamente come prima.
C'era un solo modo per capire che diamine fossero.
«E quelli chi sono?» Chiesi alla ragazza della lezione di spagnolo, che se non ricordavo male si chiamava Jessica.
Mentre lei alzava lo sguardo per capire di chi parlassi – ma forse per il mio tono di voce l'aveva già intuito – lui la guardò, il più magro, il più giovane con i capelli fuori posto e l'aria da ragazzino. Osservò la mia vicina per non più di una frazione di secondo, e poi i suoi occhi scuri si posarono su di me.
Distolse lo sguardo all'istante e io rimasi a fissarlo. Che strano tizio.
In quella schermaglia di occhiate, la sua espressione rimase neutra, come se la mia vicina avesse pronunciato il suo nome e lui avesse alzato gli occhi involontariamente, ma già deciso a non rispondere.
La ragazza fece una risatina imbarazzata e guardò verso il tavolo come stavo facendo io. Me li presentò, ma mi dimenticai i nomi un istante dopo e me li feci ripetere.
«Da capo, per favore, me li segno» Dissi, tirando fuori il diario dallo zaino
«Sono Edward ed Emmett Cullen, assieme a Rosalie e Jasper Hale. Quella che se ne è andata è Alice Cullen; vivono tutti assieme al dottor Cullen e a sua moglie» disse, con un filo di voce
«E la moglie ha un nome?» domandai, decisa a prendere appunti per bene
«Si, Esme»
«Ah».
Guardai di sottecchi quel ragazzo pallido dai capelli rossicci, che ora osservava il proprio vassoio e faceva a pezzi una ciambella con le dita lunghe e pallide. La sua bocca si muoveva velocissima, le labbra perfette si aprivano appena, e mi parve un modo alquanto strano di mangiare le ciambelle finché non mi accorsi delle briciole sotto la sua sedia. Quegli spreconi fissati con le diete! Prima Alice aveva buttato nella spazzatura cibo sigillato e ora Edward stava riducendo a cibo per formiche un buon dolce! Erano pazzi.
 Quegli spreconi fissati con le diete! Prima Alice aveva buttato nella spazzatura cibo sigillato e ora Edward stava riducendo a cibo per formiche un buon dolce! Erano pazzi(Illustrazione: Edward Cullen mentre fa a pezzi le ciambelle fissando di fronte a sé) 

Gli altre tre continuavano a guardare altrove, eppure mi sembrava che stesse parlando, piano, con loro.
«Sono... molto carini» Mi sforzai di dire, reprimendo l'ondata di immediata repulsione che provavo per gente del genere
«Si!» concordò Jessica, con un'altra risatina «Però stanno assieme. Voglio dire, Emmette e Rosalie, e Jasper e Alice. E vivono assieme». Nella sua voce si sentivano tutta la condanna e l'indignazione della cittadina, così almeno sembrava al mio orecchio critico, ma forse era solo a lei che dava fastidio.
«Quali sono i Cullen?» chiesi «Non sembrano parenti...»
«Oh, non lo sono. Il dottor Cullen è molto giovane, ha meno di trent'anni»
«Allora è giovane e basta, non molto» rettificai
«Beh, si, ma comunque non giustifica che abbia avuto tutti questi figli. Sono tutti adottati. Gli Hale si, sono davvero fratello e sorella, gemelli. Sono i due biondi. E sono in affidamento»
«Sembrano un po' grandi per essere in affidamento. Non che siano affari miei, ovviamente, però la logica...» feci un gesto a mezz'aria, che voleva simboleggiare la coerenza logica
«Adesso si, Jasper e Rosalie hanno diciotto anni, ma vivono con la signora Cullen da quando ne hanno otto. È una specie di zia o qualcosa del genere»
«È davvero un bel gesto» ammisi «Prendersi cura di tutti quei ragazzi, nonostante siano genitori giovani. Devono amare molto la loro famiglia»
«Direi di si» ammise Jessica senza troppo entusiasmo, e mi fece intuire che per un motivo o per un altro il dottore e sua moglie non gli piacevano «Comunque penso che la signora Cullen non possa avere bambini» aggiunse, come se ciò sminuisse la bontà della signora.
Durante la conversazione, non potevo fare a meno di lanciare alcune svelte occhiate verso la strana famiglia, perché quelli continuavano a guardare il muro senza mangiare.
«Hanno sempre abitato a Forks?» chiesi. Erano così strambi che mi sarei certamente accorta di loro, durante una delle mie vacanze lì.
«No» rispose lei, e il tono di voce sottintendeva che la risposta doveva essere ovvia anche per una nuova arrivata come me «Si sono trasferiti un paio di anni fa, vengono da un qualche posto in Alaska».
Istintivamente provai curiosità. Dall'Alaska? Magari lì c'erano delle strane usanze che non conoscevo riguardo al guardare le pareti. E poi chissà perché i Cullen erano così emarginati e malvisti, voglio dire, certo io non li avrei voluti frequentare (erano strambi e sembravano piuttosto maleducati), ma c'era un motivo per cui tutti li tenevano a distanza?
Mentre li studiavo, il più giovane dei Cullen alzò lo sguardo e incrociò il mio, stavolta la sua espressione era evidentemente incuriosita. Mi voltai di scatto, e allora mi sembrò di notare che il ragazzo fosse stranamente sorpreso, quasi deluso.
«Chi è quello lì, quello piccolo con i capelli rossicci?» chiesi
«Non te l'ho già detto?»
«Scusa, mi scordo chi è chi, mi sono scritta i nomi, ma...» mi strinsi nelle spalle
«Si chiama Edward» disse pazientemente Jessica «È uno schianto, ovviamente, ma non sprecare il tuo tempo. Non esce con nessuna. A quanto pare non ci sono ragazze abbastanza carine per lui» disse, con aria di disprezzo. La volpe e l'uva. Chissà quando era toccato a lei essere rifiutata.
Poggiai entrambi i gomiti sul tavolo e sorrisi
«Non ti preoccupare. Non è questo gran schianto che dici. E magari non è che nessuna ragazza qui è carina per lui, magari invece è gay».
Jessica mi sorrise, genuinamente sorpresa
«Non ci avevo mai pensato»
«Beh, ci sono ottime possibilità, no? Voglio dire, se non esce con nessuna... oppure è asessuale. Ma credo sia gay».
Guardai di nuovo verso il ragazzo. Si stava mordendo il labbro inferiore, lentamente.
Rimasi seduta a tavola con Jessica e i suoi amici più di quanto mi sarei trattenuta se fossi stata da sola. Avevo il terrore di arrivare tardi alle lezioni del primo giorno di scuola. Una delle mie nuove conoscenze, che con un certo buon senso mi ricordò il suo nome, Angela, aveva biologia II come me. Ci dirigemmo verso l'aula in silenzio.
Quando entrammo in classe, Angela andò a sedersi a un tavolo nero per gli esperimenti, uguali a quelli a cui ero abituata nella mia vecchia scuola. Evviva, esperimenti! Lei aveva già un compagno. Anzi, tutti i tavoli tranne uno erano occupati. Accanto al corridoio centrale, riconobbi gli strani capelli di Edward Cullen, seduto, ahimé, proprio accanto all'unico posto libero.
Camminando lungo le file di banchi per presentarmi al professore e fargli firmare il modulo, lo tenevo d'occhio, di sottecchi. Quando gli passai accanto all'improvviso lui si irrigidì. Mi fissò: era ostile, furioso. Dovetti trattenere una risata di fronte a quella faccia, a quel comportamento insensato, ma mentre mi concentravo su quel viso arrabbiato inciampai su un libro e per non cadere fui costretta a reggermi ad un tavolo. La ragazza seduta lì rise sotto i baffi.
«Grazie eh» Bofonchiai
«Scusa» rispose lei «Non era per te, era per la scenetta. E scusa per il libro, è mio»
«Ah».
Il signor Banner firmò il modulo e mi diede un libro, senza perdersi in presentazioni, poi, non avendo scelta, mi fece sedere nell'unico posto libero, al centro dell'aula. Tenni basso lo sguardo, mentre mi accomodavo vicino a quel cretino di Edward, ricordandomi l'occhiata torva di poco prima.
Non lo guardai, mentre sistemavo il libro sul tavolo e mi mettevo a sedere, ma non riuscii a fare a meno di notare che cambiò posizione. Si stava allontanando da me, seduto sul bordo della sedia e voltato dall'altra parte, come per evitare una tremenda puzza.
Mi afferrai una ciocca di capelli e li annusai: avevano l'innocuo e gradevole odore di fragole del mio shampoo preferito. Forse capelli-pazzi era allergico alle fragole?
Lasciai cadere i capelli sulla mia spalla destra, a chiudere il sipario tra di noi, e cercai di prestare attenzione all'insegnante.
La lezione era, fortunatamente, sull'anatomia cellulare, un argomento che avevo già studiato e che ricordavo bene. In ogni caso presi un paio di appunti, tanto per arruffianarmi il professore facendogli credere che era stato lui ad insegnarmi queste cose.
Non potevo trattenermi dallo sbirciare di tanto in tanto, attraverso la ciocca di capelli, verso lo strano ragazzo che mi era seduto accanto. Non si rilassò nemmeno per un istante durante l'intera lezione e rimase rigido, sull'orlo della sedia, il più lontano possibile da me. Riuscivo a vedere il pugno chiuso appoggiato sulla gamba sinistra, i tendini in tensione sotto la pelle di gesso. Non riusciva a rilassare neanche quelli. Teneva le maniche della camicia bianca, che lo faceva sembrare un vampiro francese, arrotolate fino al gomito e notai che non era smilzo come era sembrato accanto al fratello corpulento. Caspita, allora Emmet (se così si chiamava il bestione) visto da vicino doveva essere una sorta di Brock Lesnar con i capelli neri.
La lezione parve durare più delle altre. Era perché finalmente la giornata stava finendo oppure perché la totale immobilità di capelli-pazzi mi distraeva così tanto? Non si mosse; restò sempre talmente immobile che sembrava non respirasse nemmeno.
Cosa c'era che non andava? Si comportava sempre così? Ripensai alle parole di Jessica, a pranzo, e fui sicura che non avesse esagerato con il risentimento verso di lui.
Non poteva essere a causa mia. Edward Cullen non sapeva niente di me, tranne... tranne il mio nome, credo. E poteva aver intuito che ero italiana. Non era che quel comportamento era perché Edward Cullen era una specie di xenofobo o razzista o una cosa come quelle, vero?
Sbirciai di nuovo verso di lui: mi stava di nuovo squadrando, con gli occhi neri pieni di disprezzo.
«Senti, che problema hai?» Sbottai, a bassa voce.
Lui parve immediatamente sorpreso e guardò altrove, senza dire una parola.
«Vigliacchi» Borbottai, abbastanza forte perché un paio di compagni potessero sentirmi «Tutti uguali».
In quel momento la campana prese a squillare, io sobbalzai ed Edward Cullen si alzò dal suo posto con un movimento fluido, dandomi le spalle, e prima che chiunque altro avesse lasciato la sedia lui era già fuori dalla classe. Che coniglio! Scappava come una mammoletta.
Io rimasi pietrificata al mio posto, incredula, a guardarlo. Se era così strambo si capiva perché era isolato.
«Sei tu Belarda Cigna?» Chiese una voce maschile, pronunciando il mio cognome quasi del tutto correttamente.
Alzai lo sguardo e vidi un ragazzo carino, con il viso da bambino, i capelli biondo cenere raccolti in punte ordinate, che mi sorrideva con aria amichevole. Evidentemente, lui non pensava che avessi un cattivo odore o che appartenessi ad una razza feroce e diversa da cui scappare al primo accenno di rivolta.
«Si, sono io» Dissi, con un sorriso
«Io sono Mike»
«Ciao, Mike»
«Serve aiuto per trovare la prossima lezione?»
«Nossignore, devo andare in palestra e ce la faccio benissimo. Però se vuoi fare la strada con me è ok» aveva un faccino adorabile e ogni tanto non fa male lasciare che gli ormoni parlino «Tu dove vai?»
«Oh, vado anch'io in palestra, per questo te lo chiedevo»
«Forte!».
Uscimmo dall'aula assieme. Era un chiacchierone, e fu soprattutto lui a parlare: aveva vissuto in California fino all'età di dieci anni, perciò diceva di capire come mi sentivo, lontana dal sole.
«Io mi sento benissimo» Dissi, infilando i pollici sotto gli spallacci «Spero che a te la California non manchi troppo»
«A dire il vero no» rispose «Stavo solo cercando di farti sentire a tuo agio, nel caso Phoenix ti mancasse».
Scoppiammo a ridere. Scoprii che frequentava anche le mie lezioni di inglese. Era la persona più gradevole tra le nuove conoscenze di quel giorno.
Mentre entravamo in palestra, d'improvviso, chiese
«Scusa, ma hai accoltellato Edward Cullen con la matita o cosa? Non l'ho mai visto comportarsi così»
«Parli del ragazzo con i capelli pazzi seduto accanto a me durante l'ora di biologia?» dissi, con finta ingenuità venata di acido
«Si» rispose lui, annuendo serio «Sembrava gli fosse venuto un attacco di qualcosa»
«Non gli ho nemmeno rivolto la parola. Tranne verso la fine, quando gli ho chiesto che cavolo di problemi aveva e lui è scappato come un coniglio»
«È un tipo strano» convenne Mike «Ma nessuno gli risponde mai male»
«Perché? È solo uno strambo»
«Non lo so... fa paura. Hai avuto coraggio»
«Mi guardava male, volevo solo sapere che diamine voleva».
Mike continuava a ronzarmi attorno, anziché dirigersi verso lo spogliatoio, e gliene fui grata perché volevo qualcuno con cui parlare di questo increscioso accaduto.
«Se io fossi stato così fortunato da sedermi accanto a te, ti avrei rivolto la parola» disse.
Prima di voltarmi verso l'entrata dello spogliatoio femminile gli sorrisi. Era cortese, e senza dubbio gli piacevo, ma spero non si notasse troppo che lui piaceva a me. Quel facciotto chiaro e liscio dai lineamenti infantili, era dolcissimo!
L'insegnante di ginnastica, Mr Clapp, mi trovò una divisa ma non me la fece indossare, per quella lezione. A Phoenix, ginnastica era obbligatoria solo per due anni, qui invece quattro, quindi se le cose tiravano per le lunghe si sviluppava un mucchio di competitività e nessuno voleva mollarmi un posto in nessuna squadra. Anche perché io non ero granché brava a giocare a pallavolo, lo confesso.
Guardai quattro partite in contemporanea e mi annoiai un po'.
Finalmente la campana suonò. Andai in segreteria per restituire il modulo; fuori la pioggia si era calmata, ma si era sollevato un vento forte e freddo. Mi strinsi nel giubbotto, mentre il colletto alzato mi sbatacchiava violentemente contro le guance.
Quando entrai nell'ufficio caldo fui sul punto di riuscirne immediatamente.
Di fronte a me, alla scrivania, c'era capelli-pazzi, che non sembrò accorgersi del mio ingresso. Io rimasi accanto al muro, in attesa che la segretaria si liberasse.
Lui stava discutendo con lei, con un tono di voce basso, seducente, e mi dissi che non era poi così strano che a lui piacessero le signore più mature, ma che ci provasse in segreteria mentre c'era gente che aspettava in fila era davvero spiacevole. Dopo qualche istante, riuscii a captare l'argomento della discussione: stava cercando di spostare biologia ad un altro orario, qualsiasi altro orario.
Non potevo credere che fosse a causa mia. Doveva esserci qualche altra ragione, qualcosa successo prima che io entrassi in aula. Era impossibile che questo sconosciuto potesse odiarmi in maniera tanto improvvisa e intensa.
La porta si riaprì, e il vento freddo che immediatamente invase la stanza sfiorò i documenti sulla scrivania e mi spettinò i capelli sul viso. La ragazza che era entrata si allungò semplicemente verso il bancone, depositò un foglio nel cestino e uscì di nuovo. Ma Edward Cullen si irrigidì come uno stoccafisso e si voltò per fulminarmi, con uno sguardo penetrante, pieno d'odio. Per un istante provai un brivido di inquietudine, poi, dopo nemmeno un secondo, sbottai
«Ora mi dici che problemi hai con me e li risolviamo».
Edward tornò a rivolgersi alla segretaria
«Non fa niente» Disse svelto, con la sua voce vellutata «Mi rendo conto che è impossibile. Molte grazie lo stesso». Girò i tacchi senza degnarmi di un solo sguardo e si dileguò dalla stanza, anche questa volta velocissimo. Porca miseria, era terrorizzato da me.
Mi avvicinai al banco e consegnai il modulo con le firme.
«Com'è andato il primo giorno, cara?» Chiese la segretaria, con aria materna
«Bene» risposi, poi presi un profondo respiro «Tranne per quel cretino di Edward Cullen che continua a minacciarmi con lo sguardo e scappare»
«Sul serio? Edward Cullen?» lei parve sorpresa mentre metteva in ordine il mio modulo, pinzandolo insieme ad alcuni fogli «Ma è un bravo ragazzo»
«Beh, bravo ragazzo o no, la deve finire di fare così» dissi convinta, poi salutai e tornai al mio pick-up, uno degli ultimi mezzi rimasti nel parcheggio. Era un porto sicuro, dentro quel mezzo avrei potuto spiaccicare capelli-pazzi come marmellata se avesse provato a farmi qualsiasi cosa.
Per un po' rimasi immobile sul sedile a fissare il parabrezza, ma dopo qualche minuto iniziò a fare freddo e per accendere il riscaldamento dovetti avviare il motore, che partì con un rombo.
Tornai a casa tranquilla, raccomandandomi di riempire una delle mie vecchie bottigliette di profumo con una miscela di olio di peperoncino al più presto, in caso strani tizi pallidi con i capelli scompigliati volessero farmi del male.


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 aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui

sabato 3 giugno 2017

Sunset 2. A prima vista



2. A prima vista
Io e mia madre viaggiavamo verso l'aeroporto con i finestrini dell'auto abbassati. A Phoenix faceva caldo, il cielo era blu senza neanche una nuvola e la sua luminosità quasi mi feriva gli occhi. Indossavo la mia camicia preferita, senza maniche, di sangallo bianco; la indossavo perché faceva caldo e perché volevo essere dell'umore migliore mentre mi trasferivo in un posto da sogno. Il mio bagaglio a mano era un trolley, coperto dalla mia giacca a vento, stipato di libri e di crocchette per il gatto che certamente avrei adottato quando fossi arrivata nella mia nuova casa.
Nella penisola di Olympia, nel nordovest dello Stato di Washington, nascosta da una perpetua coltre di nuvole, esiste la cittadina di Forks. Per fortuna. Questo piccolo e adorabile posto registra in un anno il più alto numero di giorni piovosi di tutti gli Stati Uniti. Fu da quella città e dalla sua onnipresente pioggia, che mia madre fuggì ingratamente, portandomi con sé quando avevo soltanto pochi mesi. Fu in quella città che passai almeno un mese di vacanza, ogni estate, fino all'età di quattordici anni e lasciatevelo dire, fu fantastico. Mio padre Carlo, che abitava a Forks, era un tipo di poche parole, ma di certo sapeva cosa significa vivere: pesca, campeggio all'aperto, partire di football con i ragazzini giù alla riserva, era stato sempre fantastico!
Ora stavo andando a vivere a Forks, definitivamente, liberandomi dell'ombra nefasta di una madre apparentemente incapace di badare a sé stessa e che, sebbene avesse avuto un matrimonio disastroso, cercasse sempre di insegnarmi cose sulla vita e sull'amore e mi intimasse di non sposarmi anch'io. Puah! Non vedevo l'ora di fuggire da lei e da Phoenix. Detestavo Phoenix, odiavo il suo caldo soffocante, il suo caos, lo smog, il traffico e tutta quella gente che mi fissava e sparlava.
«Bella» Mi ripetè mia madre un'ultima volta, forse la millesima, mentre salivo sull'aereo, «Non sei obbligata».
Mia madre è così, cerca sempre di manipolarmi, anche se è pessima e non si accorge di non avere alcun effetto su di me; siamo completamente diverse, caratterialmente, ma purtroppo ci somigliamo fisicamente, a parte i capelli corti tagliati come un mezzo cocco e le rughe.
Mentre fissavo i suoi occhi grandi, da bambina, mi sentii sollevata. Stavo abbandonando mia madre, quella che non sapeva cucinare e metteva a fuoco la casa, quella che non sapeva badare a sé stessa. Avrei avuto un pizzico di senso di colpa se non ci fosse stato Phil con lei, il suo nuovo ragazzo, che significava bollette pagate, frigo pieno, benzina nel serbatoio e qualcuno a cui chiedere aiuto se si fosse persa. Per mia madre questo era il senso di avere un ragazzo: non sapeva proprio cosa fosse l'amore, voleva solo essere badata come una bambina.
«Ci voglio andare» Ribadii, a denti stretti. Suonavo convincentissima, ma lei scosse la testa e ribattè
«Salutami Charlie. Ti mancherò, vedrai»
«Ceerto»
«Ci vediamo presto» insistette «Puoi tornare quando vuoi. Se hai bisogno di me passo a prenderti».
Capivo dal suo sguardo che dietro la promessa c'era una minaccia, ma feci buon viso a cattivo gioco.
«Non preoccuparti per me» Tagliai corto «Andrà benone. Vado a stare da papà, mica cotiche!».
Mi abbracciò stretta per un minuto intero, chiaramente cercando di manipolarmi con i gesti d'affetto (di cui non era mai stata prodiga, eh), poi salii sull'aereo, e lei non c'era più.
Per arrivare a Seattle da Phoenix ci vogliono quattro ore, più un'altra su un piccolo aereo per raggiungere Port Angeles; Forks è ad un'ora d'auto da lì. Non mi disturba volare, per fortuna, ma non vedevo di essere giù da quel gigantesco trabiccolo alato per poter fare il mio viaggio in auto con papà. Carlo, mio padre, si era comportato davvero bene dal primo all'ultimo istante in quella faccenda, sembrava fargli sinceramente piacere che andassi a vivere da lui con l'intenzione di rimanerci per un po'. Mi aveva iscritta a scuola, l'unica scuola di Forks ovviamente, e mi avrebbe dato una mano a cercare un'automobile tutta per me. Ero elettrizzata! Una macchina tutta mia! A costo di avere un vecchio macinino, sarebbe stata una cosa grandiosa.
Ero sicura che tra di noi non ci sarebbe stato alcun imbarazzo: nessuno dei due era quel che si dice un tipo logorroico, ma sapevamo cosa dire al momento giusto e questo ci permetteva di non farci gli affari dell'altro, conveniente se dovevamo convivere. Sapevo che per lui questa decisione era logica e significava molto: avevo sempre amato Forks ed entrambi non vedevamo l'ora di fuggire dalle grinfie dei luoghi affollati ed afosi dove si rischiava di prendere cancri solo respirando il fumo delle marmitte.
Quando atterrai a Port Angeles, pioveva. Non lo interpretai come un presagio: era l'inevitabile natura delle cose. Il mondo profumava di erba e di asfalto bagnati e aveva un'aria pulita, solenne, cinematografica.
Carlo mi aspettava sull'auto della polizia. Anche questo era inevitabile. Per la brava gente di Forks, Carlo è l'ispettore capo Cigna, l'irreprensibile, ma affascinante, italiano poliziotto.
Il motivo principale per cui desideravo una macchina tutta mia, malgrado i miei pochi risparmi, era che possedevamo solo un'auto ed era quella lì, perciò non avrei potuto andare dove volevo e papà con quella ci lavorava.
Carlo mi accolse stringendomi goffamente con un braccio, quando, inciampando, scesi dall'aereo.
«È un piacere rivederti, Bells» Mi disse sorridendo, mentre mi afferrava le spalle per guardarmi in volto «Non sei cambiata molto. Renée come sta?»
«Sta bene» tagliai corto «È bello rivederti, papà». Mamma avrebbe voluto che lo chiamassi "Carlo" e che invece chiamassi papà il suo nuovo fidanzato Phil. Puah.
Avevo poche valigie. La maggior parte dei vestiti che portavo in Arizona erano troppo leggeri per Washington, così sarebbe stato fichissimo andare a fare shopping con papà, che non mi diceva di provarmi questo o quello e non mi costringeva a comprare quello che piaceva a lui.
Caricammo le poche valigie nel bagagliaio e montammo sull'auto.
«Ho trovato una buona macchina per te, un affarone» Mi annunciò lui, una volta allacciate le cinture
«Che genere di macchina?» Il modo in cui aveva detto buona macchina per te anziché buona macchina e basta, mi faceva presagire che aveva tenuto conto dei miei gusti personali e non solo della moda locale in fatto di auto o sciocchezze simili
«Beh, in realtà è un pick-up. Un Chevy».
Mi si splancarono gli occhi. Un Chevy! Era l'auto che volevo! Era l'auto che volevo! Ero commossa.
«Dove l'hai trovato?» Battei le palpebre per scacciare le lacrime, entusiasta
«Ti ricordi Billy Black, quello che sta a La Push?». La Push è una riserva indiana, situata sulla costa, in cui d'estate andavamo a pescare.
«Certo che mi ricordo di Billy! Facevamo quel gioco con le pozzanghere! La mamma lo avrebbe odiato» ridacchiai
«È finito sulla sedia a rotelle» continuò Carlo, «E non può più guidare, perciò mi ha offerto il pick-up ad un prezzo davvero basso»
«Oh. No, povero Billy!» esclamai. Avrei voluto chiedere immediatamente di che anno era il pick-up, di che colore era, se aveva l'autoradio, ma ero un essere umano sensibile, che ci volete fare? Così cambiai discorso «Come si è fatto male? Che gli è successo?»
«Oh, beh... ha avuto un incidente» disse Carlo, vago «Ha fatto un frontale contro un furgone guidato da un ubriaco, mentre erano con degli amici e stavano andando ad uno di questi... raduni tribali, non so bene come si chiamano... e le gambe gli sono rimaste in mezzo ai rottami accartocciati finché non sono arrivati i soccorsi. Gli si sono schiacciati i nervi e le gambe gli sanguinavano moltissimo, povero Billy»
«Eri fra i soccorritori?»
«Si. Maledizione! Non dovrebbero bere così e poi mettersi alla guida»
«Billy aveva bevuto?»
«No. Billy non stava neppure guidando. Il tizio del furgone aveva bevuto»
«Ah. Mi spiace così tanto!»
«Non preoccuparti».
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, fissando la strada. La gente era stupida, davvero stupida, ed era dalla sofferenza che avevo ottenuto il mio tanto agognato pick-up. Beh, ormai era successo, giusto?
«Guardiamo il lato positivo» Dissi dopo un po' «Almeno così ho la macchina perfetta per me!»
«Perfetta? Davvero?» Carlo mi guardò brevemente, sorridendo «Ti piace?»
«Non l'avevi capito?»
«Sapevo che ti piacevano i macchinoni, ma perfetta...»
«Oh, papà, è il più bel regalo che tu mi potessi fare da appena arrivata! Trovarmi il pick-up perfetto! Ma prima dimmi... quanto mi verrà a costare?» dissi, muovendo pollice ed indice uno contro l'altro
«Bè, cara, più o meno te l'ho già comprato. Ti aspetta a casa»
«Non ce n'era bisogno papà! Dovevamo solo trovarla, mi sarei comprata un'auto con i miei soldi, ho lavorato un sacco per averli!»
«Non m'interessa!» tuonò lui, in tono falso-minaccioso «Voglio solo che TU qui sia FELICE!».
Scoppiai a ridere. Carlo non era molto a suo agio ad esprimere i suoi sentimenti ad alta voce, perciò spesso usava sotterfugi come quello: urlare e far finta di essere arrabbiato quando diceva cose carine lo aiutava a sentirsi meno sdolcinato.
«È un bellissimo pensiero, papà. Grazie. Sei il papà migliore del mondo». Inutile aggiungere che a Forks avevo solo una possibilità: essere felice. Ero lontana da mia madre, nel piccolo posto più bello del mondo. Non c'era bisogno che papà mi comprasse un pick-up, ma di certo era qualcosa che contribuiva.
«Beh, perciò... benvenuta» farfugliò, confuso dai miei ringraziamenti.
Scambiammo qualche veloce commento sul tempo e sulla pioggia e la conversazione, più o meno, finì. Guardavamo in silenzio fuori dai finestrini.
Il panorama era bellissimo, solo una mentecatta avrebbe potuto negarlo. Tutto era verde, gli alberi, i tronchi coperti di muschio, che ne avvolgeva anche i rami come un baldacchino, la terra coperta di felci. Era un'autentica foresta pluviale, persino l'aria, filtrata dalle foglie, sembrava verdastra.
Era come guardare nel cuore pulsante della Madre Terra e immaginavo quante meravigliose avventure avrei potuto passare in quei boschi, quante passeggiate avrei fatto con il mio nuovo gattino. Era un posto magico.
Alla fine giungemmo a casa di Carlo. Viveva ancora nel piccolo stabile con due stanza da letto che aveva comprato assieme a mia madre nei primi giorni di matrimonio. I primi e gli ultimi, peraltro: aveva avuto il buonsenso di non insistere con quella relazione malsana, anche se ormai io c'ero e vabbé, tanti saluti, ormai era legato a Renée per sempre.
Lì, parcheggato nel vialetto di fronte alla casa, rimasta deliziosamente uguale nel tempo, c'era il mio nuovo-vecchio pick-up. Era di un rosso scolorito (Rosso! Rosso! Amavo mio padre), con i paraurti arrotondati e un abitacolo che sembrava un bulbo. Non fui affatto sorpresa di amarlo e prima abbracciai l'auto, poi corsi ad abbracciare papà.
Il pick-up era chiaramente uno di quegli aggeggi di ferro resistenti che non si rompono mai, di quelli che vedi sul luogo di un incidente senza il minimo graffio, in mezzo ai pezzi della macchina straniera che hanno appena distrutto. Mi ci vedevo, signora della strada. Se Billy, il vecchio proprietario dell'auto, avesse guidato quello nel giorno dell'incidente, ora avrebbe avuto tutte e due le gambe funzionanti.
«Sono co-co-ntento che ti piaccia» Balbettò Carlo, di nuovo a disagio, con le orecchie rosse.
Con un solo viaggio riuscimmo a portare tutte le mie cose al piano di sopra. La mia stanza era quella a ovest e dava sul prato di fronte a casa. La camera mi era familiare; appena nata mi avevano messa qui. Il pavimento di legno, le pareti azzurre, il soffitto a punta, le tendine di pizzo ingiallite alla finestra: tutto questo era parte della mia infanzia e toccava la mia anima.
Negli anni, Carlo aveva provveduto soltanto a sostituire il lettino con un letto vero e ad aggiungere una scrivania di legno, con un mucchio di cassetti, che avevo adorato fin dal momento in cui l'avevo vista. L'unica cosa che andava cambiata, lì dentro, erano quelle tendine vecchie e non proprio in linea con il mio senso estetico, ma era un dettaglio minore e ci avrei pensato più tardi.
Sulla scrivania ora c'era un computer di seconda mano e sul pavimento strisciavo il cavetto per il collegamento al moden, connesso alla presa del telefono più vicina. Se mia madre avesse visto quella sistemazione sarebbe impazzita: lei odiava i cavi striscianti e fuori posto, ma aveva comunque intimato a mio padre di comprare un modem per farci avere internet, così che lei potesse tenersi in contatto con noi spedendoci delle e-mail. Erano le sue condizioni e le rispettammo.
Nell'angolo ritrovai la sedia a dondolo di quand'ero bambina e mi immaginai seduta lì, con il mio nuovo gatto in grembo, a dondolare lentamente mentre leggevo un libro di Stefano Benni.
C'era un solo piccolo bagno in cima alle scale, che avrei dovuto condividere con Carlo, qualcuno che sicuramente non lo avrebbe occupato per ore ed ore, il che andava benissimo.
Una delle qualità migliori di mio padre è che si fa gli affari suoi, pur essendo sempre attento a come sto e ad aiutarmi se ho bisogno di lui. Lasciò che disfacessi le valigie e mi sistemassi da sola, impresa che per mia madre sarebbe stata impossibile. Era bello stare per conto mio, senza essere obbligata a far nulla che non volessi, canticchiando a mo' di rockstar in giro per la stanza e lanciando le calze come un giocoliere; un sollievo stare a guardare la pioggia che cadeva sul nostro prato e poter avere gli occhi lucidi di commozione senza dover spiegare a papà che non ero affatto triste.
Ero appena arrivata e tutto era perfetto. Piansi come se fossi uno schiavo egiziano liberato.
Il mattino dopo purtroppo sarebbe stato un po' meno perfetto, perché sarei dovuta andare a scuola e questa non è certamente una delle mie cose preferite. La scuola superiore di Forks, tuttavia, vantava la quota di trecentocinquantasette iscritti più uno, dopo il mio arrivo; a Phoenix la prima classe da sola ne aveva più di settecento, dunque sarebbe stato molto più facile non farsi prendere dal panico o confondere due studenti tra loro perché avevano facce troppo simili. Non sono brava a ricordare le facce.
Tutti i ragazzi qui erano cresciuti assieme, anche i loro nonni si conoscevano fin da bambini. Io sarei stata la ragazza nuova che viene dalla grande città, perché avrebbero dovuto interessarsi a me, che non avevo niente in comune con loro? Sarebbe stato più facile essere lasciata in pace.
Forse non si sarebbero nemmeno accorti che venivo da Phoenix, perché non ne avevo proprio l'aria. Dovrei essere abbronzata, bionda, sportiva – una giocatrice di pallavolo o una cheerleader, per esempio – tutte cose stereotipiche per le signorine che vivono nella "valle del sole". Invece, malgrado le eterne, soffocanti giornate di sole spaccapietre, la mia pelle era chiara, senza nemmeno un paio di occhi blu o una chioma di capelli rossi a giustificarmi. Essendo italiana (almeno dalla parte di papà), avevo i capelli scuri, gli occhi nocciola e non ero affatto snella, né, almeno all'apparenza, atletica. Certo, amavo alcuni sport, ma non li avevo mai praticati a scuola e soprattutto amavo mangiare, quindi ero leggermente rotondetta e di solito le pallavoliste non lo sono, men che mai le cheerleader.
Riposti i vestiti nella vecchia cassettiera di abete, entrai nel bagno comune armata di beauty case, per darmi una ripulita dopo la giornata di viaggio. Mi guardai allo specchio, mentre pettinavo i miei lnghi capelli annodati e umidi. Forse era la luce, ma mi sembrava di essere giallastra, malaticcia. La mia pelle poteva essere anche bella, molto chiara e con qualche rara lentiggine qui e lì, ma tutto dipendeva dal colore. Qui non avevo colori.
Osservando il mio pallido riflesso nello specchio, fui costretta ad ammettere che mi stavo prendendo in giro da sola. Chissenefregava se le cheerleader erano secche e abbronzate e se la mia pelle era chiara?
Sembravo un vampiro, ma non era la fine del mondo, visto che qui probabilmente nessuno era abbronzato. Inoltre l'assenza di colori può essere artistica... basta saper mettere le ombre nei posti giusti. E la mia faccia aveva tutte le ombre e le forme nei posti giusti, quindi era ok.
Finii di sbrogliare i nodi fra i capelli, mi guardai decisa, puntai il dito contro il mio riflesso e dissi
«Tu, domani, sarai felice e perfetta».
Ammetto di aver avuto un po' di ansia all'idea di conoscere tutte queste persone nuove, ma che male avrebbero potuto mai farmi? Certo, ogni tanto mi chiedevo se i miei occhi e quelli del resto del mondo vedessero le stesse cose. Forse non ero proprio neurotipica o forse lo ero, ma mi stava benissimo così. Ero felice, anche se del tutto incapace di socializzare con i ragazzini della mia età.
Più tardi, quando fu ora di dormire e smise di piovere, il cielo si trapuntò di stelle.
Sospirando, mi godetti quella meraviglia fuori dalla mia finestra e fantasticai sulle avventure di un cavallo alato fatto di stelle, che si spostava da un grappolo all'altro di luci, finché non caddi in un sonno profondo.
La mia permanenza a Forks sarebbe stata fantastica, lo si capiva a prima vista.

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