sabato 3 giugno 2017

Sunset 2. A prima vista



2. A prima vista
Io e mia madre viaggiavamo verso l'aeroporto con i finestrini dell'auto abbassati. A Phoenix faceva caldo, il cielo era blu senza neanche una nuvola e la sua luminosità quasi mi feriva gli occhi. Indossavo la mia camicia preferita, senza maniche, di sangallo bianco; la indossavo perché faceva caldo e perché volevo essere dell'umore migliore mentre mi trasferivo in un posto da sogno. Il mio bagaglio a mano era un trolley, coperto dalla mia giacca a vento, stipato di libri e di crocchette per il gatto che certamente avrei adottato quando fossi arrivata nella mia nuova casa.
Nella penisola di Olympia, nel nordovest dello Stato di Washington, nascosta da una perpetua coltre di nuvole, esiste la cittadina di Forks. Per fortuna. Questo piccolo e adorabile posto registra in un anno il più alto numero di giorni piovosi di tutti gli Stati Uniti. Fu da quella città e dalla sua onnipresente pioggia, che mia madre fuggì ingratamente, portandomi con sé quando avevo soltanto pochi mesi. Fu in quella città che passai almeno un mese di vacanza, ogni estate, fino all'età di quattordici anni e lasciatevelo dire, fu fantastico. Mio padre Carlo, che abitava a Forks, era un tipo di poche parole, ma di certo sapeva cosa significa vivere: pesca, campeggio all'aperto, partire di football con i ragazzini giù alla riserva, era stato sempre fantastico!
Ora stavo andando a vivere a Forks, definitivamente, liberandomi dell'ombra nefasta di una madre apparentemente incapace di badare a sé stessa e che, sebbene avesse avuto un matrimonio disastroso, cercasse sempre di insegnarmi cose sulla vita e sull'amore e mi intimasse di non sposarmi anch'io. Puah! Non vedevo l'ora di fuggire da lei e da Phoenix. Detestavo Phoenix, odiavo il suo caldo soffocante, il suo caos, lo smog, il traffico e tutta quella gente che mi fissava e sparlava.
«Bella» Mi ripetè mia madre un'ultima volta, forse la millesima, mentre salivo sull'aereo, «Non sei obbligata».
Mia madre è così, cerca sempre di manipolarmi, anche se è pessima e non si accorge di non avere alcun effetto su di me; siamo completamente diverse, caratterialmente, ma purtroppo ci somigliamo fisicamente, a parte i capelli corti tagliati come un mezzo cocco e le rughe.
Mentre fissavo i suoi occhi grandi, da bambina, mi sentii sollevata. Stavo abbandonando mia madre, quella che non sapeva cucinare e metteva a fuoco la casa, quella che non sapeva badare a sé stessa. Avrei avuto un pizzico di senso di colpa se non ci fosse stato Phil con lei, il suo nuovo ragazzo, che significava bollette pagate, frigo pieno, benzina nel serbatoio e qualcuno a cui chiedere aiuto se si fosse persa. Per mia madre questo era il senso di avere un ragazzo: non sapeva proprio cosa fosse l'amore, voleva solo essere badata come una bambina.
«Ci voglio andare» Ribadii, a denti stretti. Suonavo convincentissima, ma lei scosse la testa e ribattè
«Salutami Charlie. Ti mancherò, vedrai»
«Ceerto»
«Ci vediamo presto» insistette «Puoi tornare quando vuoi. Se hai bisogno di me passo a prenderti».
Capivo dal suo sguardo che dietro la promessa c'era una minaccia, ma feci buon viso a cattivo gioco.
«Non preoccuparti per me» Tagliai corto «Andrà benone. Vado a stare da papà, mica cotiche!».
Mi abbracciò stretta per un minuto intero, chiaramente cercando di manipolarmi con i gesti d'affetto (di cui non era mai stata prodiga, eh), poi salii sull'aereo, e lei non c'era più.
Per arrivare a Seattle da Phoenix ci vogliono quattro ore, più un'altra su un piccolo aereo per raggiungere Port Angeles; Forks è ad un'ora d'auto da lì. Non mi disturba volare, per fortuna, ma non vedevo di essere giù da quel gigantesco trabiccolo alato per poter fare il mio viaggio in auto con papà. Carlo, mio padre, si era comportato davvero bene dal primo all'ultimo istante in quella faccenda, sembrava fargli sinceramente piacere che andassi a vivere da lui con l'intenzione di rimanerci per un po'. Mi aveva iscritta a scuola, l'unica scuola di Forks ovviamente, e mi avrebbe dato una mano a cercare un'automobile tutta per me. Ero elettrizzata! Una macchina tutta mia! A costo di avere un vecchio macinino, sarebbe stata una cosa grandiosa.
Ero sicura che tra di noi non ci sarebbe stato alcun imbarazzo: nessuno dei due era quel che si dice un tipo logorroico, ma sapevamo cosa dire al momento giusto e questo ci permetteva di non farci gli affari dell'altro, conveniente se dovevamo convivere. Sapevo che per lui questa decisione era logica e significava molto: avevo sempre amato Forks ed entrambi non vedevamo l'ora di fuggire dalle grinfie dei luoghi affollati ed afosi dove si rischiava di prendere cancri solo respirando il fumo delle marmitte.
Quando atterrai a Port Angeles, pioveva. Non lo interpretai come un presagio: era l'inevitabile natura delle cose. Il mondo profumava di erba e di asfalto bagnati e aveva un'aria pulita, solenne, cinematografica.
Carlo mi aspettava sull'auto della polizia. Anche questo era inevitabile. Per la brava gente di Forks, Carlo è l'ispettore capo Cigna, l'irreprensibile, ma affascinante, italiano poliziotto.
Il motivo principale per cui desideravo una macchina tutta mia, malgrado i miei pochi risparmi, era che possedevamo solo un'auto ed era quella lì, perciò non avrei potuto andare dove volevo e papà con quella ci lavorava.
Carlo mi accolse stringendomi goffamente con un braccio, quando, inciampando, scesi dall'aereo.
«È un piacere rivederti, Bells» Mi disse sorridendo, mentre mi afferrava le spalle per guardarmi in volto «Non sei cambiata molto. Renée come sta?»
«Sta bene» tagliai corto «È bello rivederti, papà». Mamma avrebbe voluto che lo chiamassi "Carlo" e che invece chiamassi papà il suo nuovo fidanzato Phil. Puah.
Avevo poche valigie. La maggior parte dei vestiti che portavo in Arizona erano troppo leggeri per Washington, così sarebbe stato fichissimo andare a fare shopping con papà, che non mi diceva di provarmi questo o quello e non mi costringeva a comprare quello che piaceva a lui.
Caricammo le poche valigie nel bagagliaio e montammo sull'auto.
«Ho trovato una buona macchina per te, un affarone» Mi annunciò lui, una volta allacciate le cinture
«Che genere di macchina?» Il modo in cui aveva detto buona macchina per te anziché buona macchina e basta, mi faceva presagire che aveva tenuto conto dei miei gusti personali e non solo della moda locale in fatto di auto o sciocchezze simili
«Beh, in realtà è un pick-up. Un Chevy».
Mi si splancarono gli occhi. Un Chevy! Era l'auto che volevo! Era l'auto che volevo! Ero commossa.
«Dove l'hai trovato?» Battei le palpebre per scacciare le lacrime, entusiasta
«Ti ricordi Billy Black, quello che sta a La Push?». La Push è una riserva indiana, situata sulla costa, in cui d'estate andavamo a pescare.
«Certo che mi ricordo di Billy! Facevamo quel gioco con le pozzanghere! La mamma lo avrebbe odiato» ridacchiai
«È finito sulla sedia a rotelle» continuò Carlo, «E non può più guidare, perciò mi ha offerto il pick-up ad un prezzo davvero basso»
«Oh. No, povero Billy!» esclamai. Avrei voluto chiedere immediatamente di che anno era il pick-up, di che colore era, se aveva l'autoradio, ma ero un essere umano sensibile, che ci volete fare? Così cambiai discorso «Come si è fatto male? Che gli è successo?»
«Oh, beh... ha avuto un incidente» disse Carlo, vago «Ha fatto un frontale contro un furgone guidato da un ubriaco, mentre erano con degli amici e stavano andando ad uno di questi... raduni tribali, non so bene come si chiamano... e le gambe gli sono rimaste in mezzo ai rottami accartocciati finché non sono arrivati i soccorsi. Gli si sono schiacciati i nervi e le gambe gli sanguinavano moltissimo, povero Billy»
«Eri fra i soccorritori?»
«Si. Maledizione! Non dovrebbero bere così e poi mettersi alla guida»
«Billy aveva bevuto?»
«No. Billy non stava neppure guidando. Il tizio del furgone aveva bevuto»
«Ah. Mi spiace così tanto!»
«Non preoccuparti».
Rimanemmo in silenzio per qualche minuto, fissando la strada. La gente era stupida, davvero stupida, ed era dalla sofferenza che avevo ottenuto il mio tanto agognato pick-up. Beh, ormai era successo, giusto?
«Guardiamo il lato positivo» Dissi dopo un po' «Almeno così ho la macchina perfetta per me!»
«Perfetta? Davvero?» Carlo mi guardò brevemente, sorridendo «Ti piace?»
«Non l'avevi capito?»
«Sapevo che ti piacevano i macchinoni, ma perfetta...»
«Oh, papà, è il più bel regalo che tu mi potessi fare da appena arrivata! Trovarmi il pick-up perfetto! Ma prima dimmi... quanto mi verrà a costare?» dissi, muovendo pollice ed indice uno contro l'altro
«Bè, cara, più o meno te l'ho già comprato. Ti aspetta a casa»
«Non ce n'era bisogno papà! Dovevamo solo trovarla, mi sarei comprata un'auto con i miei soldi, ho lavorato un sacco per averli!»
«Non m'interessa!» tuonò lui, in tono falso-minaccioso «Voglio solo che TU qui sia FELICE!».
Scoppiai a ridere. Carlo non era molto a suo agio ad esprimere i suoi sentimenti ad alta voce, perciò spesso usava sotterfugi come quello: urlare e far finta di essere arrabbiato quando diceva cose carine lo aiutava a sentirsi meno sdolcinato.
«È un bellissimo pensiero, papà. Grazie. Sei il papà migliore del mondo». Inutile aggiungere che a Forks avevo solo una possibilità: essere felice. Ero lontana da mia madre, nel piccolo posto più bello del mondo. Non c'era bisogno che papà mi comprasse un pick-up, ma di certo era qualcosa che contribuiva.
«Beh, perciò... benvenuta» farfugliò, confuso dai miei ringraziamenti.
Scambiammo qualche veloce commento sul tempo e sulla pioggia e la conversazione, più o meno, finì. Guardavamo in silenzio fuori dai finestrini.
Il panorama era bellissimo, solo una mentecatta avrebbe potuto negarlo. Tutto era verde, gli alberi, i tronchi coperti di muschio, che ne avvolgeva anche i rami come un baldacchino, la terra coperta di felci. Era un'autentica foresta pluviale, persino l'aria, filtrata dalle foglie, sembrava verdastra.
Era come guardare nel cuore pulsante della Madre Terra e immaginavo quante meravigliose avventure avrei potuto passare in quei boschi, quante passeggiate avrei fatto con il mio nuovo gattino. Era un posto magico.
Alla fine giungemmo a casa di Carlo. Viveva ancora nel piccolo stabile con due stanza da letto che aveva comprato assieme a mia madre nei primi giorni di matrimonio. I primi e gli ultimi, peraltro: aveva avuto il buonsenso di non insistere con quella relazione malsana, anche se ormai io c'ero e vabbé, tanti saluti, ormai era legato a Renée per sempre.
Lì, parcheggato nel vialetto di fronte alla casa, rimasta deliziosamente uguale nel tempo, c'era il mio nuovo-vecchio pick-up. Era di un rosso scolorito (Rosso! Rosso! Amavo mio padre), con i paraurti arrotondati e un abitacolo che sembrava un bulbo. Non fui affatto sorpresa di amarlo e prima abbracciai l'auto, poi corsi ad abbracciare papà.
Il pick-up era chiaramente uno di quegli aggeggi di ferro resistenti che non si rompono mai, di quelli che vedi sul luogo di un incidente senza il minimo graffio, in mezzo ai pezzi della macchina straniera che hanno appena distrutto. Mi ci vedevo, signora della strada. Se Billy, il vecchio proprietario dell'auto, avesse guidato quello nel giorno dell'incidente, ora avrebbe avuto tutte e due le gambe funzionanti.
«Sono co-co-ntento che ti piaccia» Balbettò Carlo, di nuovo a disagio, con le orecchie rosse.
Con un solo viaggio riuscimmo a portare tutte le mie cose al piano di sopra. La mia stanza era quella a ovest e dava sul prato di fronte a casa. La camera mi era familiare; appena nata mi avevano messa qui. Il pavimento di legno, le pareti azzurre, il soffitto a punta, le tendine di pizzo ingiallite alla finestra: tutto questo era parte della mia infanzia e toccava la mia anima.
Negli anni, Carlo aveva provveduto soltanto a sostituire il lettino con un letto vero e ad aggiungere una scrivania di legno, con un mucchio di cassetti, che avevo adorato fin dal momento in cui l'avevo vista. L'unica cosa che andava cambiata, lì dentro, erano quelle tendine vecchie e non proprio in linea con il mio senso estetico, ma era un dettaglio minore e ci avrei pensato più tardi.
Sulla scrivania ora c'era un computer di seconda mano e sul pavimento strisciavo il cavetto per il collegamento al moden, connesso alla presa del telefono più vicina. Se mia madre avesse visto quella sistemazione sarebbe impazzita: lei odiava i cavi striscianti e fuori posto, ma aveva comunque intimato a mio padre di comprare un modem per farci avere internet, così che lei potesse tenersi in contatto con noi spedendoci delle e-mail. Erano le sue condizioni e le rispettammo.
Nell'angolo ritrovai la sedia a dondolo di quand'ero bambina e mi immaginai seduta lì, con il mio nuovo gatto in grembo, a dondolare lentamente mentre leggevo un libro di Stefano Benni.
C'era un solo piccolo bagno in cima alle scale, che avrei dovuto condividere con Carlo, qualcuno che sicuramente non lo avrebbe occupato per ore ed ore, il che andava benissimo.
Una delle qualità migliori di mio padre è che si fa gli affari suoi, pur essendo sempre attento a come sto e ad aiutarmi se ho bisogno di lui. Lasciò che disfacessi le valigie e mi sistemassi da sola, impresa che per mia madre sarebbe stata impossibile. Era bello stare per conto mio, senza essere obbligata a far nulla che non volessi, canticchiando a mo' di rockstar in giro per la stanza e lanciando le calze come un giocoliere; un sollievo stare a guardare la pioggia che cadeva sul nostro prato e poter avere gli occhi lucidi di commozione senza dover spiegare a papà che non ero affatto triste.
Ero appena arrivata e tutto era perfetto. Piansi come se fossi uno schiavo egiziano liberato.
Il mattino dopo purtroppo sarebbe stato un po' meno perfetto, perché sarei dovuta andare a scuola e questa non è certamente una delle mie cose preferite. La scuola superiore di Forks, tuttavia, vantava la quota di trecentocinquantasette iscritti più uno, dopo il mio arrivo; a Phoenix la prima classe da sola ne aveva più di settecento, dunque sarebbe stato molto più facile non farsi prendere dal panico o confondere due studenti tra loro perché avevano facce troppo simili. Non sono brava a ricordare le facce.
Tutti i ragazzi qui erano cresciuti assieme, anche i loro nonni si conoscevano fin da bambini. Io sarei stata la ragazza nuova che viene dalla grande città, perché avrebbero dovuto interessarsi a me, che non avevo niente in comune con loro? Sarebbe stato più facile essere lasciata in pace.
Forse non si sarebbero nemmeno accorti che venivo da Phoenix, perché non ne avevo proprio l'aria. Dovrei essere abbronzata, bionda, sportiva – una giocatrice di pallavolo o una cheerleader, per esempio – tutte cose stereotipiche per le signorine che vivono nella "valle del sole". Invece, malgrado le eterne, soffocanti giornate di sole spaccapietre, la mia pelle era chiara, senza nemmeno un paio di occhi blu o una chioma di capelli rossi a giustificarmi. Essendo italiana (almeno dalla parte di papà), avevo i capelli scuri, gli occhi nocciola e non ero affatto snella, né, almeno all'apparenza, atletica. Certo, amavo alcuni sport, ma non li avevo mai praticati a scuola e soprattutto amavo mangiare, quindi ero leggermente rotondetta e di solito le pallavoliste non lo sono, men che mai le cheerleader.
Riposti i vestiti nella vecchia cassettiera di abete, entrai nel bagno comune armata di beauty case, per darmi una ripulita dopo la giornata di viaggio. Mi guardai allo specchio, mentre pettinavo i miei lnghi capelli annodati e umidi. Forse era la luce, ma mi sembrava di essere giallastra, malaticcia. La mia pelle poteva essere anche bella, molto chiara e con qualche rara lentiggine qui e lì, ma tutto dipendeva dal colore. Qui non avevo colori.
Osservando il mio pallido riflesso nello specchio, fui costretta ad ammettere che mi stavo prendendo in giro da sola. Chissenefregava se le cheerleader erano secche e abbronzate e se la mia pelle era chiara?
Sembravo un vampiro, ma non era la fine del mondo, visto che qui probabilmente nessuno era abbronzato. Inoltre l'assenza di colori può essere artistica... basta saper mettere le ombre nei posti giusti. E la mia faccia aveva tutte le ombre e le forme nei posti giusti, quindi era ok.
Finii di sbrogliare i nodi fra i capelli, mi guardai decisa, puntai il dito contro il mio riflesso e dissi
«Tu, domani, sarai felice e perfetta».
Ammetto di aver avuto un po' di ansia all'idea di conoscere tutte queste persone nuove, ma che male avrebbero potuto mai farmi? Certo, ogni tanto mi chiedevo se i miei occhi e quelli del resto del mondo vedessero le stesse cose. Forse non ero proprio neurotipica o forse lo ero, ma mi stava benissimo così. Ero felice, anche se del tutto incapace di socializzare con i ragazzini della mia età.
Più tardi, quando fu ora di dormire e smise di piovere, il cielo si trapuntò di stelle.
Sospirando, mi godetti quella meraviglia fuori dalla mia finestra e fantasticai sulle avventure di un cavallo alato fatto di stelle, che si spostava da un grappolo all'altro di luci, finché non caddi in un sonno profondo.
La mia permanenza a Forks sarebbe stata fantastica, lo si capiva a prima vista.

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