Quando fui in grado di
camminare, imboccai a passi lenti il corridoio che portava all'uscita,
inalando l'odore di disinfettanti e di sudore che aleggiava nella
corsia. I neon scorrevano sulla mia testa e, benché fosse pieno giorno,
immaginai come sarebbe stato inquietante quel luogo di notte... mi
ricordò un videogioco horror. Edward avrebbe potuto benissimo essere uno
zombie mangia-cervelli, pronto a sbucare da dietro un angolo per
assalirmi.
La sala d'attesa era
più gradevole di quanto avessi osato sperare: sembrava che chiunque
avessi mai intravisto a Forks fosse venuto lì per vedere come stava
Edward e per incontrare l'eroina del giorno. E magari anche per sapere
come stava l'eroina del giorno, che aveva battuto la testa, ma questi
sono dettagli...
Carlo mi corse incontro, le scarpe lucide che ticchettavano sul pavimento come le unghie di un grosso cane. Alzai le mani.
«Non mi sono fatta
niente» Gli dissi immediatamente, per rassicurarlo. Non ero dell'umore
giusto per le chiacchiere e non era sicuramente colpa di papà, ma non
volevo dovergli dire che era tutto ok dopo che lo avevo dovuto già
ripetere a tutti (compreso a lui) così tante volte.
«Cos'ha detto il dottore?»
«Il dottor Cullen, che
per la cronaca sembra un fotomodello, mi ha visitata, ha detto che sto
bene e che posso tornare a casa». Sospirai.
Mike, Jessica ed Eric
erano tutti lì e si stavano avvicinando: avrei dovuto ritardare la fuga
nel mio nido sicuro spendendo una parola anche con loro. Sarebbe stato
gentile, solo una cafona gli avrebbe fatto fare tutta quella strada e
poi sarebbe fuggita con suo padre come se i suoi amici contassero meno
che nulla.
Eric parlò per primo, velocemente
«Salve, ispettore
Cigna! Ciao Belarda! Come stai? Abbiamo visto che cosa è successo ed è
stato veramente incredibile e siamo preoccupatissimi per te e...»
«Sto fantasticamente» risposi, mostrando i palmi delle mani «Davvero, è Edward Cullen il malatino della giornata, non io»
«Chissenefrega di lui»
interloquì Jessica, che quel giorno portava un cerchietto decorato a
foglioline per tenere vagamente a posto la massa di capelli ribelli
«Siamo venuti qui per la nostra amica»
«Io c'ero» si intromise
Mike, radiante «L'ho visto da lontano. Hai salvato la vita a Cullen. Ce
lo devi raccontare più nel dettaglio!»
«Si, è vero!» squittì Jessica «Tutta la scuola ne parla! Hai salvato la vita di Cullen! Vogliamo sapere tutto! Tutto!».
Iniziarono tutti quanti
ad agitare le braccia e lanciarmi occhiate piene di ammirazione e
rispetto e papà parve molto compiaciuto dalla cosa. Io arrossii più di
quanto avrei voluto e cercai di farmi schermo con i capelli, di
rimpicciolirmi ed indietreggiare, ma fu del tutto inutile... così
iniziai a raccontare quello che era successo.
Era paradossale quanto
mi stancasse dover raccontare i particolari in quel momento, mi sentivo
imbarazzata e svuotata; in un altro istante avrei descritto tutto il
salvataggio nel dettaglio, ma sotto i neon della sala d'aspetto, con i
miei amici che mi guardavano con gli occhi sgranati, e con l'impressione
di stare ingigantendo l'intera faccenda del "gli ho salvato la vita",
ero davvero a disagio.
Per fortuna papà capì che stavo iniziando a stancarmi e mi prese per un braccio, delicatamente
«Belarda adesso deve riposare, ragazzi» disse ad alta voce, con un tono che non ammetteva repliche «La porto a casa»
«Si, signor Cigna» dissero in coro Eric e Jessica, mentre Mike si limitava ad annuire, con gli occhi socchiusi.
Papà mi lasciò, poi mi
mise un braccio attorno alle spalle, senza toccarmi davvero, e mi guidò
verso le porte a vetri dell'uscita.
Io salutai con un gesto
vagamente imbarazzato i miei amici, sperando di suggerirgli che non era
colpa loro se me ne stavo andando così. Salire sull'auto della polizia
fu davvero un sollievo, perché mi accorsi di avere anche le gambe
stanche.
Restammo in silenzio.
Di colpo fui presa dai miei pensieri, così tanto che a malapena mi
accorgevo della presenza di papà. Ero sicura che il comportamento di
Edward "capelli-pazzi" Cullen in ospedale, così sulla difensiva, fosse
una conferma delle cose bizzarre che ancora non riuscivo a credere di
aver visto.
Alla fine giungemmo a casa. Carlo parlò.
«Ehm... forse è il caso che tu chiami Renée». Chinò la testa, con aria colpevole, e lasciò ciondolare le braccia.
Rimasi sgomenta.
«L'hai detto alla mamma? Hai detto alla mamma che ho quasi rischiato la morte in un incidente stradale?»
«Scusami» borbottò lui
«No, dovrai fare di meglio»
«Che cosa posso fare di
meglio» si strinse nelle spalle, imbarazzatissimo «Sono andato nel
panico, Belarda. Non sapevo che fare e ho chiamato tua madre»
«Allora, se questo accordo non era tacito e implicito» sbottai «Lo diciamo ad alta voce adesso: alla mamma non si dice niente. Mi
taglio per sbaglio un braccio? Alla mamma non si dice niente. Tu cadi
sulla neve e ti fratturi il cranio? Io non telefono a mamma per
dirglielo. Finiamo insieme in un canyon, senza acqua né cibo? Chiamiamo i
soccorsi, ma non la mamma. Intesi?».
Mio padre alzò lo
sguardo verso di me e batté le palpebre. Era paonazzo e potevo credere
che stesse anche tremando un po' per il nervosismo.
«Va bene» Cedette, dopo
un lungo silenzio «Non diciamo niente alla mamma. Ma ora gliel'ho
detto, questo, e dovrai telefonarle... altrimenti lei verrà qui...».
Lui la amava ancora.
Contro ogni buonsenso possibile, visto che lei lo aveva abbandonato in
questo modo, lui desiderava ancora vederla ed ecco perché aveva fatto
quel gesto. Ecco perché, senza volerlo, mi aveva tradita.
Scesi dall'auto, con l'intenzione di sbattere la portiera con più foga del necessario, ma senza il coraggio di farlo.
Telefonai. Ovviamente
mia madre era in piena crisi isterica, di cui vi risparmierò i dettagli.
Mi toccò ripeterle che stavo bene almeno trenta volte, prima che si
calmasse. E non è un'iperbole, furono davvero almeno trenta volte. Mi
implorò di tornare a casa (dimenticandosi che al momento casa nostra era
disabitata), ma resistere a quelle suppliche sdolcinate fu facile come
ingoiare per sbaglio una piccola gomma da masticare: un gioco da bimbi.
Non ero impaziente di
fuggire da Forks perché ero una persona sana, equilibrata, felice. Chi
mai avrebbe voluto scappare da un paradiso verde con l'aria pura, la
gente amichevole e soprattutto dove era stata appena dichiarata eroina
locale?
Quella sera, stanca, decisi di andare a letto presto.
Papà continuava ad
osservarmi con aria ansiosa, come se dovessi avere un attacco di
convulsioni da un momento all'altro, il che mi dava sui nervi. Prima di
entrare in camera passai dal bagno e mi lavai i denti due volte, perché
avevo un saporaccio sulla lingua che non riuscivo ad identificare in
pieno, una sorta di felpatura muffosa e metallica. Sperai che non fosse
il sintomo di una commozione cerebrale.
Ritornata in camera,
vidi Dracula seduto sul copriletto, che muoveva pigramente la punta
della coda e mi fissava. I suoi occhi, rossi e arancio, brillavano nel
buio, riflettendo la luce del lampione piantato non troppo lontano dalla
finestra.
«Che c'è?» Gli domandai, andando a sedermi accanto a lui «Hai visto un fantasma?».
Il micio mi saltò in
grembo, emettendo un suono trillante, e cadde sdraiato. Ero pronta a
iniziare a carezzargli la testa, quando lui prese a farmi la pasta
contro la coscia, muovendo le zampette con gli artigli sguainati e
punzecchiandomi dolorosamente.
«Ahi... Dracula... ahi... smettila!».
Lo afferrai per le
ascelle e lo sollevai. Il gatto girò la testa e ci guardammo negli
occhi, per un istante. Aveva due occhi bellissimi, perfetti, altro che
quelli di Edward Cullen.
Misi giù il micino e andai a riempirgli la ciotola di croccantini, poi mi misi a letto.
Quella notte, per la prima volta, sognai Edward Cullen.
Nel sogno, il mio
nome era Isabella Swan, non Belarda Cigna, ed ero così imbranata che
quando il furgoncino mi veniva incontro ero immobilizzata e rischiavo di
essere spiaccicata. Non provavo neanche a mettermi in salvo, perciò
Edward Cullen arrivava ad una velocità sovrannaturale e si frapponeva
fra me e il furgoncino. Due mani affusolate e bianche mi si pararono di
fronte per proteggermi, e il furgone si arrestò di colpo ad una spanna
dal mio volto. Le grandi mani erano affondate nella carrozzeria, dentro
una provvidenziale, profonda ammaccatura del furgone.
Poi agirono così
velocemente da diventare invisibili: una fece presa in un istante sotto
il furgoncino, e qualcosa mi trascinò, inerme con una bambola, girandomi
per le gambe e facendomele sbattere contro una ruota dell'auto scura
che nella vita reale avevo usato come scudo.
Fui assordata da un
lancinante rumore metallico, e il furgoncino, con il vetro sbriciolato,
si piantò sull'asfalto, nell'esatto punto in cui, un istante prima, si
trovavano le mie gambe.
Per un interminabile istante il silenzio fu assoluto, poi iniziarono le urla.
«Bella! Bella!»
«Oddio, quella era Bella Swan?»
«Bella!».
Nitida in mezzo al frastuono, vicina al mio orecchio, udii la voce bassa e affannata di Edward Cullen.
«Bella, tutto a posto?».
Mi svegliai di
soprassalto. Che razza di sogno bislacco e irritante, dove Edward aveva
una forza ed una velocità sovrannaturali e io ero una deficiente!
Dracula mi guardava, in piedi sul fondo del letto, allarmato.
«Va tutto bene» Lo confortai, appoggiando la testa al cuscino «Ho fatto solo un sogno scemo perché oggi ho avuto uno shock».
Ritornai a dormire. E feci un secondo sogno, ancora peggiore del primo. Ancora più assurdo.
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aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su
wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere
direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui
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