martedì 24 ottobre 2017

Sunset 9. Ratto in una gabbia senza valore




Nel sogno era buio pesto, e l'unica luce fioca sembrava irradiarsi dalla pelle di Edward, che come al solito non era un ragazzo, era una lampadina. Il volto non lo vedevo, mi dava le spalle e si allontanava da me, lasciandomi nell'oscurità. Bella gratitudine, bella gentilezza quell'infingardo! Per quanto lo chiamassi, e lo insultassi, urlando lui non si voltava.

Cercavo di inseguirlo, ma lui correva via, cantando una canzoncina ripetitiva, ossessiva, dalla melodia che non ricordo esattamente, ma che faceva così:

"Un bacio può a volte essere
Come un'imperatrice
che cerca la vita
su altri pianeti"

 Mi svegliai nel cuore della notte, non per via del sogno, ma perché proprio mentre stavo per afferrare per i capelli Edward e buttarlo per terra per ricordargli come lo avevo salvato e poi riempirlo di pugni, per ricordargli come non lo avrei più...


Mi svegliai nel cuore della notte, non per via del sogno, ma perché proprio mentre stavo per afferrare per i capelli Edward e buttarlo per terra per ricordargli come lo avevo salvato e poi riempirlo di pugni, per ricordargli come non lo avrei più salvato, un miagolio insistente ed una zampina vellutata sul naso mi riportarono nel mondo reale.

Dopo quella volta, per un mucchio di altre notti fui svegliata dall'insistenza di Dracula, che però sembrava non desiderare niente: non gli interessava né l'acqua, né il cibo, né il gioco, ma solo svegliarmi nel cuore della notte, allarmato come se avesse visto un lupo mannaro. Era una cosa molto curiosa e che mi inquietò non poco, perché non è proprio normale che i gatti si spaventino tutte le notti alla stessa ora. C'era un fantasma nella mia camera? O qualcosa di molto più terreno?

Comprai online una webcam ad infrarossi, anche se il modem fece di tutto per impedirmelo con la sua lentezza, e aspettai con pazienza che il pacco mi venisse recapitato, cosa che sarebbe avvenuta solo dopo un mese dalla volta che avevo sognato Edward.

Ma ritorniamo indietro.

Durante la settimana successiva all'incidente del furgoncino, mi ritrovai al centro dell'attenzione. Tyler Crowley era insopportabile, mi seguiva ovunque, ossessionato dal desiderio di farsi perdonare. Cercai di convincerlo che la cosa migliore che potesse fare per me era dimenticare tutto, specialmente perché ero rimasta illesa, ma lui non si dava per vinto. Mi seguiva tra una lezione e l'altra, a pranzo si sedeva al mio stesso tavolo, ormai sempre affollato. Mike ed Eric, che tra loro andavano tutt'altro che d'amore e d'accordo, con lui erano ancor meno amichevoli, il che mi fece temere di essermi conquistata un altro pretendente indesiderato, neanche fossi la protagonista di un manga harem ambientato a Forks.

Nessuno sembrava interessarsi ad Edward, seppure anche lui fosse stato fra le vittime dell'incidente, ma d'altronde lui era fuori di testa e solitario, quindi era del tutto normale... tuttavia mi chiedevo come mai nessuno avesse notato quanto stesse lontano, prima dello scatto repentino e impossibile che aveva messo a repentaglio la sua vita. Nessuna folla di curiosi avvicinò mai Edward per chiedergli particolari di prima mano dell'incidente e del salvataggio, la gente lo evitava come sempre. I Cullen e gli Hale si sedevano al solito tavolo, senza mangiare, e parlavano soltanto fra loro così a bassa voce che non potevamo sentirli oppure, a volte, guardavano le pareti. Non mi rivolsero più un solo sguardo, specialmente Edward, che quando si sedeva accanto a me, in classe, non sembrava neanche notare la mia presenza e dava l'impressione di volersi gettare fuori dalla finestra per quanto stava lontano. Ogni tanto mi capitava di vederlo stringere i pugni e mi chiedevo come mai fosse tanto spaventato dall'idea che volessi aiutarlo o parlargli ancora: aveva un ego chiaramente fragile, ma non credevo a questi livelli!

Sentivo il desiderio di chiarire con lui questa situazione, se non altro per evitare che si buttasse sotto la prossima macchina, e poiché nessuno parlava mai con lui dovevo essere io a salvarlo ancora una volta.

L'ultima volta che lo avevo visto, appena fuori dal pronto soccorso, eravamo entrambi infuriati come tori chiusi in stanze rosse decorate da disegni di matador; il suo rifiuto di fornirmi spiegazioni mi dava ancora sui nervi, benché avessi mantenuto il mio impegno senza battere ciglio.

Entrando nell'aula di biologia lo trovai già seduto, con lo sguardi dritto di fronte a sé, a fare la sua cosa preferita: analizzare la pittura bianca del muro. Probabilmente, quando non era impegnato a tenere il broncio o a dire cose che non stavano né in cielo né in terra faceva l'imbianchino per passione.

Non diede segno di accorgersi della mia presenza, ma d'altronde chi sono io al cospetto della vernice bianca?

«Ciao, Edward» Dissi gentile, per dimostrargli in che disposizione d'animo fossi.

In risposta fece un cenno millimetrico verso di me (sia mai che la mia presenza gli faccia staccare gli occhi dalla sua adorata parete), senza incontrare il mio sguardo.

Quello fu l'ultimo contatto fra noi, malgrado ogni giorno ci ritrovassimo a poche spanne di distanza. A volte lo osservavo da lontano, a mensa o nel parcheggio, e vedevo i suoi occhi diventare sempre più scuri con il passare dei giorni. Mi preoccupava e avevo il sentore di essere l'unica a conoscere il segreto del suo male interiore: era ovvio che Edward fosse non solo bizzarro, ma che, purtroppo, depresso.

Malgrado le mie bugie sfacciate, il tono delle e-mail che spedivo a mamma la fece insospettire e pensò che mi stessi intristendo per qualche motivo, perciò mi chiamò un paio di volte. Cercai di convincerla che ero giù solo a causa del tempo (anche se non ero giù) e che non c'era niente sotto la mia preoccupazione.

Se non altro, Mike fu contento dell'improvvisa freddezza tra me e il mio compagno di laboratorio e non potei neppure dargli torto, perché era chiaro che Edward non era di certo la migliore delle compagnie da frequentare e che, poco alla volta, mi stava rendendo pensierosa. Mike si fece sempre più sfacciato, prima dell'inizio delle lezioni si sedeva sul bordo del banco a parlare con me, ignorando Edward come lui ignorava noi due.

Dopo il pericoloso giorno della gelata, la neve sparì definitivamente. A Mike dispiaceva non essere riuscito ad allestire la grande battaglia a cui aveva pensato, ma era felice che finalmente si potesse organizzare la gita in spiaggia. Eppure, non smetteva di piovere, e le settimane passavano.

Jessica mi ricordò, con il suo solito zelo e brio, che all'orizzonte c'era un altro evento che incombeva su di me: il primo martedì di marzo mi telefonò per chiedermi il permesso di invitare Mike al ballo di primavera, che si sarebbe tenuto due settimane dopo.

«Sei sicura che non sia un problema... non pensavi di invitarlo tu?» insistette, nonostante le avessi già detto che non ne avevo la minima intenzione

«No, Jess, io non ci vengo proprio al ballo» la rassicurai «Ballare va aldilà delle mie capacità sovrannaturali»

«Ci sarà da divertirsi, dai, vieni!» esclamò lei

«Ma come? Non vuoi invitare tu Mike al ballo?» la stuzzicai

«Ma si, ma puoi invitare Eric»

«Eric te lo inviti tu» le risposi «Che io non so ballare, lui non sa ballare e ci pestiamo i piedi e basta»

«Ma dai!»

«Ma dai niente. Se ci venivo invitavo Mike, ma non ci vengo, quindi te lo puoi invitare tu»

«E se...» disse, scarsamente entusiasta ma decisa a provarle tutte «Entrambe invitassimo Mike?»

«Vuoi costringerlo a scegliere?»

«No. Andiamo con Mike tutte e due al ballo. Dopotutto non è mica un'occasione formale o chissà che, ci andiamo solo a ballare e lui sarebbe contento, penso»

«Ah, Jess Jess...» dissi, in tono saggio «Sai cosa si dice dalle mie parti di situazioni come questa?»

«No, che cosa si dice?»

«Che un uomo tra due dame fa la figura del salame! E poi, in ogni caso, io non voglio venire al ballo. Vai tu con lui. Ti divertirai con Mike» cercai di incoraggiarla.

Il giorno dopo, durante trigonometria e spagnolo, mi accorsi con sorpresa che Jessica non era frizzante come al solito: non disegnava pupazzetti sui bordi dei quaderni, non mordicchiava le matite con lo stesso entusiasmo, non saltellava per nulla quando camminava. Tra una lezione e l'altra, mi camminava al fianco in silenzio e io esitavo a chiederle il perché, anche se sapevo che forse una buona amica l'avrebbe fatto; ammesso che Mike avesse rifiutato il suo invito, io non avrei saputo come consolarla e quindi era forse il momento di stare zitta e basta.

I miei timori si rafforzarono a pranzo, quando Jessica si sedette il più lontano possibile da Mike e prese a chiacchierare vivacemente con Eric. Anche Mike restò stranamente in silenzio, facendo quello che di solito facevano gli studenti pensierosi e annoiati: guardare il tavolo dei Cullen.

Il silenzio continuò anche lungo il tragitto che ci portava entrambi all'aula di biologia e l'aria incerta nei suoi occhi era un cattivo segno, ma non affrontò l'argomento finché non mi accomodai al mio posto.

Lui si appollaiò sul banco, mettendosi a posto il colletto della camicia.

Come al solito, Edward non si faceva sentire, stava lì seduto così vicino da poterlo toccare, ma anche tanto lontano da apparire un prodotto della mia immaginazione.

«Insomma...» Disse Mike, guardando il pavimento «Jessica mi ha invitato al ballo di primavera»

«Lo so» risposi «E te la passerai alla grande con lei»

«Beh» balbettò, studiando il mio sorriso, evidentemente scontento della mia reazione «Io le ho detto che volevo pensarci»

«E perché l'avresti fatto?».

Lasciai trapelare il mio disappunto, ma ero così contenta che non gli avesse rifilato un "no" definitivo! Lui tornò a fissare il pavimento e arrossì un po', sulle punte delle guance, come se qualcuno ci avesse passato sopra un pennellino a punta fine intinto nel rosa. La pena che mi faceva mi tolse un po' di determinazione.

«Mi chiedevo se... beh, se non avessi intenzione di invitarmi tu».

Rimasi in silenzio un istante, con il senso di colpa che mi investiva. Con la coda dell'occhio notai la testa di Edward voltarsi verso di me.

Sapevo che non avevo niente da rimproverarmi e sapevo anche che lo avrei invitato, se fossi andata al ballo, ma non avevo alcuna intenzione di andare a ballare, avevo programmi molto più importanti.

«Mike, credo che dovresti accettare l'invito di Jessica» Dissi, seriamente«L'hai già chiesto a qualcun altro?».

Chissà se Edward, così distratto com'era, si era accorto che Mike stava guardando proprio lui.

«No, figuriamoci! Non ci vengo proprio, al ballo»

«Perché no?» chiese Mike

«Perché no? Perché non so ballare, Mike!» esclamai «È come se io ti chiedessi come mai non vai a fare il capitano di regata, così, di punto in bianco, settimana prossima»

«Ballare non è così difficile» rispose, iniziando a sorridere un po'

«A no? Per te, che sei un angioletto della tap dance caduto dal cielo di Ginger Roger» risposi, ridacchiando fra me e me «Ma, davvero, non voglio ballare. E poi mi fanno schifo i balli scolastici, ma proprio ribrezzo» alzai un braccio, mi arrotolai la manica della felpa e gli mostrai la mia pelle «Guarda! Mi si drizzano tutti i peli e mi viene la pelle d'oca ogni volta che sento "balli scolastici"»

«Oh mio Dio!» esclamò lui, divertito e impressionato «Ma è vero!»

«E ti pare che ti dico una bugia?»

«Ti fanno così schifo?»

«Schifissimo. Quindi vacci con Jessica, almeno lei vuole ballare»

«Va bene, hai ragione» mormorò, e tornò al suo posto, rincuorato.

Il professor Banner aveva iniziato a parlare prima ancora che Mike avesse finito di sedersi. Guardai, come per riflesso, verso Edward che di solito a quel punto stava guardando la parete, ma che questa volta mi fissava, curioso, gli occhi scuri di nuovo venati da quel consueto filo di frustrazione, più evidente che mai.

Anch'io lo fissai, sorpresa, sicura che avrebbe abbassato lo sguardo immediatamente, e invece lui continuò a guardarmi, sempre più intensamente. Non ero disposta a cedere, non a lui, e volevo che capisse che io lo capivo e si aprisse almeno un po' con me.

«Cullen?» Chiese il professore, in cerca della risposta ad una domanda che non avevo sentito.

«Il ciclo di Krebs» Rispose Edward, voltandosi suo malgrado, per prestare attenzione al professor Banner.

Ma davvero? Anch'io stavo per dire "il ciclo di Krebs", pur non avendo sentito la domanda. Mi veniva da ridere.

Libera dal peso del suo sguardo, tornai al mio libro, cercando di ricompormi. Era giusto che volessi aiutarlo? Era un caso clinico e io non ero una psichiatra, ero solo l'ultima arrivata di quella scuola, nonché l'unica persona al mondo a cui probabilmente importava davvero di lui. Lui, accipicchia, aveva una famiglia e suo padre era un medico, perché non curavano la sua depressione o, al meno peggio, il suo bipolarismo? Mi sentivo sopraffatta da due desideri diversi: aiutarlo, perché sembrava la cosa più buona da fare, e lasciarlo cucinare nel suo brodo, perché non potevo rovinarmi il paradiso forksiano pensando all'unico deficiente trascurato da papà che c'era nel paese.

Per il resto della lezione cercai con tutte le mie forze di non pensare a lui. Quando finalmente la campanella suonò, nel raccogliere le mie cose gli diedi le spalle, immaginando che, come al solito, se ne sarebbbe andato in un baleno con la coda fra le gambe.

«Bella?».

La sua voce non avrebbe dovuto suonarmi così familiare, come se la conoscessi da una vita anziché da poche settimane. Mi voltai lentamene, imitando Lurch, il maggiordomo della famiglia Addams.

«Ehhhhh?» Strascicai «Chiamato?».

Quando lo guardai, aveva un'espressione illegibile e non disse nulla.

«Cosa? Hai deciso di rivolgermi la parola?» Chiesi infine, con tono involontariamente petulante. Se non ti rispondeva quando imitavi Lurch, per forza che poi diventavi petulante. Le sue labbra si stesero, trattenendo a malapena un sorriso

«No, non proprio» ammise.

Chiusi gli occhi, inspirai a fondo dal naso e mi accorsi che iniziavo a digrignare i denti, probabilmente perché questi ultimi desideravano separatamente dal corpo di mangiare un'orecchia di capelli-pazzi.

«Allora» Dissi, molto lentamente «Vuoi solo rompermi le scatole, se mi chiami e poi non mi dici niente?»

«Mi dispiace» disse, sembrando sincero «Sono molto maleducato, lo so. Ma è meglio così, davvero»

«No. Fai schifo, Edward» gli agitai le mani davanti alla faccia «Non è che dici "sono maleducato è bello" e fai perdere tempo alla gente così. Tu non sei così» gli afferrai la maglia, irritatissima, e cercai vanamente di tirarlo verso di me «Senti, ho capito. Stai male. È ovvio che stai male. Non volevo dirti che fai schifo, non è colpa tua se sei come sei. Non puoi semplicemente cambiarlo battendo le palpebre, non quando è così ovviamente... la tua natura... però devi imparare che...»

«Così ovvio?» chiese lui, inclinando un po' la testa.

Sembrava triste e spaventato all'idea che qualcuno nel mondo sapesse dei suoi problemi psichiatrici.

Deglutii e annuii, cercando di darmi un tono tranquillo ma incisivo

«Si. Ovvissimo. E la gente se ne frega di te, quindi sei diventato... strambo. Ma anche se stai male, anche se stai cercando di attirare la mia attenzione perché hai bisogno di aiuto, non è necessario comportarsi in questo modo schifoso. Non fare il maleducato e io ti aiuterò. Fallo e ti faccio spedire dallo strizzacervelli più aggressivo d'America. Da Hannibal Lecter».

Chiusi gli occhi e lo lasciai andare. Quando li riaprii, lui non se n'era ancora andato, per fortuna, e aveva l'aria molto seria

«È meglio se non diventiamo amici» rispose, tutto rigido «Fidati»

«No» gli dissi, cercando di addolcire il tono «Tu non hai amici, vero, Edward? È perché quello che sei fa paura alla gente. La tua... malattia, fa paura. Pensano che tu possa essere pericoloso, forse. Pensano che tu sia diverso da loro. Lo percepiscono nel modo in cui parli, in cui ti muovi... nella tua faccia. Ma io so cosa sei e come ti senti ad esserlo e non ho paura»

«Pensi di sapere cosa sono...»

«Io non lo penso. Io lo so. So che il mondo può essere tanto bello quando un ratto in un gabbia senza valore, quando qualcuno è nella situazione, ma so anche che tutto può cambiare. Puoi liberare quel ratto»

«Quale ratto?»


 «Era una metafora» spiegai, paziente «Non la più brillante, ma devo averla letta da qualche parte


«Era una metafora» spiegai, paziente «Non la più brillante, ma devo averla letta da qualche parte. Mi sembrava calzante» mi strinsi nelle spalle «Mi dispiace per le tue condizioni, Edward. Voglio solo aiutarti».

Era sbigottito. Mi fissava, incredulo.

«Tu non sai niente!» Ruggì all'improvviso.

Mi voltai, piena di sdegno, con la bocca serrata per non lasciarmi scappare tutte le accuse che avrei voluto rovesciargli addosso, tutto il risentimento e il dolore. Non volevo che, dopo avermi trattato così male, lui sapesse che pensavo sempre a lui, ad un modo per salvare la sua vita, perché per me era prezioso quanto lo erano gli altri esseri umani e volevo che fosse felice.

Si, non ero la persona più adatta per aiutarlo, soprattutto perché lui non voleva essere aiutato ed era maggiormente questo che mi faceva arrabbiare. Raccolsi i libri e andai verso la porta. Avrei desiderato uscire teatralmente dalla classe, impettita, ma ovviamente la punta del mio stivale incappò nello stipite e i libri mi caddero a terra, rovesciandosi dappertutto e aprendosi, lasciando che alcuni fogli di appunti scivolassero sul pavimento. Per un istante rimasi lì a chiedermi se fosse il caso di lasciarli dov'erano. Poi feci un sospiro e mi piegai a raccoglierli. Ed eccolo, era al mio fianco: li aveva già impilati uno sull'altro, con una velocità magica, e me li porse accigliato.

«Grazie» Dissi, gelida.

Contraccambiò, gli occhi diventati due fessure «Prego»

«Lo dirò a tuo padre» dissi, sottovoce

«Cosa?» sibilò lui

«Lo sai. Lo sai che cosa. Così almeno lui ti... controllerà un po' meglio» sbottai.

Mi rialzai di scatto, girai i tacchi e mi precipitai verso la palestra, senza guardare indietro.

La lezione di ginnastica fu dura: dalla pallavolo eravamo passato alla pallacanestro, uno sport in cui non avevo nessun punto di forza, visto che la mia schiacciata alla Mila e Shiro non serviva a niente qui. I miei compagni di squadra non mi passavano mai la palla e, cercando di rubarla all'avversario, non facevo altro che cadere e scivolare sul parquet come un pinguino.

La fine della lezione fu un sollievo. Raggiunsi il pick-up quasi di corsa. I danni al mio veicolo, dopo l'incidente, erano stati minimi: avevo dovuto cambiare entrambi i fari posteriosi e se la verniciatura fosse stata più seria avrei dovuto mettere mano anche a quella. Ai genitori di Tyler era toccato vendere quello che restava del furgoncino come pezzi di ricambio e anche quelli non gli erano fruttati un granché.

Mi venne quasi un colpo quando vidi, voltato l'angolo, una sagoma alta e scura appoggiata al mio pick-up. Mi fermai, pronta a mettermi in posizione di guardia pugilesca, poi mi accorsi che si trattava semplicemente di Eric e continuai e camminare.

«Ciao, Eric»

«Ciao, Bella»

«Come va?» chiesi, mentre aprivo la portiera. Non avevo notato subito il suo tono imbarazzato, perciò le sue parole mi presero alla sprovvista

«Ehm, mi chiedevo se... se... per caso verresti con me al ballo di prima-priva-prima-vera?»

«Per caso?» sollevai un sopracciglio «Se ci vengo per caso?»

«Si, insomma, hai capito».

Rimasi per un istante in silenzio, a guardarlo arrossire come un peperone, certa di star arrossendo un po' anch'io.

«Mi sembrava che, secondo tradizione, gli inviti spettassero alle ragazze» Dissi

«Beh, si» ammise, vergognosamente.

Cercai di rivolgergli un sorriso convincente «Grazie per avermelo chiesto, ma purtroppo sabato sarò a Seattle»

«Ah» rispose lui «Magari, allora, sarà per la prossima volta»

«Certo» conclusi io, pentendomene subito. Sperai che non mi prendesse troppo alla lettera, perciò aggiunsi «In ogni caso non ci sarà una prossima volta, non ho intenzione di venire a nessuno dei balli scolastici».

Lui tornò verso la scuola, ciondolando. Io sentii una risatina soffocata. Edward camminava davanti al mio pick-up, lo sguardo dritto davanti a sé, e tratteneva un sorriso. Saltai sul sedile, sbattendo la portiera con violenza che fece tremare i finestrini, misi in moto e rombando feci retromarcia sul viale. Cullen non si meritava il mio aiuto, visto che gli piaceva così tanto ridacchiare dei dispiaceri altrui.

Edward era già sulla sua macchina, a due piazzole di distanza, e mi svicolò davanti bloccandomi. Si fermò lì, ad aspettare i suoi fratelli; li vedevo procedere verso di noi, ma erano ancora troppo vicini alla mensa, evidentemente desiderosi di essere veloci e aggraziati come volpine carine solo quando gli girava e non quando stavano congestionando il traffico. Razza di buzzurri.

Per un attimo pensai se non fosse il caso di tranciare la coda alla sua Volvo luccicante, ma c'erano troppi testimoni. Guardai nel retrovisore: si stava formando una coda. Proprio di me c'era Tyler Crowley (chi altri, sennò?), sulla Sentra usata che aveva appena comprato, e mi salutava con la mano. Gli feci un cenno in risposta, benché fossi snervata.

Mentre attendevo, evitando con cura di guardare verso l'auto che mi precedeva, sentii qualcuno bussare al finestrino del passeggero. Mi voltai e vidi Tyler, con la faccia più speranzosa che avessi mai visto su un ragazzo di periferia, gli occhi scintillanti. Indossava una bella giacca sotto il cappotto e una camicia rosa dal colletto alto che lo facevano sembrare peculiarmente elegante, quasi formale.

Perplessa, lanciai uno sguardo allo specchiato: Tyler aveva lasciato la macchina accesa in mezzo alla strada, con la portiera aperta, così che chiunque avesse voluto rubarla o intrufolarcisi dentro l'avrebbe potuto fare senza difficoltà.

Mi sporsi per abbassare il vetro, ma era durissimo e arrivata a metà rinunciai all'impresa.

«Scusa Tyler, sono bloccata dietro Cullen». Ero seccata: ovviamente l'ingorgo non era colpa mia.

«Oh, si, ho visto. Volevo soltanto chiederti una cosa, mentre siamo fermi qui. Mi inviteresti al ballo di primavera?»

«Sarò fuori città, Tyler» gli risposi, cercando di contenermi più che potevo. Dovevo tenere presente che non era colpa sua se Mike, Eric e soprattutto Edward avevano già esaurito la mia personale scorticina di pazienza di quel giorno.

«Già, me l'ha detto Mike» confessò

«E ma allora sei testardo, eh?».

Fece spallucce

«Speravo fosse un modo carino di rifiutare il suo invito».

Bene, questo era l'esatto momento in cui diventava colpa sua.

«Spiacente,Tyler» Dissi, senza più sforzarmi di nascondere l'irritazione «Sarò davvero fuori città. E se non ci fossi stata, di certo non avrei invitato te. Neanche ti conosco! Mi hai solo quasi messo sotto con il furgoncino, che non è un granché di corteggiamento, ti pare?»

«Ma...»

«Ma niente» lo zittii «Hai praticamente detto che sono una bugiarda, che ho rifilato una frottola a Mike, il mio migliore amico solo per rifiutare di andare al ballo con lui»

«Io non volevo dire questo, volevo dire che...»

«Se proprio volessi venire al ballo, inviterei lui. Lui, non te»

«Allora rimandiamo al ballo di fine anno?».

Prima che potessi rispondergli, Tyler fuggì e ritornò in auto. Sentivo l'espressione stupefatta sul mio volto come se la stessi guardando in uno specchio. Non vedevo l'ora che Alice, Rosalie, Emmett e Jasper si infilassero su quella sbrilluccicante Volvo come sardine in una confezione di latta e se ne andassero più veloci del Team Rocket.

Edward mi fissava dal retrovisore interno. Stava di fatto morendo dal ridere, come se avesse origliato il nostro dialogo dalla prima all'ultima parola. Che voglia di premere l'acceleratore... un colpetto non avrebbe fatto male a nessuno, giusto quando bastava a graffiare un po' quella splendente vernice argento metallizzata. Misi di nuovo in moto, pronta al misfatti.

Ma i Cullen erano già saliti in macchina ed Edward stava sfrecciando via.

Percorsi la strada verso casa a bassa velocità, bofonchiando senza sosta.

«Glielo do io il ratto in gabbia, glielo do... ce lo chiudo in una gabbia e lo trasformo in un ratto e lo regalo come giochino a Dracula, si si... Stupido ratto subdolo di un Cullen... Tu sei il ratto, la tua Volvo è la gabbia senza valore dove ti spiaccicherò».




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Note degli autori: Come avrete iniziato a capire già dal capitolo precedente, una sottotrama sta iniziando ad insinuarsi nella storia... una sottotrama di cui non possiamo dire niente ovviamente se non che alcuni picchi della sua demenzialità (e profondità) ci sono stati suggeriti da un sito ( http://inspirobot.me/ ) che genera "inspirational quotes" (citazioni ispirazionali) a caso, alcune delle quali sono assolutamente ridicole! È  anche da lì che abbiamo preso le immagini di questo capitolo e da cui prenderemo altre immagini nei prossimi capitoli ;)


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 Aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui

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