Il lunedì mattina
successivo, i ragazzi che incontravo nel parcheggio della scuola mi
salutavano. Non ricordavo i loro nomi, ma restituivo i saluti e
sorridevo a tutti, cercando però di evitare di sembrare una psicopatica
di quelle che sorridono sempre come una bambola demoniaca. Non era
facile, ma ci provavo.
Faceva più freddo, ma
per fortuna non pioveva. Durante la lezione di inglese, Mike si sedette
accanto a me, come al solito. A sorpresa, il professore ci diede un
questionario su Cime Tempestose. Era elementare, molto facile, e lo
finii con grande soddisfazione.
Quando uscimmo
dall'aula, vedemmo volteggiare per aria qualcosa di bianco e leggere,
come tante piccole piume d'oca o coriandoli. Sentivo gli altri
schiamazzare e lanciarsi gridolini allegri. Il vento mi frustava le
guance e il naso, incollandomi alla faccia quelli che avevano tutta
l'aria di essere fiocchi di...
«Ehi!» Esclamò Mike, allargando le braccia «Nevica!».
Osservavo i batuffoli
ammassarsi piano lungo tutto il marciapiede, fluttuare lungo
traitettorie imprevedibili davanti al mio naso.
«Oh!». La neve. Ecco una sorpresa che non mi aspettavo.
Lui sembrava deluso «Non ti piace la neve?»
«Scherzi!» mi riscossi
subito «È fantastico! E poi se nevica, vuol dire che non sta piovendo,
il che va molto molto meglio. È fantastico» ripetei, meravigliata «E
poi, sai, pensavo che venisse giù a fiocchi più piccoli, hai presente,
ognuno diverso dagli altri, ma non puoi notarlo se non con un
microscopio... non immaginavo che la neve fosse...» tirai fuori la
lingua per catturare una delle sottili sfogliette bianche volteggianti,
assaporandone il freddo «...Così divertente»
«Non hai mai visto la neve?» chiese lui, incredulo
«Certo che si» attesi un istante, poi gli feci l'occhiolino «In televisione».
Mike rise. Subito dopo,
una grossa e viscida palla di neve si abbatté sulla sua nuca. Ci
voltammo entrambi per vedere da dove venisse, ma non c'erano chiari
indizi, sebbene avessi un sospetto su Eric, che si stava allontanando
nella direzione opposta a quella dell'aula in cui sarebbe dovuto andare.
Mike la pensava allo stesso modo, dunque si piegò e iniziò a fare una
palla con il soffice strato gelido.
«Ci vediamo a pranzo,
ok?» Parlavo continuando a camminare «Quando qualcuno inizia a tirare
roba fredda e umida, io mi rifugio al coperto».
Lui annuì solamente,
evidentemente non disturbato dal fatto che non volevo unirmi alla
battaglia desso, con gli occhi fissi sulla sagoma di Eric che si
allontanava.
Per l'intera mattinata,
ovviamente, non si fece altro che parlare della neve: a quanto pareva,
la prima nevicata dell'anno. Io ero entusiasta quanto se non più di loro
e quasi quasi iniziavo a pentirmi di non essermi unita a Mike nella
vendetta contro il tiro mancino di Eric... certo, la neve era solida, ma
non volevo che mi si sciogliesse dentro i vestiti se qualcuno mi avesse
tirato una palla di neve. Ero un po' vergognosa nel sentirmi una
signorina tutta per bene, ma certi tipi di disagio fisico (come acqua
fredda che mi cola nelle calze o dentro il cappotto) non li sopportavo
bene.
Dopo la lezione di
spagnolo entrai in mensa insieme a Jessica, con circorspezione, perché
volavano palle di neve dappertutto. Tenevo in mano una cartellina di
plastica decorata a boccini d'oro, da usare come scudo in caso di
necessità. Jessica pensava che stessi scherzando, ma qualcosa nella mia
espressione la trattenne dal tirarmi lei stessa una palla addosso.
«Non ti conviene, hai
fatto bene» Dissi immediatamente, mortalmente seria «Non ti piacerebbe
fare una battaglia a palle di neve con me».
Mike ci raggiunse
all'entrata, con il sorriso sulle labbra e le punte dei capelli
ghiacciate, simile ad una giovane e bizzarra creatura dei ghiacci.
Mentre facevamo la fila per il cibo, lui e Jessica parlavano
animatamente della battaglia appena finita, descrivendo grandiose
manovre militari che alla prova dei fatti non erano state questo
granché. Sorrisi, cercando di non dare a vedere che era per via del loro
discorso ridicolo.
La forza dell'abitudine
mi fece dare un'occhiata al solito tavolo nell'angolo, quello con i
ricchi snob. Per un attimo lo stomaco mi sobbalzò nel ventre: erano in
cinque.
Jessica mi tirò per un braccio
«Pronto? Bella? Cosa prendi?»
«Un capelli-pazzi» dissi, sovrapensiero, così piano che forse non lo capirono neanche (per fortuna)
«Cos'ha Bella?» chiese Mike a Jessica
«Niente» risposi in fretta «Prendo una soda, un'insalata con il radicchio e un po' di pasticcio di pollo»
«Non hai fame?» chiese Jessica, la quale sapeva che di solito volevo assaggiare di tutto
«A dir la verità... no. Cioè, si, ma...»
«Stai bene?»
«Si, sto bene». Certo
che stavo bene. Perché d'un tratto mi era passata la fame? Solo perché
avevo visto Edward "sonopsicopatico" Cullen seduto al tavolo con i suoi
fratelli?
Aspettati che Jessica e Mike prendessero da mangiare e li seguii fino al tavolo, guardandomi le punte dei piedi.
Sorseggiai la soda
piano piano, mi brontolava lo stomaco. Mike mi domandò due volte,
scherzando, se stavo male e io risposi abbassandogli i capelli con una
mano. Inorridito, lui cercò di tirarsi su le punte afflosciate e io e
Jessica ridemmo.
Decisi di concedermi un
altro sguardo al tavolo dei Cullen. Se avessi incrociato i suoi occhi
che mi fissavano con ira, mi sarei alzata e avrei scatenato un inferno
di palle di neve, non importava se mi si fossero sciolte tutte dentro il
reggiseno, avrei combattuto come Leonida contro i persiani. Era o non
era quella la culla degli spartani? Eh?
Sempre a testa bassa, sbirciai di sottecchi: nessuno di loro era voltato dalla mia parte. Alzai un po' la testa, fiduciosa.
Ridevano. Edward,
Jasper ed Emmett avevano i capelli pieni di neve e quelli del fratello
più piccolo sembravano una specie di gelato granitoso e scompigliato.
Alice e Rosalie cercavano di tenersi lontane da Emmett, che si scrollava
la non molto folta chioma davanti a loro, come un cane. Si stavano
godendo la giornata come chiunque altro, per una volta non stavano
fissando il muro.
A parte le risate e i
giochi, tuttavia, c'era qualcosa di diverso, e a prima vista non riuscii
a capire cosa. Osservai Edward con più attenzione e notai che era meno
pallido e le occhiaie erano molto meno evidenti. Ma c'era ancora
qualcos'altro! Continuai a scrutarlo, meditando e cercando di isolare
cos'era cambiato.
«Bella, cosa stai guardando?» Disse Jessica, interrompendo la mia riflessione e cercando di seguire il mio sguardo
«I Cullen» dissi «Oggi non sembrano deficienti come ieri. O come la settimana scorsa. O come sempre».
In quel preciso
istante, gli occhi di Edward guizzarono come lampi e incontrarono i
miei. Non abbassai lo sguardo, come avrei fatto con chiunque altro,
perché ero furiosa con lui, assolutamente furiosa. Tuttavia questa volta
non sembrava che mi stesse minacciando, era curioso e in qualche modo
insoddisfatto.
«Edward Cullen ti sta fissando» bisbiglio Jessica, con un sorrisetto
«E io sto fissando lui» risposi, senza distogliere lo sguardo e spalancando gli occhi «Guarda come lo sto fissando»
«Siete impazziti?» bisbigliò ancora lei
«Può darsi, ma cederà, vedrai. È un coniglio»
«Sei fuori di testa» rise lei, dandomi una pacca su un braccio.
In quel momento Mike ci
interruppe mettendosi proprio fra me e Cullen: stava progettando
un'epica battaglia a palle di neve nel parcheggio, dopo le lezioni, e
voleva che ci unissimo anche noi. Jessica accettò con entusiasmo, io
annuii debolmente. Avrei portato con me il mio scudo-cartellina e avrei
cercato di rimanere quanto più possibile in disparte, per non dovermi
bagnare e prendere un malanno, ma se avessi potuto colpire la faccia
bianca di Edward Cullen con un pupazzo di neve intero non ne avrei perso
l'occasione.
Finimmo di mangiare e di tanto in tanto scoccai un'occhiata al mio nemico, ma i nostri sguardi non si incrociarono più.
Non avevo molta voglia
di farmi accompagnare in classe da Mike come al solito, visto che lui
era uno dei bersagli preferiti dai cecchini delle palle di neve, ma
all'uscita tutti, tranne me, alzarono all'unisono un lamento di
delusione. Pioveva, e l'acqua lavava via ogni traccia di neve
trasformandola in rivoli ghiacciati e trasparenti che correvano lungo il
bordo del marciapiede. Io mi alzai il cappuccio, delusa: la neve era
così bella.
Dopo la lezione di
ginnastica avrei potuto tornare direttamente a casa, senza partecipare
ad alcuna fastidiosa battaglia, ma non ero così sicura che fosse una
cosa buona.
Durante tutto il percorso fino all'edificio 4, Mike non fece che lamentarsi e io incrociai le braccia
«Nevicherà di nuovo,
vedrai» lo consolai «Magari di pomeriggio. Non è così divertente
prendere palle di neve in testa, quando sei a scuola».
Una volta in classe, mi
accorsi con sollievo che il mio tavolo era vuoto. Il professor Banner
camminava per la stanza e distribuiva ad ogni tavolo un microscopio nero
e una scatola di vetrini. La lezione sarebbe cominciata da lì a qualche
minuto e nell'aula regnava un vivace chiacchiericcio. Mi misi a
scarabocchiare sulla copertina del quaderno, disegnando un pupazzo di
neve con i capelli di Edward Cullen con un gatto che lo graffiava tutto.
Il gatto, ovviamente, era il mio Dracula.
«Ciao» Disse una voce bassa, melodiosa.
Alzai gli occhi,
sbalordita dal fatto che si stesse rivolgendo proprio a me e proprio con
quel tono. Era seduto al mio stesso banco, ma più distante possibile da
me, come se puzzassi oppure come se temesse che lo potessi picchiare da
un momento all'altro, ma la seggiola era voltata nella mia direzione
(probabilmente per pararsi meglio in caso di attacco). I suoi capelli
già normalmente ridicoli erano fradici, spettinati, come quelli di una
stupida pubblicità di un qualche gel per ragazzini. Il suo viso
splendente era amichevole, inquietantemente luminoso (non sto
scherzando, sembrava una lampadina), con l'ombra di un sorriso sulle
labbra perfette. Lo sguardo, però, esprimeva l'ovvia cautela.
«Mi chiamo Edward Cullen» Continuò «La settimana scorsa non ho avuto occasione di presentarmi. Tu devi essere Bella Cigna».
Mi girava la testa per
la confusione. Mi ero inventata tutto? Ma certo che no, l'avevano visto
anche gli altri! Che razza di lunatico, ora sembrava educato.
«Senti, Eduar Carne»
Risposi io, storpiando volutamente il suo nome «Non so da dove vieni,
anzi, lo so che vieni dall'Alaska, ma non credo che funzioni così da te»
«Così come?» chiese, sempre con un'ombra di sorriso ad aleggiargli in faccia
«Così come?» sbottai
«L'ultima volta mi hai guardata male per tutto il tempo, non mi hai
rivolto la parola e sei scappato ogni volta che ho provato a capire che
cavolo avevi. Che cavolo avevi?».
Lui parve confuso. Di
tutte le espressioni che avrebbe potuto fare, quella confusa era la meno
plausibile: io avevo il diritto di essere confusa, non lui. Lui era
fuori di melone e se pensava che quel sorrisino avrebbe attaccato con me
come supponevo che attaccasse con le altre ragazze, disposte a
perdonarlo perché aveva un faccino da modello, si sbagliava grosso come
un diplodoco.
«Allora?» Lo punzecchiai, ancora «Perché ti sei comportato così?»
«Ci deve essere stato un malinteso» rispose lui, modulando deliziosamente la voce «Non volevo sembrarti sgarbato»
«Hai un modo strano di non sembrare sgarbato» replicai
«Scusami, Bella, allora» disse, senza però sembrare sconfitto.
Grazie al cielo il
professor Banner iniziò la lezione proprio in quel momento. Cercai di
concentrarmi, mentre spiegava l'esperimento del giorno. I vetrini erano
in ordine sparso e lavorando a coppie dovevamo separare ed etichettare
epitelio di cipolla in base alla fase di mitosi in cui trovavano. Senza
usare libri. Avevamo venti minuti di tempo.
«Iniziate pure» disse il professore.
Edward mi guardò, poi fece uno strano sorriso sghembo
«Prima le donne, collega?»
«Li faccio io» dissi,
tagliando corto «Ho già fatto questo esperimento, una volta, e non ho
bisogno che un tuo sbalzo d'umore ti faccia decidere che una profase sia
in realtà un'anafase per poi farti dire che "non intendevi dire
anafase", ok?».
Sistemai il primo
vetrino nell'apparecchio e lo esaminai. Avevo già fatto prima d'ora
quell'esperimento e volevo pavoneggiarmi di fronte ad Edward, per non
parlare del fatto che volevo imbarazzarlo. Misi a fuoco l'ingranditore,
procrastinai un'istante, poi dissi ad alta voce
«Profase».
Ero sicura della mia analisi, ma Edward domandò
«Ti dispiace se ci do
un'occhiata?» proprio mentre rimuovevo il vetrino dal microscopio.
Mentre parlava, mi prese la mano per fermarmi: le sue dita erano fredde
come il ghiaccio, come se prima di entrare in classe le avesse tenute
dentro un cumulo di neve. Mi staccai subito da lui e lo spinsi con una
piccola spallata
«Non toccarmi le mani» lo redarguii «E no, non ci puoi dare un'occhiata»
«Perché?» domandò lui, stavolta sembrando davvero sconfitto
«Perché mi hai toccato
la mano senza permesso. E sei scortese. Prima finirò il mio esperimento,
poi tu potrai fare tutti i giochini che vorrai e ingrandire le ali dei
grilli e dire "oooh che belle" con il microscopio, ma fino ad allora
lascia che siano le persone mature a fare i compiti»
«Sei cattiva» replicò lui e mi sentii fiera di me.
Tuttavia lui rimase piegato verso il microscopio e dovetti toglierglielo da sotto gli occhi.
«Scrivi» Gli dissi «Renditi utile. Scrivi "profase"».
Lui annuì e lo scrisse
in bella grafia nella prima casella del nostro foglio di lavoro.
Estrasse subito il secondo reperto e gli diede uno sguardo distratto.
«Anafase» mormorò, scrivendolo immediatamente.
«Sei tutto scemo» Sbottai «Fammi controllare, che hai il microscopio negli occhi?»
«Sono sicuro di quello che ho detto» rispose lui, gonfiando il petto e porgendomi il vetrino.
Guardai nel mirino con impazienza e restai delusa. Maledizione, aveva indovinato.
«Numero tre?» allungai la mano senza guardarlo.
Mi diede il vetrino. Adesso, per fortuna, sembrava attento a non sfiorare di nuovo la mia pelle.
Ci gettai un rapido sguardo, più frettoloso che potei.
«Interfase» Dissi «Scrivilo»
«Posso contro...»
«No. Hai la scrittura bella tu, scrivi».
Avrei potuto annotare
anch'io quello che vedevo, ma lui aveva una scrittura sorprendentemente
nitida ed elegante. E poi, tecnicamente, doveva essere un progetto di
gruppo, quindi dovevo dargli qualcosa da fare.
Terminammo molto prima
di tutti gli altri. Mike e la sua compagna non facevano che confrontare
due vetrini e un'altra coppia teneva il libro aperto sotto il tavolo ma,
e potevo vederlo anche dal mio posto, alla pagina sbagliata.
Alzai gli occhi ed
Edward era lì, a fissarmi, con quella nuova aria di inspiegabile
frustrazione. All'improvviso capii quale fosse la differenza che avevo
notato nel suo viso
«Porti le lenti a contatto?» mi uscì di bocca, senza pensarci.
Lui sembrò spiazzato
dalla mia domanda inaspettata, ma d'altronde sembrava spiazzato da
tutto, comprese le pareti della mensa, quindi non era così importante
«No»
«Oh. Mi sembrava di aver notato qualcosa di diverso nei tuoi occhi».
Si strinse nelle spalle e guardò altrove.
A dire la verità,
sapevo che stava mentendo: avevo un ricordo molto vivo dell'ultima volta
che mi aveva fulminata con lo sguardo, con quel nero cupo che spiccava
sullo sfondo del suo colorito pallido e dei capelli ramati. Oggi la
tonalità era completamente diversa: un'ocra più scuro di una caramella
ma con i riflessi dorati. Non capivo come fosse possibile, a meno che
per qualche motivo non mi stesse mentendo sulle lenti a contatto.
Abbassai lo sguardo: lui teneva di nuovo i pugni serrati.
Allora il professor
Banner si avvicinò al nostro tavolo a chiederci perché non stessimo
lavorando. Dalle nostre spalle lanciò un'occhiata alla tabella
completata, poi iniziò a controllare con attenzione le risposta una per
una.
«Scusa, Edward, perché non hai lasciato usare il microscopio anche a Belarda?» Chiese il professor Banner
«Forse perché in realtà l'ho usato solo io» risposi in fretta, prima che Edward potesse raccontare qualche frottola.
Il professor Banner
sollevò le sopracciglia, incredulo, ma Edward annuii e forse avevo
capito perché teneva i pugni stretti: ora sarebbe passato per il
fannullone, l'ignorante, il bel faccino. Insomma, per quello che era.
«Hai già fatto prima questo esperimento?» Chiese il professor Banner, guardandomi ora con espressione scettica
«Non con radici di cipolla» risposi, facendo un sorriso timido
«Embrioni di coregone?»
«Si».
Il professor Banner fece un cenno d'assenso
«A Phoenix frequentavi le lezioni del programma avanzato?»
«Si, signore»
«Bene» aggiunse, dopo un istante «Penso che sia il caso che voi due lavoriate assieme».
Bofonchiò qualcos'altro
mentre si allontanava e continuò a non accorgersi dei due ragazzi che
stavano scrivendo termini insensati, copiati dal libro, sulla tabella.
Quando se ne fu andato,
ricominciai a scarabocchiare sul quaderno, disegnando un incrocio fra
Vegeta e Edward che urlava «Ho una scrittura potentissima!».
«Peccato per la neve, eh?» chiese Edward.
Avevo la sensazione che
si sentisse in dovere di parlare con me. E io non ero una di quelle
ragazze che mandano a quel paese i ragazzi anche quando si sono scusati,
quindi lo avrei trattato con un po' di humour pungente, ma l'avrei
perdonato e lasciato parlare se necessario.
«Non direi. Che intendi con peccato per la neve?» Domandai «Dici sempre cose così, a caso?»
«Intendo per il fatto che è scomparsa»
«Ah si, peccato»
«Ah si, peccato»
«Ma a te il freddo non piace». Non era una domanda.
Scossi la testa. C'era
gente che amava smodatamente il freddo? Forse lui, visto che metteva le
mani nel ghiaccio per farsele sembrare più pallide.
«Per te dev'essere difficile vivere a Forks» Concluse, come se avesse fatto chissà quali grandi ricerche e osservazioni
«Non te lo immagini neppure» risposi, ironica.
Sembrava affascinato
dalle mie parole, ma il motivo mi sfuggiva. Il suo viso mi distraeva,
era bello, ma atipico e soprattutto aveva strane espressioni.
«Ma allora, perché sei venuta qui?» Domandò, diretto.
Non potevo crederci, non sapeva distinguere l'ironia nel tono delle persone!
«A me sta benissimo essere qui» Replicai «Sono venuta perché ci vive mio padre. E altre cose. È complicato»
«Penso di poterlo capire» insistette «Raccontami».
Fece una lunga pausa,
poi commisi l'errore di incrociare di nuovo il suo sguardo. I suoi occhi
d'oro mi confondevano e risposi senza pensarci
«Mia madre si è risposata» dissi
«Non sembra così complicato» ribatté lui, ma si fece improvvisamente comprensivo «Quando è stato?»
«Settembre»
«E lui non ti piace» dedusse Edward, ancora con un tono gentile.
Ridacchiai
«Non ne azzecchi una» dissi «Smettila di fare Sherlock Holmes, se lo vuoi sapere. Phil è ok, è questa la cosa bella!»
«Non capisco»
«Te lo dicevo che non lo avresti capito. Mamma ora ha Phil. Qualcuno che si prenda cura di lei. Quindi?»
«Non capisco»
«Te lo dicevo che non lo avresti capito. Mamma ora ha Phil. Qualcuno che si prenda cura di lei. Quindi?»
«Quindi ora non... devi più prendertene cura tu?»
«Esatto!»
«E ora sei qui per prenderti cura di tuo padre»
«Perché devo prendermi
cura della gente?» sbuffai «Ti ho detto di non tirare ad indovinare,
almeno finché non ti faccio le domande o non ti dico "indovina". Non
sopporto Mamma e sapendo che ora non morirà non devo neanche
preoccuparmene. Sono qui per essere libera» spiegai
«Ma ora sei infelice» suggerì lui
«E tu sei infelice?» domandai «Anzi, aspetta, con i miei poteri psichici indovinerò tutta la tua vita!».
Lui sorrise e si appoggiò contro il banco, allontanandosi ancora di più da me, poi annuì
«Provaci, se ti pare».
Lo guardai da sotto in
su, leccandomi le labbra e pregustando il mio momento di gloria. Potevo
inventare le balle che volevo sulla sua vita, ma quali sarebbero state?
«Allora, sei un vampiro
che viene dall'Alaska» Iniziai, ma mi fermai un istante quando lo vidi
deglutire convulsamente «No, scusa, hai il terrore dei vampiri che
vengono dall'Alaska, quindi sei scappato. Tu vieni da... da...
l'Inghilterra»
«L'Inghilterra?»
«Edward è un nome... da Inghilterra» tagliai corto «Zitto, che ho i poteri. Poi, sei anemico e quindi devi bere sangue».
Si irrigidì di nuovo.
«Scusa» Mormorai «Non sapevo che avessi una fobia»
«Non ho una fobia» rispose lui, ma non sembrava molto convinto
«Vuoi che non parli più di sangue?»
«No, no, figurati! Parla, parla!»
«Lasciamo perdere» borbottai, niente affatto desiderosa di scioccarlo.
Lui prese a studiarmi,
come se fossi un vetrino di epitelio di cipolla (visto che a quanto
pareva non aveva bisogno di un microscopio per identificarne la natura).
«Dai buona mostra di te» Disse, lentamente «Ma sono pronto a scommettere che soffri molto di più di quanto dai a vedere»
«Infatti, non do a
vedere la sofferenza che provo nel sentirti dire simili sciocchezze»
dissi, melodrammatica «Ma ora parlami di tua madre, Edward».
Lui tentennò per un istante. Ma c'era un argomento che non lo turbava profondamente?
«Sono orfano» Disse
«No che non sei orfano» ribattei «Ti hanno adottato. Io ti chiedevo della tua madre attuale»
«Ah» lui tirò un po' indietro la testa, esponendo la gola bianca come latte «Esme»
«Si, Esme».
«Si, Esme».
Edward ci pensò un po'
su, poi mi guardò negli occhi e disse «Ti do fastidio?». Sembrava
divertito. Che cavolo ci trovasse di divertente lo sapeva solo lui.
«Non esattamente» Risposi «Però sei imbarazzante».
Il professor Banner
riportò la classe all'ordine e io mi disposi ad ascoltarlo con sollievo.
Non riuscivo a credere di aver appena avuto una conversazione con
questo ragazzo bizzarro e bellissimo, che forse mi odiava o forse no, ma
che chiaramente aveva dei problemi. Mi era sembrato molto divertito
dalla conversazione, ma ora, con la coda dell'occhio, lo vedevo
arretrare di nuovo, le mani serrate sul bordo del tavolo, in palese
tensione.
"Attento a non buttarti
dalla finestra" Avrei voluto dirgli, ma stavo fingendo di stare attenta
alla spiegazione del professore, che illustrava con diapositive ciò che
avevo appena visto senza problemi attraverso le lenti del microscopio.
Quando infine la
campanella suonò, Edward scivolò via dall'aula con la stessa velocità e
grazia del lunedì precedente. Io, come la settimana prima, rimasi ferma a
guardarlo, incredula. Me ne accorgevo più facilmente, ora che non ero
arrabbiata, o almeno non furibonda, con lui: aveva una grazie
ultraterrena e si muoveva come un gatto, dandomi l'impressione che
avrebbe potuto fare un balzo di cinque metri da un momento all'altro.
Mike si presentò subito al mio fianco e mi aiutò a portare i libri.
«Terribile» Disse con un lamento «Sembravano tutti identici. Sei stata fortunata a lavorare assieme a Cullen»
«Davvero?» dissi,
ironica «Lui ha solo scritto i nomi. Perché credete tutti, anche il
professore, che sia stato lui a fare tutto?»
«Perché è bravo» spiegò Mike «Molto bravo. Aspetta, hai fatto tutto tu?»
«Si. Non ci ho trovato
niente di difficile» spiegai, punta dalla sua domanda. Ma me ne pentii
all'istante «Era un esperimento che ho già fatto» aggiunsi, prima che
potesse aversene a male.
«Oggi Cullen mi
sembrava piuttosto amichevole» Commentò, mentre ci stringevamo nelle
giacche a vento. Non ne sembrava tanto contento. Sbuffai
«Si, ma ha detto delle
cose ridicole» gli spiegai «Ha cercato di fare tipo lo psichiatra e di
indovinare dettagli della mia vita e penso che abbia paura del sangue e
dei vampiri»
«Davvero?»
«Davvero»
«Ridicolo» ridacchiò «Ma chissà che gli era preso lunedì scorso...»
«Niente, avrà visto un film di vampiri e sarà diventato tutto paranoico».
Ridemmo fino alla palestra, dove ci misero in squadra insieme a giocare a pallavolo.
«Salvatemi» Ululò Mike, quando mi vide proprio dietro di lui «Mi ammazzerà di pallonate per sbaglio»
«Finiscila e gioca, se non vuoi che lo faccia di proposito» lo minacciai, scherzosamente.
Molto
cavallerescamente, il mio amico difese la mia zona e la sua, perciò
potevo tranquillamente andare a farfalle, eccetto nei miei turni di
battuta, quando schiacciavo come Mimì ed ero quasi certa che la palla si
sarebbe infuocata se ci fossimo trovati nelle puntate di un anime
giapponese.
Quando uscii nel
parcheggio, la pioggia era diventata solo una nebbiolina, ma nonostante
tutto mi sentii davvero bene soltanto all'asciutto nel mio pick-up.
Accesi il riscaldamento e per una volta non mi preoccupai affatto del
rombo rintronante del motore, che per qualche motivo mi ricordò il
rumore dei motorini a benzina che durante le fiere servono a tenere
accese le luci nelle bancarelle.
Mi slacciai la giacca a
vento, mi liberai del cappuccio e scossi i capelli umidi perché si
potessero asciugare con la ventola nel tragitto verso casa.
Mi guardai intorno per
controllare che non ci fossero altre auto. Fu in quel momento che notai
una sagoma bianca, immobile. Edward Cullen era appoggiato alla portiera
anteriore della sua macchina da fighetto, a tre auto di distanza dalla
mia, e guardava fisso verso di me. Aveva una specialità nel fissare, non
sapeva fare altro: o fissava una parete della mensa, oppure fissava me.
Distolsi lo sguardo
alla svelta, ingranai la retromarcia, e poco ci mancava che per la
fretta colpissi in pieno la Toyota Corolla che mi seguiva.
Fortunatamente per la Toyota, feci in tempo ad inchiodare: quello era
esattamente il tipo di auto che il mio vetusto, ma maestoso, pick-up
avrebbe trasformato in una palla di lamiera. Feci un respiro profondo,
guardai di nuovo dal lato opposto della mia macchina e con cautela
iniziai a muovermi, questa volta senza fare danni. Passando davanti alla
Volvo cercai di fissare soltanto la strada, ma con una sbirciatina
laterale vidi capelli-pazzi che, sarei pronta a giurarlo, rideva.
E fu solo il fatto che
sono una persona ragionevole a salvarlo dall'essere investito con un
pick-up capace di ridurre ad una palla di lamiera cose ben più robuste
di lui.
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aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su
wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere
direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui
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