E così io e LadyDarknessObscure ci siamo date alle storie brevi, dopo aver finito di scrivere un romanzo da almeno un migliaio di pagine... ecco la prima.
Il figlio del cacciatore
C'era una volta, tanto tempo fa, il
figlio di un cacciatore importante, temuto e rispettato da tutta la
sua numerosa tribù. Andava da sé, dunque, che anche suo figlio
fosse rispettato, ma il bambino era ancora troppo piccolo per
comprenderne il perchè.
Chiunque gli si rivolgeva come fosse un
provetto cacciatore, ma lui di caccia non ne capiva ancora un granché
e, quando gli adulti gli parlavano in quel modo assai diverso da
quello usato con gli altri bambini, il figlio del temuto cacciatore
si limitava a stringere forte il suo piccolo arco con le sue manine
paffute.
Suo padre infatti gli aveva regalato un
grazioso arco alto poco meno di lui, ma comunque micidiale, fatto di
strati di tendine d'alce e legno di pino levigato, con una corda
rossa come il sangue, e una faretra piena di corte frecce
dall'impennaggio d'aquila, degne di un capotribù. Il bambino, però,
non sapeva usare quell'arco e neppure voleva uccidere gli animali,
che anzi amava molto: i piccoli scoiattoli che vedeva con la coda
dell'occhio saltare da un ramo all'altro, le tortore dal petto chiaro
e persino i pesci argentati nel fiume, lui li amava. Non sapeva
cacciare, ma proprio in virtù del suo amore per quelle creature, era
silenzioso quanto suo padre e tutti, vedendolo camminare ai margini
del bosco, dicevano “sarà un grande cacciatore”.
E in cuor suo, il piccolo bambino sperava quel giorno non giungesse mai.
Ogni sera, al ritorno di suo padre, guardava con timore le prede che dondolavano appese per una corda alle sue spalle e, mentre gli altri membri della tribù gioivano, lui si chiedeva come il suo arco, invece di ferire quelle povere creature, potesse aiutarle.
E in cuor suo, il piccolo bambino sperava quel giorno non giungesse mai.
Ogni sera, al ritorno di suo padre, guardava con timore le prede che dondolavano appese per una corda alle sue spalle e, mentre gli altri membri della tribù gioivano, lui si chiedeva come il suo arco, invece di ferire quelle povere creature, potesse aiutarle.
Però non gli veniva mai in mente
niente perchè era troppo piccolo per capire come usarle.
Ma il tempo passò per lui come per
tutti e il bambino credde robusto fino all'età di sette anni, quando
iniziò a trovare un po' meno ripugnante e un po' più sopportabile
la morte.
Stava già per rassegnarsi quando suo
padre, tornando con in spalla un giovanissimo caribù, iniziò a
lamentarsi, blaterando qualcosa sulla carne. Il bambino gli voleva
bene, ma quel suo genitore alto e forte, con le sue mani grandi, gli
faceva paura quando iniziava a parlare di uccidere e in particolar
modo di prendere pezzi dagli animali: si sarebbe volentieri rifugiato
dalla sua mamma, se non fosse stato che lei, a quanto pare, era
malata e aveva dovuto rifugiarsi anni prima in una remota zona della
foresta di pini per curarsi ad una fonte dagli incredibili pot.
Suo padre non aveva mai voluto dirgli
che razza di malattia fosse.
«Papà» Osò parlare il bambino, nel
tentativo di placare il cacciatore «Cos'hai? Stai tranquillo, dici a
me che cosa succede».
Suo padre lo guardò con occhi neri
come il carbone e sorrise appena.
In silenzio, aspettò che il suo papà
decidesse di confidarsi con lui ma, quando aprì bocca, tutto quello
che disse all’inizio fu «Sei un bravo bambino».
Sì, lo era, pensò con sicurezza il figlio del cacciatore. Era bravo e lo dicevano tutti. E faceva di tutto per esserlo sempre di più. Però non disse nulla al suo papà, perché voleva sapere cosa c’era che lo preoccupava.
Sì, lo era, pensò con sicurezza il figlio del cacciatore. Era bravo e lo dicevano tutti. E faceva di tutto per esserlo sempre di più. Però non disse nulla al suo papà, perché voleva sapere cosa c’era che lo preoccupava.
Suo padre tornava tardi, la sera. Non
era stato così quando lui era ancora un bambino piccolo e questo lo
poteva capire, perchè papà doveva badare a lui. Ma perchè i suoi
occhi erano sempre più cerchiati di pelle scura? Perchè le sue
braccia si muovevano più stancamente e le sue gambe tremavano un
po', quasi un'impercettibile scossa, prima di coricarsi e dormire?
Il grande cacciatore era stanco.
Ma cos’era a renderlo così stanco?
Non era vecchio il suo papà. Non lo era affatto. Eppure se lo
guardava meglio gli sembrava… almeno un po’… no, era solo la
luce tremolante del falò a disegnargli delle brutte ombre sulla
faccia. Il suo papà era forte e sapeva come cacciare: conosceva la
foresta come ogni minuscola imperfezione del suo fedele pugnale.
Eppure…
«Perché hai gli occhi scuri, papà?» domandò il bambino, indicandoglieli col ditino paffuto.
«Perché hai gli occhi scuri, papà?» domandò il bambino, indicandoglieli col ditino paffuto.
Suo padre si abbassò un po', fin quasi
ad allineare le pupille con quelle del suo erede. Occhi negli occhi,
alla luce del fuoco, sembrava che le luci danzassero come riflessi di
due specchi uno di fronte all'altro.
«Anche tu li hai» Disse l'uomo, con
una punta di fierezza «Tutta la nostra tribù ha gli occhi scuri. Ma
quelli della nostra famiglia lo sono di più. Siamo speciali. Hai mai
visto gli occhi di un falco? Sono neri, neri come una notte senza
luna e senza stelle, eppure nessuno vede più lontano di lui»
Il bambino dischiuse le piccole labbra
per lo stupore.
Non si aspettava quella risposta, soprattutto perché aveva sbagliato a porre la domanda; ma non aveva mai fatto caso al fatto che gli occhi scuri della loro famiglia fossero più scuri di quelle degli altri.
Rimase affascinato dalla risposta che suo padre gli fornì, tuttavia ciò non bastò a distogliere la sua attenzione dalla pelle scura che cerchiava gli occhi dell'altro.
«No, papà, ho sbagliato…» Gli disse, correggendosi «… Dicevo le ombre che hai attorno agli occhi».
Non si aspettava quella risposta, soprattutto perché aveva sbagliato a porre la domanda; ma non aveva mai fatto caso al fatto che gli occhi scuri della loro famiglia fossero più scuri di quelle degli altri.
Rimase affascinato dalla risposta che suo padre gli fornì, tuttavia ciò non bastò a distogliere la sua attenzione dalla pelle scura che cerchiava gli occhi dell'altro.
«No, papà, ho sbagliato…» Gli disse, correggendosi «… Dicevo le ombre che hai attorno agli occhi».
L'uomo si portò una mano sotto
l'occhio destro, toccandosi la pelle come se potesse sentirne il
colore con le dita. Pensoso, guardò altrove
«Ho le ombre intorno agli occhi?»
chiese, ma sembrò solo retorica.
Un sorriso da lupo, fugace, comparve
sul suo volto per un istante, ma parve solo una smorfia passeggera
quando subito dopo sparì, lasciando il posto a una faccia perplessa.
«Davvero?»
«Si, papà» Confermò il bambino.
«Si, papà» Confermò il bambino.
Suo padre sembrava non sapere perchè
sembrava così stanco. Oppure lo sapeva, ma pensarci gli faceva
paura.
Il cacciatore sbadigliò
«Ora andiamo a dormire, figliolo?»
«Si, papà»
Ubbidiente, il figlio del cacciatore
sistemò il piccolo arco accanto al suo giaciglio e, da lì, osservò
il profilo del padre muoversi per la tenda per sistemare gli ultimi
oggetti prima di coricarsi. Anche nel buio, il bambino continuò a
spiarlo pieno di curiosità e, benché l’altro non facesse nulla di
insolito, la sua fantasia cominciò a galoppare senza limiti,
immaginandosi le teorie più disparate che potessero spiegare gli
occhi scuri del genitore. Immaginò le più assurde e le più
eroiche, ma pian piano un senso di inquietudine s’impadronì di
lui…
Suo padre si coricò. Dopo poco il suo
respiro cambiò ritmo, divenne quello del sonno, regolare e profondo.
Il bambino, però, non riuscì a dormire e rimase coricato su un
fianco a guardare suo padre e a chiedersi perchè non riuscisse a
chiudere gli occhi.
Solo dopo quasi un'ora si accorse che
non riusciva a chiudere gli occhi perchè suo padre lo stava
fissando. Nel buio, un leggero riflesso di luce sulle pupille
dell'uomo: il cacciatore dormiva con gli occhi aperti.
In un primo momento ebbe paura. Molta
paura. E il suo respiro si mozzò, colto alla sprovvista. Poi ricordò
che anche uno dei membri più anziani della sua tribù dormicchiava
all’aperto tenendo gli occhi aperti e ciò divertiva molto gli
altri bambini.
Gli pareva molto strano dormire con gli occhi aperti, ma ognuno dormiva in maniera diversa, no?
Gli pareva molto strano dormire con gli occhi aperti, ma ognuno dormiva in maniera diversa, no?
Così, semplicemente, si girò
dall'altro lato e chiuse gli occhi. Ma si sentiva trafiggere la
schiena da quello sguardo e ci mise ancora molto tempo per
addormentarsi e non fu comunque un sonno del tutto tranquillo.
Quando l'indomani mattina si svegliò,
suo padre non c'era più. Il bambino si alzò, si stropicciò gli
occhi e si chiese dove fosse andato, perchè voleva fare colazione
con lui.
S’infilò le scarpine e, preso il suo
arco, uscì fuori dalla tenda a godersi la luce del sole, non sorto
da molto. L’aria mattutina era frizzante e gli adulti della sua
tribù la combattevano buttandosi a capofitto nelle loro mansioni
giornaliere. Nessuno dei bambini era in giro, era ancora troppo
presto, e la moglie dello sciamano stava alimentando la fiamma per
preparare loro la colazione. Le si avvicinò e le si sedette
accanto.
« Buongiorno, Piccolo Cacciatore. » lo salutò.
« Buongiorno, Piccolo Cacciatore. » lo salutò.
Il bambino chinò rispettosamente la
testa
«Buongiorno» disse «Cosa mangerete
per colazione?»
«Mangiamo zucca, mais e un po' di coniglio. Oggi i bambini devono andare a raccogliere la linfa d'acero e cerchiamo di dargli qualcosa di sostanzioso»
«Mangiamo zucca, mais e un po' di coniglio. Oggi i bambini devono andare a raccogliere la linfa d'acero e cerchiamo di dargli qualcosa di sostanzioso»
«Ah. Per caso, mio padre...»
«È passato di qui presto, questa
mattina» rispose la donna, con un sorriso gentile
« Ha detto quando tornerà? »
«Quando le stelle si faranno vedere» gli disse la moglie dello sciamano senza alzare gli occhi dal suo lavoro «Hai iniziato ad usare il tuo arco, Piccolo Cacciatore?»
Il bambino scosse la testa.
«È un così bell’arco» continuò lei «È un dispiacere non usarlo».
«Quando le stelle si faranno vedere» gli disse la moglie dello sciamano senza alzare gli occhi dal suo lavoro «Hai iniziato ad usare il tuo arco, Piccolo Cacciatore?»
Il bambino scosse la testa.
«È un così bell’arco» continuò lei «È un dispiacere non usarlo».
Un dispiacere, pensò il bambino,
invece era usarlo. Non quel dispiacere come una sofferenza, come
quando non vuoi proprio fare una cosa e sei costretto a farla,
piuttosto come un senso di disagio leggero nel vedere l'atto
compiersi, la freccia trapassare carne e ossa e uccidere. Tuttavia
annuì perchè era vero, si, aveva iniziato ad usarlo.
Ma non nel modo che desiderava. Non
riusciva ancora ad aiutare gli animali e non era ancora bravo a
prendere la mira. Temeva sempre di fare qualche pasticcio. Avrebbe
voluto che il suo papà gli insegnasse come fare, ma quello lo
avrebbe inesorabilmente portato alla caccia e il piccolo cacciatore
non voleva proprio! Cosa mai avrebbe dovuto fare?
Ma non nel modo che desiderava. Non
riusciva ancora ad aiutare gli animali e non era ancora bravo a
prendere la mira. Temeva sempre di fare qualche pasticcio. Avrebbe
voluto che il suo papà gli insegnasse come fare, ma quello lo
avrebbe inesorabilmente portato alla caccia e il piccolo cacciatore
non voleva proprio! Cosa mai avrebbe dovuto fare?
D'improvviso si udì la voce di un uomo
che tuonava parole che sul momento il bambino non riuscì a
decifrare, troppo distorte nel loro tono allarmato. La moglie dello
sciamano scattò in piedi, poi lo guardò
«Và a giocare con gli altri bambini o nella tua tenda, và!» gli ordinò.
Era raro che un qualunque adulto gli ordinasse qualcosa: doveva essere grave quello che stava succedendo. Nell'aria, poi, c'era un vago odore di cacciagione... non il coniglio che la donna stava preparando, ma qualcosa come un grosso animale, un cervo, e non una provvista, ma un animale che era stato abbattuto da poco.
Il figlio del cacciatore non aveva voglia di stare con gli altri bambini, quindi corse nella sua tenda: voleva sapere cosa stava succedendo, ma non poteva farsi vedere. Si lanciò nella porta e si affrettò ad andare a guardare cosa stava succedendo all’esterno attraverso gli spiragli che si erano formati dalle cuciture della pelle ormai rovinate.
«Và a giocare con gli altri bambini o nella tua tenda, và!» gli ordinò.
Era raro che un qualunque adulto gli ordinasse qualcosa: doveva essere grave quello che stava succedendo. Nell'aria, poi, c'era un vago odore di cacciagione... non il coniglio che la donna stava preparando, ma qualcosa come un grosso animale, un cervo, e non una provvista, ma un animale che era stato abbattuto da poco.
Il figlio del cacciatore non aveva voglia di stare con gli altri bambini, quindi corse nella sua tenda: voleva sapere cosa stava succedendo, ma non poteva farsi vedere. Si lanciò nella porta e si affrettò ad andare a guardare cosa stava succedendo all’esterno attraverso gli spiragli che si erano formati dalle cuciture della pelle ormai rovinate.
Tutti gli uomini imbracciavano le armi
e le donne stavano correndo nelle tende dai loro bambini.
L’odore di cacciagione stava
diventando sempre più intenso.
Fu allora che sentì una parola che non
aveva mai udito prima. “Windigo”. All'inizio pensò di aver
sentito male, perchè non conosceva quella parola, ma la udì
ripetere più volte e aveva un buon udito, perciò pensò di averla
capita bene. Forse c'era un animale lì fuori, un grosso animale
carnivoro, come un orso, che aveva questo nome.
Ma no! Perchè suo padre non gliene
aveva mai parlato? Il grande cacciatore aveva sempre detto che era
importante imparare e gli aveva insegnato com'erano fatti animali che
il bambino non aveva ancora mai visto neppure da lontano.
Un uomo passò proprio di fronte alla
sua tenda imbracciando una pesante lancia cerimoniale.
Allora, pensò il bambino, Windigo
doveva essere un uomo, una persona malvagia e potente, o persino
un'altra tribù.
Chissà, si chiese, se non era una
tribù di quegli uomini bianchi di cui parlavano tutti. Non li aveva
mai veduti dal vivo e non riusciva ad immaginarsi i loro aspetti,
nonostante suo padre glieli avesse descritti minuziosamente.
Chissà, si chiese ancora, se suo padre
sarebbe arrivato di corsa a combattere con tutti gli altri. Lui
fiutava il pericolo da miglia e miglia… sarebbe arrivato presto!
Abbassò lo sguardo: vicino a lui, in
una faretra di canapa intrecciata, c'erano tre frecce. Si chiese se
avesse dovuto usarle. Non era caccia, questa volta, non c'entrava
uccidere un animale indifeso, era in gioco la salvezza della tribù.
Se l'uomo bianco fosse entrato e avesse
conquistato la loro terra, di sicuro sarebbe stata la fine per loro.
Ed anche se era piccolo era giusto che
facesse la sua parte. Magari di nascosto, proprio lì, dall'interno
della sua tenda. Non sarebbe stato onorevole, ma non poteva esporsi:
era solo un bambino, che possibilità avrebbe avuto contro dei
guerrieri adulti? Avrebbe soltanto aiutato la sua tribù.
Si disse che era comunque sbagliato, ma
che altro avrebbe dovuto fare? Non poteva affrontarli a viso aperto.
E poi nessuno gliel'avrebbe permesso.
Quindi prese le frecce.
Il parapiglia nel villaggiò durò
ancora per alcuni minuti, poi tutto si placò. Dalla scucitura della
tenda, il bambino video lo sciamano parlare con sua moglie e lo sentì
dire che Windigo era fuggito, o più probabilmente si era nascoto, e
che era così furbo che probabilmente non lo avrebbero trovato, ma
avrebbero provato lo stesso a cercarlo.
La donna si torse le mani, preoccupata, e lo pregò di non andare: molti guerrieri erano morti così.
Dunque Windigo era uno solo, e non una tribù, ma così letale da poter uccidere, solo com'era, molti guerrieri.
La donna si torse le mani, preoccupata, e lo pregò di non andare: molti guerrieri erano morti così.
Dunque Windigo era uno solo, e non una tribù, ma così letale da poter uccidere, solo com'era, molti guerrieri.
Quindi li non avrebbe potuto fare
nulla, ma suo padre sì. Ne era sicuro: perché suo padre era il
cacciatore più scaltro e forte del mondo!
Tuttavia, ebbe paura per lui. Paura che
Windigo fosse molto più forte e scaltro. Anche se, in qualche modo,
gli sembrava impossibile.
E allora aspettò. Aspetto con leggera
ansia che suo padre tornasse, ora certo che fosse uscito quella
mattina presto proprio perchè aveva trovato, in qualche modo, le
tracce di Windigo.
La moglie dello sciamano lo chiamò per fare colazione, così aspettarono insieme.
Avevano da poco finito di mangiare quando suo padre si avvicinò con falcata ampia e sicura, la camminata eretta e fiera di chi aveva appena vinto. Il bambino seppe le esatte parole che il cacciatore stava per dire prima ancora che lui le dicesse.
«Il Windigo non tornerà più».
La moglie dello sciamano lo chiamò per fare colazione, così aspettarono insieme.
Avevano da poco finito di mangiare quando suo padre si avvicinò con falcata ampia e sicura, la camminata eretta e fiera di chi aveva appena vinto. Il bambino seppe le esatte parole che il cacciatore stava per dire prima ancora che lui le dicesse.
«Il Windigo non tornerà più».
Il Piccolo Cacciatore avrebbe voluto
essere più solenne che mai per commemorare quel momento tanto
importante, ma prima ancora che se ne rendesse conto, si lanciò con
tutte le sue forze contro il grembo del genitore e lo abbracciò
forte, sbilanciandolo appena all’indietro.
Forse per lo stupore, o semplicemente
perché non era da lui, suo padre ci mise un po’ a ricambiare. Gli
poggiò una mano sulla testa, solo quello, e rimasero così senza far
nient’altro sotto lo sguardo intenerito della moglie dello
sciamano.
Il bambino non aveva voglia di piangere
o che, voleva solo stare vicino al padre. Vicino fisicamente, come se
dovesse assicurarsi che lui fosse lì per davvero.
«Papà, hai ancora gli occhi scuri»
mormorò.
Suo padre socchiuse le palpebre, poi,
molto lentamente, sorrise. Fu come vederlo nascere quel sorriso, una
contrazione muscolare alla volta, piano piano, pelle increspata
dapprima e poi brillare di denti bianchi.
«Lo so» Rispose «Non si cambia in
così poco tempo»
«Fai colazione, adesso, papà?»
«No» rispose lui «Non... non ho fame».
«No» rispose lui «Non... non ho fame».
Si mosse e si diresse verso la tenda
del Capo Tribù, lasciando indietro il bambino che, subito, gli
trotterellò dietro, sotto lo sguardo della moglie dello
sciamano.
«Hai mangiato?»
«Sì, ho mangiato»
«Prima di cacciare Windigo? » gli domandò «Dov’è?».
Suo padre non aveva portato nessun ricordo con sé. O almeno non vedeva niente sulle sue spalle, nessun trofeo o qualcosa che gli potesse assomigliare.
«Hai mangiato?»
«Sì, ho mangiato»
«Prima di cacciare Windigo? » gli domandò «Dov’è?».
Suo padre non aveva portato nessun ricordo con sé. O almeno non vedeva niente sulle sue spalle, nessun trofeo o qualcosa che gli potesse assomigliare.
«Lui... non l'ho ucciso» Rispose il
cacciatore «L'ho ferito e scacciato. Ferito molto gravemente. La
paura lo terrà lontano dal villaggio, ma la sua carne non è da
mangiare, quindi perchè avrei dovuto ucciderlo?»
«E non gli hai preso nulla?».
Il padre si fermò a pochi passi dalla
tenda del capo tribù
«Preso che cosa?» domandò
«Niente? Il suo coltello, per esempio.
O una delle sue pellicce»
«Windigo non ha queste cose»
«E...» il bambino, preso alla
sprovvista, si guardò intorno come imbarazzato «...Come... come fa
a cacciare e a riscaldarsi e...»
«Windigo non è un uomo» tagliò corto il padre, ma la sua espressione era dolce «Te lo spiegherò meglio quando avrò finito di parlare con il capotribù».
«Windigo non è un uomo» tagliò corto il padre, ma la sua espressione era dolce «Te lo spiegherò meglio quando avrò finito di parlare con il capotribù».
L’espressione perplessa del bambino
lo divertì sinceramente, ma trattenne la risata per non rischiare di
offenderlo.
«Come non lo è? » esclamò poco
convinto.
«Non lo è» ripeté suo padre «Ora
vai dagli altri bambini. Ti insegnerò cos’è un windigo quando
avrò finito. Vai» gli ordinò, proseguendo per la tenda del
capotribù e lasciando indietro il piccolo cacciatore.
Tornando indietro con un’espressione
concentrata, l’anziana donna rise bonariamente « Che cos’hai?»
«Non so cos'è un Windigo. E mio padre
non mi vuole dire che cos'è» rispose il bambino
«Oh, ma te lo spiegherà...»
«Perchè tutti lo sapevano e io no?»
«Perchè tuo padre avrà dimenticato di dirtelo...»
«No!»
«Perchè tutti lo sapevano e io no?»
«Perchè tuo padre avrà dimenticato di dirtelo...»
«No!»
«No?»
«No» il piccolo abbassò la voce, vergognandosi di avere alzato il tono «Lui mi ha raccontato di ogni animale della foresta»
«Oh... ma Windigo non è un animale».
«No» il piccolo abbassò la voce, vergognandosi di avere alzato il tono «Lui mi ha raccontato di ogni animale della foresta»
«Oh... ma Windigo non è un animale».
Se non era un animale e se non era un
uomo, pensò il bambino, allora doveva essere uno spirito.
Fece per aprir bocca, ma l’anziana
donna lo precedé «Tuo padre ti spiegherà tutto. Saprai cos’è un
Windigo molto presto e ti narrerà le sue leggende»
Il bambino aggrottò le sopracciglia,
poco convinto sul fatto che avrebbe dovuto aspettare «Gli altri
bambini anche sapranno cos’è? Nessuno ne parla»
«È buono che non se ne parli, Piccolo
Cacciatore»
«Perchè?»
«Perchè è astuto. E lo saprebbe. E
non preoccuparti, tuo padre te ne parlerà... in un posto sicuro.
Dopotutto tu devi saperlo».
Il bambino annuì e si allontanò per
fare una passeggiatina: sapeva per esperienza che quando suo padre
entrava nel tepee del capo ci rimaneva dentro per lungo tempo. Fu
allora che vide qualcosa che lo tirò molto su di morale: un
cerbiatto.
Il piccolo animale, appoggiato contro
il tronco di un albero, sembrava ferito ad una delle lunghe zampine,
ma curabile.
Si chiese dove fosse la sua mamma. Era
ancora piccino e se ne stava lì, acciambellato nell’erba alta,
probabilmente ad aspettare il suo ritorno. A meno che non le fosse
successo qualcosa…
Scosse la testa: la mamma doveva essere
andata alla ricerca di cibo, stava bene e la ferita del cerbiatto non
era più grave di qualche graffio. Lui e gli altri bambini se ne
facevano in continuazione e stavano tutti bene.
Raccolse dell’erba la divise in due
mazzi, uno per ogni mano: quel piccolo cerbiatto gli sembrava davvero
molto piccolo e suo padre gli aveva detto che non doveva toccare i
cuccioli troppo piccoli a mani nude. Anche se pure lui era ancora un
cucciolo.
Però, mentre la gente del suo popolo
era intelligente e sapeva riconoscere il suo simile anche se aveva
uno strano odore, molti popoli dei boschi erano spaventati dall'odore
dell'uomo al punto tale che se lo sentivano su un loro cucciolo lo
avrebbero persino potuto rinnegare.
«Tieni» Disse il bambino, tendendo
uno dei ciuffetti d'erba verso il cerbiatto «Mangia».
Il cerbiatto lo guardò con
circospezione, i grandi occhi scuri e umidi saettarono dai vegetali
al suo volto. Le orecchie tremavano in modo buffo sul capo, girandosi
avanti e indietro, ripiegandosi appena e poi drizzandosi ancora.
Il Piccolo Cacciatore si chiese che
gusto ci poteva essere ad uccidere un animale così grazioso ed
innocente. Una volta aveva sentito qualcuno degli adulti dire che era
meglio uccidere il piccolo che la madre perché il piccolo non
avrebbe saputo che cosa fare da solo, ma a quel punto non era meglio
lasciarli stare e basta? Bah. Non li capiva e non gli piaceva.
Diffidente, il cerbiatto ci mise un po’
a decidere se mangiare o no, ma alla fine la sua fame ebbe la meglio.
Si allungò verso l’erbetta e cominciò a mangiarla.
«Sei buffo!» Gli disse.
Il cerbiatto smise di mangiare e lo
guardò con gli occhioni scuri dilatati. Il bambino non sorrise
perchè sapeva che sono i predatori a mostrare i denti e rimase a
guardarlo in silenzio.
Il piccolo erbivoro ritornò a brucare
e finì tutto il piccolo cespo.
Il bambino si guardò intorno: sembrava
che la madre non ci fosse, voleva dire che il piccolo si era
allontanato da solo. Ma con quella zampa ferita? Qualcuno doveva
averlo portato fino a lì.
Forse l’aveva lasciato lì per farsi
inseguire dai predatori, seminarli e tornare indietro. Avrebbe potuto
metterci tanto tempo e chissà da quanto era fuggita via, lasciando
il suo cucciolo tutto solo ed indifeso.
Sì, si disse, forse stava cercando
proprio di seminare dei predatori!
E se fossero tornati? Non poteva
permettere che succedesse qualcosa a quel cerbiatto!
Così rimase lì, a vegliarlo. Dopo
quasi un'ora, il cerbiatto smise di sembrare tanto guardingo,
persuaso che il bambino non voleva fargli del male, e cercò di
stringersi a lui, che però si allontanò, non volendo toccarlo.
La creaturina però non capiva perché
l’altro si allontanasse e, cercando di calore, si alzò in piedi
sulle lunghe zampe malferme, muovendo dei passi verso di lui.
Al Piccolo Cacciatore ricordò un
ragnetto per come lo vide camminare e lo trovò ancora più
simpatico.
«Giù» Gli disse, accompagnando la
parola con un gesto della mano «Giù!».
Il cervide seguì il movimento con la
testa con molto interesse. Sincronizzandosi, si raddrizzò e si
accucciò docilmente.
«Giù, ho detto!».
Passava di lì Kyaiyo, un ragazzetto di
tredici anni sempre intento a raccogliere erbe e appuntire paletti,
che sorprese il bambino a guardare il cerbiatto retrocedendo
lentamente.
«Fantastico!» Disse «Hai preso un piccolo cervo! Verrà buono per il pranzo di oggi... me ne lascerai un pezzetto?»
«Non l'ho preso!» rispose il figlio del cacciatore, ancora meno credibile quando il cerbiatto, vedendolo distratto, lo raggiunse e gli posò la testa contro la pancia per riscaldarsi il mento e parte del collo.
«Fantastico!» Disse «Hai preso un piccolo cervo! Verrà buono per il pranzo di oggi... me ne lascerai un pezzetto?»
«Non l'ho preso!» rispose il figlio del cacciatore, ancora meno credibile quando il cerbiatto, vedendolo distratto, lo raggiunse e gli posò la testa contro la pancia per riscaldarsi il mento e parte del collo.
«No!» quasi gridò, mentre si
allontanava con un salto «Se mi tocchi tua mamma non ti riconoscerà
più!»
«Ma che stai dicendo?» gli chiese
l’altro
«La verità!»
Il ragazzo più grande mosse gli occhi
dall’uno all’altro « Se non è tuo… » disse «… Allora lo
prendo io»
«No!»
Kyaiyo allungò una mano verso il
cerbiatto, ma questi, che non ne riconobbe l'odore, cercò di
zoppicare via.
«No!» Disse, imperiosamente, il figlio del cacciatore «Non toccarlo!»
«Hai detto che non è tuo! Sua madre non verrà mai a riprenderselo qui!»
«Si, si che verrà!»
«Ma l'hai toccato. E tu hai detto che sua mamma non lo riconoscerà più, giusto?» chiese il più grande, incrociando le braccia, ben piantato sulle gambe larghe
«No!» Disse, imperiosamente, il figlio del cacciatore «Non toccarlo!»
«Hai detto che non è tuo! Sua madre non verrà mai a riprenderselo qui!»
«Si, si che verrà!»
«Ma l'hai toccato. E tu hai detto che sua mamma non lo riconoscerà più, giusto?» chiese il più grande, incrociando le braccia, ben piantato sulle gambe larghe
«Questo non centra niente!» alzò la
voce il Piccolo Cacciatore «Lei non è stupida e lo riconoscerà.
Non gliel’ho lasciato ancora addosso l’odore»
«Ma ti ha toccato»
«Non c’entra niente!» si arrabbiò
il Piccolo Cacciatore «Vattene via!»
«Sì, ma porto lui con me!»
«Allora è mio!» mise in chiaro il
bambino, parandosi davanti al cerbiatto.
Il ragazzo più grande rise divertito
«Ah, ci hai ripensato!»
«Si. Si, è mio»
«Ok. Stammi bene» salutò rispettosamente Kyaiyo, poi allungò una mano verso il cerbiatto come per carezzargli il capo, ma il Piccolo Cacciatore gli fermò il braccio
«È mio»
«D'accordo» il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, si ritrasse: non aveva mai visto quel bambino così ostile e non ci teneva a contrariare il figlio del miglior cacciatore del villaggio, altrimenti le avrebbe buscate da tutti e due i propri genitori.
«Ok. Stammi bene» salutò rispettosamente Kyaiyo, poi allungò una mano verso il cerbiatto come per carezzargli il capo, ma il Piccolo Cacciatore gli fermò il braccio
«È mio»
«D'accordo» il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, si ritrasse: non aveva mai visto quel bambino così ostile e non ci teneva a contrariare il figlio del miglior cacciatore del villaggio, altrimenti le avrebbe buscate da tutti e due i propri genitori.
Il Piccolo Cacciatore rimase a fissare
il ragazzo andare via finché non sparì. Non si fidava per niente.
Fortuna che tutti temevano e rispettavano suo padre!
Solo che… se mamma cerbiatta non
tornava più che cosa avrebbe dovuto fare col suo cucciolo? Al
villaggio lo avrebbero mangiato di sicuro come desiderava tanto
Kyaiyo! E se l’avesse portato via e lei fosse tornata poco dopo?
Si voltò a guardare il cerbiattino: la
creaturina lo fissava con i suoi occhi neri e liquidi e le grandi
orecchie dritte sulla testolina.
Suo padre, certamente, avrebbe saputo
che cosa fare con quel piccolo animale. E fu questo a spaventare di
più il Piccolo Cacciatore: che suo padre sapesse esattamente cosa
fare: ucciderlo.
Doveva nasconderlo, nasconderlo senza toccarlo ancora, e questo era difficile, molto difficile, anche perchè doveva curare la zampa dell'animale, applicare alcune erbe, nutrirlo e proteggerlo. Forse doveva adottarlo, come molti altri facevano con i cani che tirano le slitte e che aiutano nella caccia?
Doveva nasconderlo, nasconderlo senza toccarlo ancora, e questo era difficile, molto difficile, anche perchè doveva curare la zampa dell'animale, applicare alcune erbe, nutrirlo e proteggerlo. Forse doveva adottarlo, come molti altri facevano con i cani che tirano le slitte e che aiutano nella caccia?
Sì, forse avrebbe dovuto farlo. Ma
doveva essere l’ultima soluzione.
Avrebbe dovuto essere furbo: avrebbe
dovuto farsi dei guanti con fili d’erba intrecciati per toccare la
bestiola senza passargli il suo odore. Avrebbe dovuto creare un
nascondiglio lì vicino, ma non troppo vicino, altrimenti sarebbe
davvero stato come portarlo via alla mamma… era impossibile, ammise
disperato. Che cosa doveva fare?
Fu allora che sentì i passi di
qualcuno avvicinarsi e fu una vera fortuna sentirli, perchè di
solito i piedi di suo padre non emettevano quasi rumore a contatto
con il suolo. Fu un momento di silenzio assoluto.
Il bambino avrebbe voluto spingere via il cerbiatto, ma non voleva toccarlo, e suo padre era lì, vicinissimo, ed eccolo che lo vide, con un sorriso leggero dipinto sul volto adulto.
«Papà...» Iniziò il bambino
«La foresta ci ha mandato un dono» rispose il padre
«Papà, non mangiamolo, non è ferito gravemente, e poi è piccolo, ha poca carne...» iniziò a supplicarlo il figlio
«D'accordo» gli occhi dell'uomo brillavano «Crescerà»
Il bambino avrebbe voluto spingere via il cerbiatto, ma non voleva toccarlo, e suo padre era lì, vicinissimo, ed eccolo che lo vide, con un sorriso leggero dipinto sul volto adulto.
«Papà...» Iniziò il bambino
«La foresta ci ha mandato un dono» rispose il padre
«Papà, non mangiamolo, non è ferito gravemente, e poi è piccolo, ha poca carne...» iniziò a supplicarlo il figlio
«D'accordo» gli occhi dell'uomo brillavano «Crescerà»
Sotto lo sguardo pietrificato del
Piccolo Cacciatore si fece avanti e sollevò tra le sue braccia il
piccolo cerbiatto, sistemandoselo sulle spalle.
La creaturina cominciò a scalciare
invano, troppo debole per contrastare la stretta dell’uomo sulle
sue sottili zampette e bastò quello per far scattare il bambino.
Crescerà.
“Crescerà” stava per “lo
nutriremo finché non sarà buono da mangiare”.
«NO!» gridò, parandosi davanti al
Cacciatore e facendogli dilatare appena gli occhi per lo stupore.
«Lui è mio!» Ripeté il Piccolo
Cacciatore «E non lo mangeremo!».
Il padre lo guardò in modo strano,
mentre il cerbiatto iniziava ad emettere dei brevi belati spaventati
e scalciava più forte. Il bambino temette che la povera creatura
potesse rompersi le zampe, non conoscendo quanto in realtà quei
sottili arti fossero robusti.
«Perché?» Domandò l'uomo
«Perché voglio tenerlo» rispose suo figlio, a voce un pò più bassa, moderandosi «Voglio... vederlo grande. Non riuscirò a mangiarlo se lo cresciamo e se è troppo piccolo non è buono da mangiare».
Il padre aprì bocca per parlare, per negargli quel capriccio ed educare il suo erede, quando un verso lontano, a metà fra il verso tonante del cervo e il lamento di un cane, lo fermò. I suoi occhi guardarono verso il bosco, poi verso il cerbiatto che aveva fra le braccia e infine verso suo figlio.
«La foresta vuole che lo tieni» Disse pensieroso, ma un tocco di paura colorò la fine della frase, un tieni più acuto e flebile insieme
«Perché?» Domandò l'uomo
«Perché voglio tenerlo» rispose suo figlio, a voce un pò più bassa, moderandosi «Voglio... vederlo grande. Non riuscirò a mangiarlo se lo cresciamo e se è troppo piccolo non è buono da mangiare».
Il padre aprì bocca per parlare, per negargli quel capriccio ed educare il suo erede, quando un verso lontano, a metà fra il verso tonante del cervo e il lamento di un cane, lo fermò. I suoi occhi guardarono verso il bosco, poi verso il cerbiatto che aveva fra le braccia e infine verso suo figlio.
«La foresta vuole che lo tieni» Disse pensieroso, ma un tocco di paura colorò la fine della frase, un tieni più acuto e flebile insieme
«Lo terrò bene» promise il bambino
alla foresta, ma rivolgendosi al padre, con sentimento e già
s’immaginò dormire accanto al cerbiattino nella sua tenda e a come
nutrirlo ogni giorno.
S’immaginò, però, anche come
proteggerlo da tutta la sua tribù. Suo padre sarebbe stato un ottimo
garante, ma il pensiero che qualcosa potesse andare storto lo
innervosiva molto.
Fu così che il cerbiatto venne
adottato dal bambino e battezzato "Lippie". Venne curato
dall'uomo, che gli fasciò la zampetta con le grandi felci dopo
averci applicato un impasto di cansisila e crisantemo e dopo poche
ore ogni dolore scomparve e permise all'animale di iniziare a
zampettare in giro, se non con sciolteza, almeno con più sicurezza e
senza sembrare sul punto di cadere, anche se a ben vedere i piccoli
cervi sembravano sempre sul punto di capitombolare sui lunghi arti
sottili.
Il Piccolo Cacciatore era felice. Felice che Lippie stesse bene, che suo padre avesse cambiato idea e che la foresta sembrasse approvare!
Il Piccolo Cacciatore era felice. Felice che Lippie stesse bene, che suo padre avesse cambiato idea e che la foresta sembrasse approvare!
Tutti si affezionarono a Lippie perché
era dolce e curioso e, come tutti i cuccioli, con un grande appetito
e toccava al suo amico bipede evitare che questi mangiasse qualsiasi
cosa che, poco poco, non veniva sorvegliata. Più volte rubò qualche
ingrediente alla moglie dello sciamano, ma lei rideva. E ridevano
tutti. Anche suo marito e il capotribù.
Lippie era proprio buffo. E con una
grande faccia di bronzo!
Con il tempo, il piccolo iniziò a
crescere e lo fece molto più in fretta di quanto il Piccolo
Cacciatore avesse mai immaginato. Le sue zampe si irrobustirono,
anche se non di molto, il collo iniziò a diventare più spesso,
l'appetito più grande. Venne l'inverno e il bambino ebbe paura che
Lippie mangiasse le provviste della tribù, ma il cervo lo sorprese
mangiando la dura corteccia degli alberi, facendogli chiedere come
fosse possibile trarre nutrimento da quella scorza fredda e spessa.
Eppure Lippie ne pareva ghiotto e a
volte lo guardava a lungo con quei suoi grandi occhi liquidi che
parevano chiedersi perché mai il suo amichetto non lo imitasse.
Il Cacciatore aveva accettato il nuovo
membro della famiglia e, di tanto in tanto, quando era ora di
mettersi a dormire, augurava la buona notte ad entrambi, dicendo
“Buona notte, figliolo. Buona notte, Lippie.” E il Piccolo
Cacciatore era felice di ciò! Soprattutto del fatto che suo padre
accettasse la sporadica invadenza del giovane cervo.
Poi la neve iniziò a sciogliersi e i
primi fiori cominciarono a spuntare, bucando le brevi distese ancora
candide con boccioli rosa, gialli e bianchi. Lippie, ormai grande due
volte un cane, iniziò a mostrare sulla fronte, un tempo liscia, due
piccoli abbozzi di corna.
Il Piccolo Cacciatore era eccitato, sperava che spuntassero due palchi enormi, ma suo padre gli spiegò che le corna dei giovani cervi erano molto, molto più piccole di quelle degli adulti.
Il Piccolo Cacciatore era eccitato, sperava che spuntassero due palchi enormi, ma suo padre gli spiegò che le corna dei giovani cervi erano molto, molto più piccole di quelle degli adulti.
La notizia deluse tantissimo il figlio
del cacciatore, ma divertì quest’ultimo. Chissà, forse gli
sarebbero diventate enormi la primavera dopo. Oppure la seguente
ancora.
«È importante che siano grandi? »
gli chiese il Cacciatore una sera, durante la cena.
«Gli starebbero bene» affermò il
bambino.
«Sai… » fece suo padre in tono
lento, quasi pensieroso e distante «… Oggi Lippie mi ha detto che
ti trova più alto»
Il bambino sorrise. Non aveva mai
capito se suo padre davvero sapesse parlare con gli animali o meno,
ma una grossa parte del suo pensiero scavalcava a piè pari quel
ragionamento, interessandosi solo del complimento. Era vero, il
Piccolo Cacciatore era diventato più alto, ma era così bello
sentirselo dire! Crescere era un magia.
L'umano e il cervo stavano crescendo insieme, solidi e rigogliosi come le chiome degli alberi.
«Grazie» Disse il bambino
«Non devi ringraziare» rispose suo padre, senza guardarlo «Ho solo detto il vero» continuò.
L'umano e il cervo stavano crescendo insieme, solidi e rigogliosi come le chiome degli alberi.
«Grazie» Disse il bambino
«Non devi ringraziare» rispose suo padre, senza guardarlo «Ho solo detto il vero» continuò.
Il bambino non insisté poiché sarebbe
stato inutile.
«Domani all’alba partirò per tre
giorni»
«Tre giorni?»
«Così ho detto» affermò il
Cacciatore « Ci vorrà più tempo per cacciare questa volta. »
Il Piccolo Cacciatore fece silenzio e
rifletté a lungo sulla notizia « Papà, quando torni possiamo
andare a trovare la mamma?».
L’uomo s’irrigidì.
«Le farà piacere vedere Lippie.
Piacerà anche a lei! E io non mi ricordo più che faccia ha… Ti
prego».
Andare a trovare la mamma. Il piccolo
davvero anelava di poterla rivedere, la sua immagine era ormai una
confusa macchia di femminilità, lunghi capelli scuri e mani dalla
forma delicata.
«No» Rispose il padre.
Questa volta, il Piccolo Cacciatore volle insistere
«Hai anche detto che sono più alto! Sono più grande, posso venire a caccia con te!»
«Questa sarà caccia grossa»
«Voglio venire! Quando imparerò? E perchè vai a caccia grossa da solo?»
«Perchè gli altri mi sarebbero d'impiccio. Bisogna essere molto esperti per andare a cacciare grossi animali»
«No» Rispose il padre.
Questa volta, il Piccolo Cacciatore volle insistere
«Hai anche detto che sono più alto! Sono più grande, posso venire a caccia con te!»
«Questa sarà caccia grossa»
«Voglio venire! Quando imparerò? E perchè vai a caccia grossa da solo?»
«Perchè gli altri mi sarebbero d'impiccio. Bisogna essere molto esperti per andare a cacciare grossi animali»
Da una parte il Piccolo Cacciatore fu
felice che suo padre non gli avesse detto che gli avrebbe insegnato a
cacciare, ma dall’altra il pensiero di non poter vedere sua madre
l’angosciava.
« Ma se vai a caccia di grossi animali
avrai bisogno di aiuto. » osservò.
« No. » disse lui soltanto « Un
giorno sarai tu ad aiutarmi, ma fino ad allora resterai qui. »
Un lungo e pesante silenzio calò su di
loro. Suo padre continuò a mangiare in silenzio, senza guardarlo
come al solito e Lippie mosse incerto un orecchio indietro per i loro
malumori. Il bambino invece rimase con il boccone a mezz’aria,
torvo.
«L’altro giorno…» Disse il
Piccolo Cacciatore, prendendo coraggio e spezzandolo «… Koko ha
detto che la mamma era brava a cacciare»
«Lo ha detto a te?» chiese l’uomo
diretto e mettendolo subito in difficoltà.
«… Lo ha detto ad una sua amica»
«Le hai spiate?» gli domandò.
Il bambino non rispose, ma il suo
silenzio fu eloquente.
«Se ne sono accorte?»
«No» rispose il bambino,
immediatamente.
Sapeva che spiare era sbagliato, ma sapeva anche meglio che suo padre ammirava le persone silenziose e capaci di non farsi sorpresere.
L'adulto mangiò un'altro boccone, masticando con deliberata lentezza.
Sapeva che spiare era sbagliato, ma sapeva anche meglio che suo padre ammirava le persone silenziose e capaci di non farsi sorpresere.
L'adulto mangiò un'altro boccone, masticando con deliberata lentezza.
« Bene. Perché se ti avessero
scoperto sarebbe stata una grande vergogna. » disse severo.
Il bambino chinò il capo senza sapere
che altro dire. Gli mancava tanto sua madre e tutto quello che sapeva
di lei dagli altri membri della tribù erano che era una brava
danzatrice, cantante e cacciatrice. Nient’altro. Forse era brava a
fare le collane di perline e a conciare la pelle, ma non l’aveva
mai chiesto a nessuno e nessuno aveva pensato che potesse
interessargli.
Se Lippie non si fosse avvicinato a suo
padre per annusargli indiscretamente la cena non avrebbero più
parlato. Il Piccolo Cacciatore vide l’uomo allungare il braccio di
lato e portarlo fuori dalla sua portata.
«Ma perchè non andiamo a vedere la
mamma?» Provò ancora una volta il bambino «Non per la caccia.
Dopo».
Suo padre non rispose alla domanda, impegnato in una sorta di confronto con il cervo, il cui collo robusto sembrava sempre più inamovibile mentre si spingeva verso il piatto, portando la grossa testa in avanti, le labbra protese come per afferrare i bocconi.
«La tua bestia è testarda, figliolo»
«Papà, la mamma...»
«Digli di allontanarsi!»
«Lippie!» disse seccamente il bambino, poi saltò in piedi e si avvicinò all'animale, prendendo a spingerlo.
Ci volle qualche secondo per farglielo capire, ma alla fine il grosso erbivoro comprese e si allontanò in un lento tramestio di zoccoli.
Malinconico, il bambino si voltò un’ultima volta verso l’adulto.
Suo padre non rispose alla domanda, impegnato in una sorta di confronto con il cervo, il cui collo robusto sembrava sempre più inamovibile mentre si spingeva verso il piatto, portando la grossa testa in avanti, le labbra protese come per afferrare i bocconi.
«La tua bestia è testarda, figliolo»
«Papà, la mamma...»
«Digli di allontanarsi!»
«Lippie!» disse seccamente il bambino, poi saltò in piedi e si avvicinò all'animale, prendendo a spingerlo.
Ci volle qualche secondo per farglielo capire, ma alla fine il grosso erbivoro comprese e si allontanò in un lento tramestio di zoccoli.
Malinconico, il bambino si voltò un’ultima volta verso l’adulto.
«Mi manca tanto, papà» Gli disse
«Voglio davvero rivederla»
Suo padre non gli rispose.
«Finisci di mangiare» gli disse poi,
alzandosi ed uscendo dalla tenda in silenzio. Lippie scelse proprio
quel suo momento di distrazione per rubargli le verdure dal piatto
con un gran rumore.
Il bambino rise, ma fu solo un momento.
Fu allora che decise: se suo padre non voleva portarcelo, ci sarebbe
andato da solo. Dopotutto il suo genitore sarebbe stato via per tre
giorni, un sacco di tempo, e sebbene nella sua memoria le fattezze di
sua madre fossero sfuocate, ricordava ancora il sentiero, le grosse
pietre che lo segnavano, il fatto che suo padre avesse scalfito le
cortecce degli alberi per poterlo ritrovare.
O almeno credeva di ricordarlo.
O almeno credeva di ricordarlo.
Preparò le provviste il mattino
seguente, dopo che suo padre era partito da ore. Non si sarebbero mai
incrociati ed aveva pensato a tutte le precauzioni per non perdersi.
Aveva rubacchiato, senza farsi vedere,
ovunque e da chiunque, caricando la sacca con qualcosa di più
rispetto allo stretto necessario; solo per star sicuro.
Il suo amico cervide sembrava in
qualche modo felice di quella partenza.
Avrebbe dovuto portarlo con sé o
lasciarlo al villaggio? Decise che non avrebbe deciso, Lippie tanto
faceva tutto di testa sua e poteva scegliere di seguirlo oppure no.
Non doveva preoccuparsi troppo delle tracce che avrebbero lasciato, i
cervi sono delicati, si muovono con attenzione nel sottobosco, e dopo
un giorno le loro tracce erano già scomparse, figuriamoci dopo
tre.
Così attese che suo padre partisse, cercando di contenere l'eccitazione per quella sorta di fuga, sicuro che, in qualche modo, suo padre l'avrebbe fiutata.
Così attese che suo padre partisse, cercando di contenere l'eccitazione per quella sorta di fuga, sicuro che, in qualche modo, suo padre l'avrebbe fiutata.
Perché era praticamente impossibile
riuscire a nascondergli qualcosa. A meno che non gli interessasse; ma
una bravata del genere gli sarebbe interessata in ogni caso. E poi
nessuno al villaggio si faceva gli affari suoi. Purtroppo.
Uscì dal retro della tenda per non
camminare sotto gli occhi di tutti e se ne andò, passeggiando con
Lippie, con tutta la calma di cui era capace. Nessuno s’interessò
a lui per il fatto che stesse andando verso il bosco, perché anche
quel giorno ai bambini era stato raccomandato di raccogliere la
resina. E poi molti bambini andavano a giocare lì. Spero di non
incontrarne nessuno.
«Dobbiamo stare molto attenti,
Lippie».
Il cervo ruotò le orecchie indietro,
poi di nuovo in avanti, e abbassò il capo come faceva quando sapeva
che qualcuno si stava avvicinando. Grazie a quel gesto, il Piccolo
Cacciatore riuscì a deviare per fare finta di non stare dirigendosi
nel fitto della foresta, il tempo necessario per cui quando un adulto
passò di lì sembrò solo che il bambino puntasse ad un gruppo di
alberi non troppo distanti per raccoglierne la preziosa
resina.
«Grazie» Mormorò quando fu al sicuro, ma Lippie parve non farci caso e trottò avanti, puntando dritto verso il bosco, per iniziare a sgranocchiare i teneri germogli verdi che facevano capolino dalle punte dei rami scuri.
«Grazie» Mormorò quando fu al sicuro, ma Lippie parve non farci caso e trottò avanti, puntando dritto verso il bosco, per iniziare a sgranocchiare i teneri germogli verdi che facevano capolino dalle punte dei rami scuri.
Al giovane cervo piaceva molto
saltellare per la foresta e mangiarne i frutti; anche se il Piccolo
Cacciatore sospettava provasse molto più gusto a rubare il cibo a
suo padre. Se non gli dava parte della sua cena, Lippie andava sempre
da suo padre ad intercettargli il boccone.
L’uomo non ne era molto felice, ma il
bambino lo trovava sempre divertente.
Trovare il sentiero dei suoi ricordi
non fu affatto facile. Innanzitutto, tutto era cambiato e diverso da
come se lo ricordava. Ed individuare i segnali non fu affatto
semplice!
Non si aspettava niente di meno, ma il
tempo scorreva e il bambino non voleva sprecarlo!
I suoi passi frusciavano appena sul
letto spesso di aghi morti, spezzto qui e lì dai ciuffetti di erba
scura e coriacea che osavano crescere nel fitto quasi nero del bosco.
I rami più bassi dei pini, a causa della mancanza di luce, erano
completamente defogliati e si tendevano nudi sopra la testa del
bambino, simili a mani dal palmo troppo lungo e sottile.
Sulla corteccia, di un bruno scuro, risaltavano i segni bianchi e rosati, a volte con violente sfumature rosse come di artigliate, ferite profonde, che suo padre aveva lasciato per segnare il sentiero.
«È la strada giusta» Disse il bambino, ad alta voce, per farsi coraggio.
Aveva paura che la notte lo sorprendesse prima dell'arrivo, una paura, si disse, infondata perchè sua madre non poteva essere tanto lontana e lui non si sarebbe perso, i segni erano giusti.
Sulla corteccia, di un bruno scuro, risaltavano i segni bianchi e rosati, a volte con violente sfumature rosse come di artigliate, ferite profonde, che suo padre aveva lasciato per segnare il sentiero.
«È la strada giusta» Disse il bambino, ad alta voce, per farsi coraggio.
Aveva paura che la notte lo sorprendesse prima dell'arrivo, una paura, si disse, infondata perchè sua madre non poteva essere tanto lontana e lui non si sarebbe perso, i segni erano giusti.
Certo che, se non era così lontana dal
villaggio, gli sembrava veramente strano che non potessero andare a
trovarla. Forse era contagiosa, pensò il bambino, ma in quel caso le
avrebbe parlato da lontano. Le avrebbe mostrato Lippie e le avrebbe
tirato i regali che le aveva portato. Aveva preso anche qualche
leccornia da condividere. Le avrebbero fatto piacere, ne era sicuro!
Qualcosa sfrecciò nel sottobosco,
basso e di un colore indefibile fra il rosso mattone e il marrone,
forse persino un grigio stranamente carico. Il Piccolo Cacciatore in
altre circostanza avrebbe riconosciuto subito la volpe, il suo passo
rapido e dritto, l'odore selvatico intenso che si trascinava dietro,
ma qualcosa nell'atmosfera scura del bosco lo fece esitare e gli fece
immaginare qualcos'altro come un grosso serpente, finchè non si
accorse che l'animale doveva avere per forza le zampe, con il passo
che aveva.
E poi Lippie non sembrava inquieto, era tranquillo e disteso.
E poi Lippie non sembrava inquieto, era tranquillo e disteso.
Ci avrebbe pensato Lippie ad
avvertirlo.
Il vero problema però, venne quando
l’oscurità, portata dal tramonto, lo colse dopo le sue numerose
brevi pause. Di certo non dovevano essere lontani: le pietre erano
lì, a segnare la via e il viaggio non avrebbe dovuto durare più di
un giorno. Forse durava di più perché era un bambino ed aveva le
gambe corte…
Decise comunque di fermarsi e di non
proseguire. Decise di pensare di andare trovare un posto dove
nascondersi assieme a Lippie. In altri casi si sarebbe arrampicato su
un albero e ci avrebbe dormito su, ma il suo amico non avrebbe potuto
(e poi era troppo pesante per lui da issare con le corde!), quindi si
misero alla ricerca di grossi massi ravvicinati che avrebbero potuto
creare un antro dove infilarsi e la cui porta avrebbe potuto essere
barricata da rami appuntiti.
La foresta gli sembrava tranquilla, ma
la notte gli appariva spaventosa al di fuori del villaggio!
E da solo non si era mai spinto troppo
oltre. Il verso lamentoso di un uccello notturno squarciò la notte,
ma il cervo continuò tranquillo e trovò una zona riparata prima
ancora che il bambino lo facesse.
E... magia! Dietro i grossi massi e la catasta di rami, in lontananza, si poteva scorgere la casetta in cui avrebbe dovuto abitare la mamma: il tettuccio di legno brillava nella luce della luna, nella piccola radura sgombra da alberi.
«L'abbiamo trovata!» Esclamò il bambino, aggrappandosi ai corti ciuffi di pelo sul fianco di Lippie «L'abbiamo trovata!».
Prese a correre attraverso gli alberi, dritto verso la casetta, i pugni stretti, un sorriso dipinto sul volto, con il cervo che lo seguiva come un cane.
« Mamma! Mamma! » chiamò il Piccolo Cacciatore che ancora non aveva raggiunto la costruzione « Mamma! Mamma! » chiamò ancora.
E... magia! Dietro i grossi massi e la catasta di rami, in lontananza, si poteva scorgere la casetta in cui avrebbe dovuto abitare la mamma: il tettuccio di legno brillava nella luce della luna, nella piccola radura sgombra da alberi.
«L'abbiamo trovata!» Esclamò il bambino, aggrappandosi ai corti ciuffi di pelo sul fianco di Lippie «L'abbiamo trovata!».
Prese a correre attraverso gli alberi, dritto verso la casetta, i pugni stretti, un sorriso dipinto sul volto, con il cervo che lo seguiva come un cane.
« Mamma! Mamma! » chiamò il Piccolo Cacciatore che ancora non aveva raggiunto la costruzione « Mamma! Mamma! » chiamò ancora.
Ma nessuno gli rispose.
Si fermò davanti la porta e cominciò
a battere i piccoli pugni sulla superficie di legno « Mamma, sono
io! Fammi entrare! »
Alle sue spalle il giovane cervo si
lamentò e trotterellò verso la finestra chiusa da delle assi. Il
bambino lo vide e lo seguì in fretta, rovesciando un secchio lì
vicino per salire ed aver modo di vedere meglio dentro.
L'interno della casa, sbirciato da uno
spiraglio fra le assi, era scuro e immobile. Il letto, ben visibile,
era vuoto.
«Mamma» Mormorò.
Non c'era nessuno, lì dentro. Nessuno.
Strinse i pugni.
«Mamma!» Gridò, pur sapendo che era inutile: lo vedeva benissimo che non c'era nessuno.
E invece qualcosa, un tocco gentile, gli sfiorò la spalla.
Il Piccolo Cacciatore si voltò di scatto e vide stagliarsi dietro di sé una figura di cui non distinse i tratti, troppo scura perchè la luce della luna, alle sue spalle, ne sottolineava solo i contorni. E in cima alla figura, un paio di corna ramificate, alte, possenti e bellissime.
«Mamma» Mormorò.
Non c'era nessuno, lì dentro. Nessuno.
Strinse i pugni.
«Mamma!» Gridò, pur sapendo che era inutile: lo vedeva benissimo che non c'era nessuno.
E invece qualcosa, un tocco gentile, gli sfiorò la spalla.
Il Piccolo Cacciatore si voltò di scatto e vide stagliarsi dietro di sé una figura di cui non distinse i tratti, troppo scura perchè la luce della luna, alle sue spalle, ne sottolineava solo i contorni. E in cima alla figura, un paio di corna ramificate, alte, possenti e bellissime.
Il bambino non aveva mai visto nulla di
simile. Era enorme e slanciato e, anche se non sembrava ostile, gli
mise paura e sentì tutti i suoi arti paralizzarsi come fossero fatti
di pietra.
Che cosa doveva fare? Scappare?
Parlare? Nascondersi? Chiedere scusa?
Aprì bocca ma nessun suono ne uscì.
La creatura si mosse fluidamente,
sebbene le sue lunghe braccia facessero supporre nodose e forti
articolazioni scrocchianti e il collo, che reggeva il peso di una
testa coronata da un palco tanto imponente, fosse forte come
metallo.
La creatura emise un suono.
Il bambino non lo capì, o forse gli parve di non capirlo.
Lippie era allarmato, ma non stava fuggendo.
La creatura emise un suono.
Il bambino non lo capì, o forse gli parve di non capirlo.
Lippie era allarmato, ma non stava fuggendo.
E se Lippie non stava fuggendo non
c’era motivo di scappare. O forse no? Forse non fuggiva solo perché
quell’enorme creatura gli ricordava un cervo con quelle enormi
corna. Un cervo umanoide.
Lì per lì pensò che fosse un uomo in
abito cerimoniale. Avrebbe avuto senso! Ma non aveva mai visto un
uomo così grande!
La creatura ripeté nuovamente il verso
e il Piccolo Cacciatore non riuscì a comprenderlo, ma quando la vide
chinarsi su di lui, tutto divenne nero. Doveva riuscire a parlarle.
«Dov’è la mia mamma?» domandò con
voce acuta.
Lippie indietreggiò emettendo un verso
lamentoso, gli occhi che roteavano come a cercare una via di fuga. Il
cuore del Piccolo Cacciatore batteva come un tamburo di guerra e per
la prima volta il bambino lo sentì con tutta la sua forza, un grosso
peso forte e umido dentro al petto.
La creatura gli afferrò entrambe le
spalle con lunghe dita forti, dotate di artigli corti, ma simili a
piccoli uncini metallici e scuri, e con delicatezza lo spostò,
spingendolo, facendolo claudicare fino ad un punto dove la luce della
luna li illuminava entrambi. Con metà della faccia visibile, la
creatura sembrava un antico spettro, uno spirito della foresta, ma
non tanto malevolo, visto il grande occhio scuro che fissava il
bambino con dolcezza. La dolcezza di una madre.
Poteva essere nel corpo di una bestia,
e il Piccolo Cacciatore non sapeva che malattia fosse, ma sotto quel
pelo chiaro, il muso dai denti forti, le orecchie cervine e i muscoli
ampi delle spalle, c'era sua madre.
E al bambino non interessava che
aspetto avesse o potesse avere. Ora potevano di nuovo stare insieme e
così l’abbracciò. Si buttò tra le sue braccia stringendosi a lei
come non aveva mai fatto con nessuno. Inspirò forte il suo odore, il
visino premuto nel suo petto e pensò che, in altri casi, non
l’avrebbe mai sopportato. Ma era il profumo della sua mamma e, in
quel momento, non gli parve esistere odore più bello!
Lacrime calde gli rigarono le guance e,
stringendosi a lei sempre più forte, sentì premere contro di lui
qualcosa di piccolo e duro: la collanina che aveva fatto insieme
tanti anni prima. Il Piccolo Cacciatore e suo padre ne avevano due
identiche. Era proprio lei! Non si era sbagliato e non era un sogno!
Era lei!
E sua madre ricambiò l'abbraccio con
quella che pareva passione dettata dall'amore, ma con un corpo
curiosamente troppo freddo, come se fosse la carcassa di un cervo di
quelle che suo padre portava a casa dopo lunghe ore di caccia, con la
gola tagliata ancora sporca di sangue rappreso.
«Mamma» Mormorò, la guancia affondata nel pelo della spalla di lei «Che cosa è successo?».
Una voce diversa rispose, maschile, familiare
«Cosa ci fai qui?».
Suo padre era lontano, in mezzo agli alberi, in piedi, e la sua pelle scura sembrava luccicare. La paura del bambino ritornò a pulsare come poco prima, ma il coraggio si fece strada in mezzo alla massa scura e gelida di quel terrore e lo portò alla sfida
«Perchè non me lo avevi detto?!» gridò.
Suo padre parve spaventato da quella domanda, ma rispose poco dopo
«Cosa pensavi che potessi dirti? Che cosa? Che tua madre era il Windigo?».
«Mamma» Mormorò, la guancia affondata nel pelo della spalla di lei «Che cosa è successo?».
Una voce diversa rispose, maschile, familiare
«Cosa ci fai qui?».
Suo padre era lontano, in mezzo agli alberi, in piedi, e la sua pelle scura sembrava luccicare. La paura del bambino ritornò a pulsare come poco prima, ma il coraggio si fece strada in mezzo alla massa scura e gelida di quel terrore e lo portò alla sfida
«Perchè non me lo avevi detto?!» gridò.
Suo padre parve spaventato da quella domanda, ma rispose poco dopo
«Cosa pensavi che potessi dirti? Che cosa? Che tua madre era il Windigo?».
«Sì!» affermò il figlio «Perché
se è malata e non è contagiosa, avremmo potuto farle compagnia!
Saremmo stati tutti insieme! Se la tribù non la vuole non importa!»
continuò «Perché noi non abbiamo bisogno di loro! Dobbiamo stare
tutti e quattro insieme!».
Suo padre non lo rimproverò per
avergli mancato di rispetto urlandogli contro. Lo lasciò sfogare,
rimanendo lontano, con le braccia lungo i fianchi e un’espressione
indecifrabile dipinta sul volto.
«… Tu… credi che sia malata?» Gli
domandò piano
«Sì, certo. Me l’hai sempre detto
tu!»
Suo padre aprì la bocca, ma non parlò.
Non subito «Tua mamma ha fatto… una scelta».
Fu allora che lo notò: l'odore di
sangue nell'aria. Sottile, non immediato, ma chiaramente sangue. Lo
ignorò: sapeva che qualunque animale poteva essere morto lì, che
era la capanna di sua madre, la moglie del miglior cacciatore del
villaggio, dunque migliore cacciatrice. Che male c'era se aveva
ucciso qualche bestia per nutrirsene? Doveva essere faile, se usava
quelle corna così possenti e affilate, capaci di sventrare un caribù
o una lince come se fosse un pesciolino sotto un coltello.
«Che scelta?» Domandò il bambino
«Essere la migliore di tutti» rispose suo padre.
Sua madre allora parlò: la sua voce era ancora femminile, ma arruginita, distorta, non difficile da capire, ma così inumana da fare male e si poteva capire perchè non avesse parlato fino ad ora
«Cacciare quello che nessuno si spinge a cacciare».
L'uomo si avvicinò a passo rapido al bambino che non riusciva a rimanere immobile, si spostava adesso da un piede all'altro per evitare di tremare. Faceva freddo.
Il Windigo non disse più nulla, fu il padre a parlare
«Pensaci, figliolo, pensaci! Cos'è che solo un lupo su mille, un lupo molto audace, può cacciare?»
«Non lo so, papà... un alce maschio?»
«No. No. Un branco di lupi, sebbene con fatica, può abbattere un alce maschio ed ho già visto grossi branchi tentare. E riuscire»
«Allora non lo so, papà»
«Una slitta. Dall'Est, oltre il mare, vengono dei cacciatori pallidi che pensano di poter sfidare le regioni più gelide, o anche i nostri inverni, senza essere preparati come noi. I lupi più astuti li cacciano, lo sai?»
«Cacciano gli uomini?»
«Si. Li sfiancano, piano piano, notte dopo notte, liberano i loro cani, a volte li mangiano, a volte li accettano nel loro branco. Evitano i fucili. Gli uomini bianchi non hanno pazienza, pian piano impazziscono, non possono fronteggiarli e divengono prede»
«Che scelta?» Domandò il bambino
«Essere la migliore di tutti» rispose suo padre.
Sua madre allora parlò: la sua voce era ancora femminile, ma arruginita, distorta, non difficile da capire, ma così inumana da fare male e si poteva capire perchè non avesse parlato fino ad ora
«Cacciare quello che nessuno si spinge a cacciare».
L'uomo si avvicinò a passo rapido al bambino che non riusciva a rimanere immobile, si spostava adesso da un piede all'altro per evitare di tremare. Faceva freddo.
Il Windigo non disse più nulla, fu il padre a parlare
«Pensaci, figliolo, pensaci! Cos'è che solo un lupo su mille, un lupo molto audace, può cacciare?»
«Non lo so, papà... un alce maschio?»
«No. No. Un branco di lupi, sebbene con fatica, può abbattere un alce maschio ed ho già visto grossi branchi tentare. E riuscire»
«Allora non lo so, papà»
«Una slitta. Dall'Est, oltre il mare, vengono dei cacciatori pallidi che pensano di poter sfidare le regioni più gelide, o anche i nostri inverni, senza essere preparati come noi. I lupi più astuti li cacciano, lo sai?»
«Cacciano gli uomini?»
«Si. Li sfiancano, piano piano, notte dopo notte, liberano i loro cani, a volte li mangiano, a volte li accettano nel loro branco. Evitano i fucili. Gli uomini bianchi non hanno pazienza, pian piano impazziscono, non possono fronteggiarli e divengono prede»
«… E la mamma caccia quegli uomini?»
Il suo papà lo guardò dall’alto
«Sono la preda più ambita»
«Li… mangia?».
Il Cacciatore non gli rispose e il
bambino sentì un gelo profondo impadronirsi di lui. Era come se lo
avessero svuotato e riempito di ghiaccio. La risposta era più che
chiara.
Suo madre aveva mangiato degli uomini.
Era un tabù gravissimo.
Ricordava bene con che faccia il
capotribù aveva parlato durante la cerimonia, severo e terribile, ma
quasi con terrore, guardando tutti i giovani uno ad uno in faccia,
come per assicurarsi che avessero capito. E loro avevano capito,
avevano capito bene, che cose terribili succedevano a chi mangiava i
propri simili... e non sarebbe comunque stato orribile, disgustoso,
mangiare qualcuno come te? Qualcuno che sai sta pensando, vivendo,
soffrendo come puoi fare tu stesso? L'empatia stessa dovrebbe essere
un filtro, il più potente, contrò quel disgustoso tabù.
Sua madre lo prese per mano (la mano
di un mostro cannibale, cannibale, cannibale) e poi guardò
l'uomo. C'era qualcosa di compassionevole nel suo sguardo, qualcosa
che non stonava come si sarebbe potuto pensare nel volto di bestia.
«Una scelta» Ripetè il bambino.
Però, gli disse una vocina interiore,
gli uomini bianchi erano cattivi. Molto cattivi. A lui non erano mai
piaciuti. Anche se non era di certo una scusa per mangiarseli! Forse,
continuò la vocina, sua madre aveva fatto tutto quello solo per
proteggere la sua tribù. Aveva fatto un sacrificio. Una scelta.
Ripensò agli sguardi del capotribù e
a quelli di terrore di tutti quando, tempo prima, avevano avvertito
il wendigo avvicinarsi. Erano andati a caccia della sua mamma e suo
papà l’aveva salvata… avevano cercato di uccidere la sua mamma!
Prima che potessero dirgli altro, il
bambino si buttò nel suo grembo e si attaccò a lei, scoppiando a
piangere. Lei lo abbracciò, confortandolo e cullandolo, ma il
Piccolo Cacciatore non riuscì a riscaldarsi. Faceva freddo come
fosse inverno, ma non lo era. Ed anche se era fastidioso non gli
importava.
I cacciatori avevano cercato di
uccidere la sua mamma!
I cacciatori l'avrebbero presa e forse
l'avrebbero mangiata, tanto lei non sembrava più come loro, era
diversa. Perchè era necessario mangiare gli altri animali?
Non c'erano forse le piante del bosco? Non c'erano le uova degli
uccelli? Perchè uccidere ciò che era diverso e risparmiare ciò che
era uguale? Dunque, lo avevano ammesso, non tutti avevano lo stesso
valore di fronte al Grande Spirito.
Ma era davvero così o erano gli umani che non avevano inteso la sua parola?
Una rabbia incomprensibile riempì il suo cuore.
«Ha fatto bene» Disse il bambino «Gli umani sono cattivi. Fanno cose cattive e non risparmiano ciò che è diverso».
Suo padre alzò appena il mento, combattuto fra il sorridere o l'inorridire perchè aveva funzionato: da mesi ormai portava alla capanna la carne degli umani cacciati da sua moglie e con quella nutriva suo figlio; questo era il motivo per cui lentamente in lui si era fatta strada l'idea che il tabù non fosse più così tabù, che non fosse una cosa abietta.
Una volta iniziato a riconoscere l'odore dei propri simili come appetitoso, anche se inconsciamente, si tende a chiudere un occhio sull'idea di mangiarseli. E il cuore diventa sempre più quello di un windigo, gelido verso gli uomini, pronto a giudicarli e condannarli.
Ma era davvero così o erano gli umani che non avevano inteso la sua parola?
Una rabbia incomprensibile riempì il suo cuore.
«Ha fatto bene» Disse il bambino «Gli umani sono cattivi. Fanno cose cattive e non risparmiano ciò che è diverso».
Suo padre alzò appena il mento, combattuto fra il sorridere o l'inorridire perchè aveva funzionato: da mesi ormai portava alla capanna la carne degli umani cacciati da sua moglie e con quella nutriva suo figlio; questo era il motivo per cui lentamente in lui si era fatta strada l'idea che il tabù non fosse più così tabù, che non fosse una cosa abietta.
Una volta iniziato a riconoscere l'odore dei propri simili come appetitoso, anche se inconsciamente, si tende a chiudere un occhio sull'idea di mangiarseli. E il cuore diventa sempre più quello di un windigo, gelido verso gli uomini, pronto a giudicarli e condannarli.
«Cosa vuoi fare?» gli domandò suo
padre.
«Voglio stare con lei» rispose il
bambino.
Non gli interessava perché suo padre
non si fosse trasformato: la mamma aveva dovuto scegliere di
sacrificarsi. Era tutto chiaro nella sua testolina: se lei si fosse
trasformata sarebbe stata libera e sarebbe rimasta legata a suo
padre. Il Cacciatore godeva di un rispetto maggiore nella tribù e
per lui sarebbe stato facile controllare tutto nella sua posizione.
«Voglio vivere qui, papà» disse il
figlio del Cacciatore, senza guardarlo «Voglio stare qui con lei»
«Lippie?» domandò l’uomo.
Il bambino si asciugò le lacrime e si
avvicinò al cervo che, lamentandosi piano, tuffò la testa tra le
sue braccia.
«La mamma assomiglia a me e a Lippie
ora… » disse piano.
Lippie non si avvicinò alla creatura
che un tempo era stata umana, fremente, la testa bassa per coprirsi
la gola, le zampe pronte a fuggire.
Il bambino si staccò dalla figura di
sua madre per tendere un braccio verso il suo amico erbivoro
«Vieni!» disse «Vieni con me!».
Lippie mise una zampa avanti, gli occhi
scuri che saettavano dalla figura del mostro a quella del bambino, le
narici dilatate.
«Non avere paura, Lippie» Gli
sussurrò il bambino in tono dolce «La mamma amerà tutti e due. Ora
ha le corna e le orecchie come te, visto?» domandò il bambino e
Lippie rimase immobile «Vivremo tutti insieme qui. È più grande
della nostra tenda, starai bene anche tu! E vivremo sempre nella
foresta!»
Il giovane cervo si lamentò: il suo
amico umano non era spaventato, ma il suo istinto diceva di fuggire
da quella creatura.
«Vivremo qui con la mamma e il papà!».
Lippie però continuò a non
avvicinarsi e allora il Piccolo Cacciatore tornò ad abbracciare la
mamma windigo. Voleva mostrargli ancora una volta che con lei
sarebbe stato al sicuro.
Mostri come quello non mangiavano i
cervi, di solito: preferivano di gran lungo stendere i loro unghioni
su prede più difficili, sugli umani in particolare. E poi sembrava
che i wendigo rispettassero in qualche modo i cervi, ma solo e
soltanto loro, come se fossero imparentati, sebbene la sola cosa che
davvero avessero in comune erano le imponenti corna ramificate.
Nonostante questo, i cervi erano
animali sensibili e eccitabili, ma non estremamente intelligenti e
proprio per questo sempre guardinghi e non molto amici di
qualsivoglia predatore.
Perciò quando la mamma-windigo fece
per avvicinarsi a lui con un lungo passo fluido, Lippie sollevò ben
dritta la coda e saltò via, prendendo a correre come non aveva mai
fatto in vita sua.
«Lippie, no!» strillò il Piccolo
Cacciatore, tendendo le mani avanti ma non riuscendo nemmeno
lontanamente a sfiorare la corta pelliccia del suo amico «Lippie!
Fermati!».
Ma Lippie era già lontano, scomparso
tra gli alberi.
Nella foresta avrebbe potuto incontrare
lupi, orsi e quant’altro. Nessuno temibile come un Windigo, ma
comunque pericolosi.
Senza pensarci due volte, partì di
corsa e, alle sue spalle, sentì sua madre lamentarsi e suo padre
ordinargli di fermarsi.
Quello che è certo dei cervi è che
sono veloci. E silenziosi. Forse non le creature più veloci della
foresta, ma riescono ad usare una delicata circospezione che li rende
certamente più silenziosi di qualunque umano.
E Lippie aveva un bel vantaggio, specie sulle gambe corte di un bambino, mentre lui balzava potente sulle zampe lunghe dai tendini forti.
Questo pensava il Piccolo Cacciatore addentrandosi nel bosco, correndo. Non riuscì a raggiungere il cervo, non ci sarebbe mai potuto riuscire, però, tornando indietro, fu certo che quello sarebbe tornato, un giorno o l'altro. Era suo amico, magari ora poteva essere spaventato, confuso, ma non poteva averlo abbandonato.
Quello che il bambino non sapeva è che i cervi non pensano, e non amano, come gli esseri umani.
E Lippie aveva un bel vantaggio, specie sulle gambe corte di un bambino, mentre lui balzava potente sulle zampe lunghe dai tendini forti.
Questo pensava il Piccolo Cacciatore addentrandosi nel bosco, correndo. Non riuscì a raggiungere il cervo, non ci sarebbe mai potuto riuscire, però, tornando indietro, fu certo che quello sarebbe tornato, un giorno o l'altro. Era suo amico, magari ora poteva essere spaventato, confuso, ma non poteva averlo abbandonato.
Quello che il bambino non sapeva è che i cervi non pensano, e non amano, come gli esseri umani.
I suoi genitori lo raggiunsero insieme.
Fu strano vederli: lui più basso e
proporzionato, lei altissima e che di umano non aveva quasi più
nulla. Ma erano insieme ed era questo ciò che contava.
La scena lo rese felice, ma il pensiero
che Lippie non fosse al sicuro lo schiacciò. Scoppiò a piangere,
temendo di non rivederlo mai più. Sul volto di suo padre si dipinse
una di quelle sue espressioni che non avrebbe mai saputo decifrare e
sua madre, subito, scivolò sul terreno per stargli vicino. Sembrò
quasi un fantasma per quanto fu veloce e silenziosa. Una rapida e
breve folata di vento.
Pelo ritto sul dorso, una pelliccia
quasi bianca, come quella sul ventre dei lupi, ma meno morbida.
Sospirando, il bambino la toccò.
Il tempo passa, passa per tutti, e
passò per lui: ma non ebbe lo stesso significato che avrebbe avuto
se fosse rimasto al villaggio.
Due anni, due inverni lunghi e rigidi
capaci di gelare un cuore come gelavano le superfici dei laghetti.
Per la tribù furono anni difficili, il
dover affrontare la scarsità di cibo, lo spostamento degli erbivori,
la neve che coprì ogni centimetro di terra, lavoro, solo lavoro, e
alcuni bambini nati da poco morirono, e questo li tenne occupati
abbastanza da fargli dimenticare la scomparsa del cacciatore e di suo
figlio.
Qualcuno disse che erano stati presi
dai lupi. Di notte, intorno al fuoco, di tanto in tanto spuntava
qualcuno che sussurrava l'azzardo che un windigo li avesse preso e
allora tutti si stringevano e rabbrividivano più che se non fosse
già terribile e mordente il gelo.
Furono due anni lunghi e terribili, ma
per il Piccolo Cacciatore furono come due battiti di palpebre ed
egli, divenuto finalmente un Grande Cacciatore, sebben giovane, tornò
al primo freddo del terzo anno.
Il villaggio non era troppo lontano
dalla casa della madre, ma il viaggio di ritorno fu comunque
esaltante.
La foresta non era più nera e i rami
non erano più mani rapaci e magre, ma dita morbide che accarezzavano
la sua schiena in tocchi gentili.
La tempesta che infuriava intorno a lui
era bellezza, ogni fiocco una perfetta formazione unica, cristallo di
perfezione che congelava e uccideva e gli dava forza.
Il freddo adesso non mordeva la sua
pelle, perchè era anche dentro di lui, ma non era dolore, era
potere, un potere che gli uomini non possedevano.
Correva sul terreno come un lupo,
chinato, il suo passo non emetteva rumore, solo sulla neve fresca era
visibile, ma veniva presto cancellato dall'infuriare della tempesta.
La voce dei lupi, lontana, era un
caleidoscopio di voci in caccia che roteava come la neve e si
innalzava a un cielo nero come inchiostro.
Le luci lontane degli uomini, i loro
fuochi, apparivano così piccoli!
Così insignificanti di fronte alla
silenziosa potenza del passo di colui che era il padrone di quei
luoghi, l'unico vero cacciatore.
Il figlio maggiore del Windigo.
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