martedì 17 febbraio 2015

Il figlio maggiore del cacciatore

E così io e LadyDarknessObscure ci siamo date alle storie brevi, dopo aver finito di scrivere un romanzo da almeno un migliaio di pagine... ecco la prima.
 
Il figlio del cacciatore 
 
C'era una volta, tanto tempo fa, il figlio di un cacciatore importante, temuto e rispettato da tutta la sua numerosa tribù. Andava da sé, dunque, che anche suo figlio fosse rispettato, ma il bambino era ancora troppo piccolo per comprenderne il perchè.
Chiunque gli si rivolgeva come fosse un provetto cacciatore, ma lui di caccia non ne capiva ancora un granché e, quando gli adulti gli parlavano in quel modo assai diverso da quello usato con gli altri bambini, il figlio del temuto cacciatore si limitava a stringere forte il suo piccolo arco con le sue manine paffute.
Suo padre infatti gli aveva regalato un grazioso arco alto poco meno di lui, ma comunque micidiale, fatto di strati di tendine d'alce e legno di pino levigato, con una corda rossa come il sangue, e una faretra piena di corte frecce dall'impennaggio d'aquila, degne di un capotribù. Il bambino, però, non sapeva usare quell'arco e neppure voleva uccidere gli animali, che anzi amava molto: i piccoli scoiattoli che vedeva con la coda dell'occhio saltare da un ramo all'altro, le tortore dal petto chiaro e persino i pesci argentati nel fiume, lui li amava. Non sapeva cacciare, ma proprio in virtù del suo amore per quelle creature, era silenzioso quanto suo padre e tutti, vedendolo camminare ai margini del bosco, dicevano “sarà un grande cacciatore”.
E in cuor suo, il piccolo bambino sperava quel giorno non giungesse mai.
Ogni sera, al ritorno di suo padre, guardava con timore le prede che dondolavano appese per una corda alle sue spalle e, mentre gli altri membri della tribù gioivano, lui si chiedeva come il suo arco, invece di ferire quelle povere creature, potesse aiutarle.
Però non gli veniva mai in mente niente perchè era troppo piccolo per capire come usarle.
Ma il tempo passò per lui come per tutti e il bambino credde robusto fino all'età di sette anni, quando iniziò a trovare un po' meno ripugnante e un po' più sopportabile la morte.
Stava già per rassegnarsi quando suo padre, tornando con in spalla un giovanissimo caribù, iniziò a lamentarsi, blaterando qualcosa sulla carne. Il bambino gli voleva bene, ma quel suo genitore alto e forte, con le sue mani grandi, gli faceva paura quando iniziava a parlare di uccidere e in particolar modo di prendere pezzi dagli animali: si sarebbe volentieri rifugiato dalla sua mamma, se non fosse stato che lei, a quanto pare, era malata e aveva dovuto rifugiarsi anni prima in una remota zona della foresta di pini per curarsi ad una fonte dagli incredibili pot.
Suo padre non aveva mai voluto dirgli che razza di malattia fosse.
«Papà» Osò parlare il bambino, nel tentativo di placare il cacciatore «Cos'hai? Stai tranquillo, dici a me che cosa succede».
Suo padre lo guardò con occhi neri come il carbone e sorrise appena.
In silenzio, aspettò che il suo papà decidesse di confidarsi con lui ma, quando aprì bocca, tutto quello che disse all’inizio fu «Sei un bravo bambino».
Sì, lo era, pensò con sicurezza il figlio del cacciatore. Era bravo e lo dicevano tutti. E faceva di tutto per esserlo sempre di più. Però non disse nulla al suo papà, perché voleva sapere cosa c’era che lo preoccupava.
Suo padre tornava tardi, la sera. Non era stato così quando lui era ancora un bambino piccolo e questo lo poteva capire, perchè papà doveva badare a lui. Ma perchè i suoi occhi erano sempre più cerchiati di pelle scura? Perchè le sue braccia si muovevano più stancamente e le sue gambe tremavano un po', quasi un'impercettibile scossa, prima di coricarsi e dormire?
Il grande cacciatore era stanco.
Ma cos’era a renderlo così stanco? Non era vecchio il suo papà. Non lo era affatto. Eppure se lo guardava meglio gli sembrava… almeno un po’… no, era solo la luce tremolante del falò a disegnargli delle brutte ombre sulla faccia. Il suo papà era forte e sapeva come cacciare: conosceva la foresta come ogni minuscola imperfezione del suo fedele pugnale. Eppure…
«Perché hai gli occhi scuri, papà?» domandò il bambino, indicandoglieli col ditino paffuto.
Suo padre si abbassò un po', fin quasi ad allineare le pupille con quelle del suo erede. Occhi negli occhi, alla luce del fuoco, sembrava che le luci danzassero come riflessi di due specchi uno di fronte all'altro.
«Anche tu li hai» Disse l'uomo, con una punta di fierezza «Tutta la nostra tribù ha gli occhi scuri. Ma quelli della nostra famiglia lo sono di più. Siamo speciali. Hai mai visto gli occhi di un falco? Sono neri, neri come una notte senza luna e senza stelle, eppure nessuno vede più lontano di lui»
Il bambino dischiuse le piccole labbra per lo stupore.
Non si aspettava quella risposta, soprattutto perché aveva sbagliato a porre la domanda; ma non aveva mai fatto caso al fatto che gli occhi scuri della loro famiglia fossero più scuri di quelle degli altri.
Rimase affascinato dalla risposta che suo padre gli fornì, tuttavia ciò non bastò a distogliere la sua attenzione dalla pelle scura che cerchiava gli occhi dell'altro.
«No, papà, ho sbagliato…» Gli disse, correggendosi «… Dicevo le ombre che hai attorno agli occhi».
L'uomo si portò una mano sotto l'occhio destro, toccandosi la pelle come se potesse sentirne il colore con le dita. Pensoso, guardò altrove
«Ho le ombre intorno agli occhi?» chiese, ma sembrò solo retorica.
Un sorriso da lupo, fugace, comparve sul suo volto per un istante, ma parve solo una smorfia passeggera quando subito dopo sparì, lasciando il posto a una faccia perplessa.
«Davvero?»
«Si, papà» Confermò il bambino.
Suo padre sembrava non sapere perchè sembrava così stanco. Oppure lo sapeva, ma pensarci gli faceva paura.
Il cacciatore sbadigliò
«Ora andiamo a dormire, figliolo?»
«Si, papà»
Ubbidiente, il figlio del cacciatore sistemò il piccolo arco accanto al suo giaciglio e, da lì, osservò il profilo del padre muoversi per la tenda per sistemare gli ultimi oggetti prima di coricarsi. Anche nel buio, il bambino continuò a spiarlo pieno di curiosità e, benché l’altro non facesse nulla di insolito, la sua fantasia cominciò a galoppare senza limiti, immaginandosi le teorie più disparate che potessero spiegare gli occhi scuri del genitore. Immaginò le più assurde e le più eroiche, ma pian piano un senso di inquietudine s’impadronì di lui…
Suo padre si coricò. Dopo poco il suo respiro cambiò ritmo, divenne quello del sonno, regolare e profondo. Il bambino, però, non riuscì a dormire e rimase coricato su un fianco a guardare suo padre e a chiedersi perchè non riuscisse a chiudere gli occhi.
Solo dopo quasi un'ora si accorse che non riusciva a chiudere gli occhi perchè suo padre lo stava fissando. Nel buio, un leggero riflesso di luce sulle pupille dell'uomo: il cacciatore dormiva con gli occhi aperti.
In un primo momento ebbe paura. Molta paura. E il suo respiro si mozzò, colto alla sprovvista. Poi ricordò che anche uno dei membri più anziani della sua tribù dormicchiava all’aperto tenendo gli occhi aperti e ciò divertiva molto gli altri bambini.
Gli pareva molto strano dormire con gli occhi aperti, ma ognuno dormiva in maniera diversa, no?
Così, semplicemente, si girò dall'altro lato e chiuse gli occhi. Ma si sentiva trafiggere la schiena da quello sguardo e ci mise ancora molto tempo per addormentarsi e non fu comunque un sonno del tutto tranquillo.
Quando l'indomani mattina si svegliò, suo padre non c'era più. Il bambino si alzò, si stropicciò gli occhi e si chiese dove fosse andato, perchè voleva fare colazione con lui.
S’infilò le scarpine e, preso il suo arco, uscì fuori dalla tenda a godersi la luce del sole, non sorto da molto. L’aria mattutina era frizzante e gli adulti della sua tribù la combattevano buttandosi a capofitto nelle loro mansioni giornaliere. Nessuno dei bambini era in giro, era ancora troppo presto, e la moglie dello sciamano stava alimentando la fiamma per preparare loro la colazione. Le si avvicinò e le si sedette accanto.
« Buongiorno, Piccolo Cacciatore. » lo salutò.
Il bambino chinò rispettosamente la testa
«Buongiorno» disse «Cosa mangerete per colazione?»
«Mangiamo zucca, mais e un po' di coniglio. Oggi i bambini devono andare a raccogliere la linfa d'acero e cerchiamo di dargli qualcosa di sostanzioso»
«Ah. Per caso, mio padre...»
«È passato di qui presto, questa mattina» rispose la donna, con un sorriso gentile
« Ha detto quando tornerà? »
«Quando le stelle si faranno vedere» gli disse la moglie dello sciamano senza alzare gli occhi dal suo lavoro «Hai iniziato ad usare il tuo arco, Piccolo Cacciatore?»
Il bambino scosse la testa.
«È un così bell’arco» continuò lei «È un dispiacere non usarlo».
Un dispiacere, pensò il bambino, invece era usarlo. Non quel dispiacere come una sofferenza, come quando non vuoi proprio fare una cosa e sei costretto a farla, piuttosto come un senso di disagio leggero nel vedere l'atto compiersi, la freccia trapassare carne e ossa e uccidere. Tuttavia annuì perchè era vero, si, aveva iniziato ad usarlo.
Ma non nel modo che desiderava. Non riusciva ancora ad aiutare gli animali e non era ancora bravo a prendere la mira. Temeva sempre di fare qualche pasticcio. Avrebbe voluto che il suo papà gli insegnasse come fare, ma quello lo avrebbe inesorabilmente portato alla caccia e il piccolo cacciatore non voleva proprio! Cosa mai avrebbe dovuto fare?
Ma non nel modo che desiderava. Non riusciva ancora ad aiutare gli animali e non era ancora bravo a prendere la mira. Temeva sempre di fare qualche pasticcio. Avrebbe voluto che il suo papà gli insegnasse come fare, ma quello lo avrebbe inesorabilmente portato alla caccia e il piccolo cacciatore non voleva proprio! Cosa mai avrebbe dovuto fare?
D'improvviso si udì la voce di un uomo che tuonava parole che sul momento il bambino non riuscì a decifrare, troppo distorte nel loro tono allarmato. La moglie dello sciamano scattò in piedi, poi lo guardò
«Và a giocare con gli altri bambini o nella tua tenda, và!» gli ordinò.
Era raro che un qualunque adulto gli ordinasse qualcosa: doveva essere grave quello che stava succedendo. Nell'aria, poi, c'era un vago odore di cacciagione... non il coniglio che la donna stava preparando, ma qualcosa come un grosso animale, un cervo, e non una provvista, ma un animale che era stato abbattuto da poco.
Il figlio del cacciatore non aveva voglia di stare con gli altri bambini, quindi corse nella sua tenda: voleva sapere cosa stava succedendo, ma non poteva farsi vedere. Si lanciò nella porta e si affrettò ad andare a guardare cosa stava succedendo all’esterno attraverso gli spiragli che si erano formati dalle cuciture della pelle ormai rovinate.
Tutti gli uomini imbracciavano le armi e le donne stavano correndo nelle tende dai loro bambini.
L’odore di cacciagione stava diventando sempre più intenso.
Fu allora che sentì una parola che non aveva mai udito prima. “Windigo”. All'inizio pensò di aver sentito male, perchè non conosceva quella parola, ma la udì ripetere più volte e aveva un buon udito, perciò pensò di averla capita bene. Forse c'era un animale lì fuori, un grosso animale carnivoro, come un orso, che aveva questo nome.
Ma no! Perchè suo padre non gliene aveva mai parlato? Il grande cacciatore aveva sempre detto che era importante imparare e gli aveva insegnato com'erano fatti animali che il bambino non aveva ancora mai visto neppure da lontano.
Un uomo passò proprio di fronte alla sua tenda imbracciando una pesante lancia cerimoniale.
Allora, pensò il bambino, Windigo doveva essere un uomo, una persona malvagia e potente, o persino un'altra tribù.
Chissà, si chiese, se non era una tribù di quegli uomini bianchi di cui parlavano tutti. Non li aveva mai veduti dal vivo e non riusciva ad immaginarsi i loro aspetti, nonostante suo padre glieli avesse descritti minuziosamente.
Chissà, si chiese ancora, se suo padre sarebbe arrivato di corsa a combattere con tutti gli altri. Lui fiutava il pericolo da miglia e miglia… sarebbe arrivato presto!
Abbassò lo sguardo: vicino a lui, in una faretra di canapa intrecciata, c'erano tre frecce. Si chiese se avesse dovuto usarle. Non era caccia, questa volta, non c'entrava uccidere un animale indifeso, era in gioco la salvezza della tribù.
Se l'uomo bianco fosse entrato e avesse conquistato la loro terra, di sicuro sarebbe stata la fine per loro.
Ed anche se era piccolo era giusto che facesse la sua parte. Magari di nascosto, proprio lì, dall'interno della sua tenda. Non sarebbe stato onorevole, ma non poteva esporsi: era solo un bambino, che possibilità avrebbe avuto contro dei guerrieri adulti? Avrebbe soltanto aiutato la sua tribù.
Si disse che era comunque sbagliato, ma che altro avrebbe dovuto fare? Non poteva affrontarli a viso aperto. E poi nessuno gliel'avrebbe permesso.
Quindi prese le frecce.
Il parapiglia nel villaggiò durò ancora per alcuni minuti, poi tutto si placò. Dalla scucitura della tenda, il bambino video lo sciamano parlare con sua moglie e lo sentì dire che Windigo era fuggito, o più probabilmente si era nascoto, e che era così furbo che probabilmente non lo avrebbero trovato, ma avrebbero provato lo stesso a cercarlo.
La donna si torse le mani, preoccupata, e lo pregò di non andare: molti guerrieri erano morti così.
Dunque Windigo era uno solo, e non una tribù, ma così letale da poter uccidere, solo com'era, molti guerrieri.
Quindi li non avrebbe potuto fare nulla, ma suo padre sì. Ne era sicuro: perché suo padre era il cacciatore più scaltro e forte del mondo!
Tuttavia, ebbe paura per lui. Paura che Windigo fosse molto più forte e scaltro. Anche se, in qualche modo, gli sembrava impossibile.
E allora aspettò. Aspetto con leggera ansia che suo padre tornasse, ora certo che fosse uscito quella mattina presto proprio perchè aveva trovato, in qualche modo, le tracce di Windigo.
La moglie dello sciamano lo chiamò per fare colazione, così aspettarono insieme.
Avevano da poco finito di mangiare quando suo padre si avvicinò con falcata ampia e sicura, la camminata eretta e fiera di chi aveva appena vinto. Il bambino seppe le esatte parole che il cacciatore stava per dire prima ancora che lui le dicesse.
«Il Windigo non tornerà più».
Il Piccolo Cacciatore avrebbe voluto essere più solenne che mai per commemorare quel momento tanto importante, ma prima ancora che se ne rendesse conto, si lanciò con tutte le sue forze contro il grembo del genitore e lo abbracciò forte, sbilanciandolo appena all’indietro.
Forse per lo stupore, o semplicemente perché non era da lui, suo padre ci mise un po’ a ricambiare. Gli poggiò una mano sulla testa, solo quello, e rimasero così senza far nient’altro sotto lo sguardo intenerito della moglie dello sciamano.
Il bambino non aveva voglia di piangere o che, voleva solo stare vicino al padre. Vicino fisicamente, come se dovesse assicurarsi che lui fosse lì per davvero.
«Papà, hai ancora gli occhi scuri» mormorò.
Suo padre socchiuse le palpebre, poi, molto lentamente, sorrise. Fu come vederlo nascere quel sorriso, una contrazione muscolare alla volta, piano piano, pelle increspata dapprima e poi brillare di denti bianchi.
«Lo so» Rispose «Non si cambia in così poco tempo»
«Fai colazione, adesso, papà?»
«No» rispose lui «Non... non ho fame».
Si mosse e si diresse verso la tenda del Capo Tribù, lasciando indietro il bambino che, subito, gli trotterellò dietro, sotto lo sguardo della moglie dello sciamano.
«Hai mangiato?»
«Sì, ho mangiato»
«Prima di cacciare Windigo? » gli domandò «Dov’è?».
Suo padre non aveva portato nessun ricordo con sé. O almeno non vedeva niente sulle sue spalle, nessun trofeo o qualcosa che gli potesse assomigliare.
«Lui... non l'ho ucciso» Rispose il cacciatore «L'ho ferito e scacciato. Ferito molto gravemente. La paura lo terrà lontano dal villaggio, ma la sua carne non è da mangiare, quindi perchè avrei dovuto ucciderlo?»
«E non gli hai preso nulla?».
Il padre si fermò a pochi passi dalla tenda del capo tribù
«Preso che cosa?» domandò
«Niente? Il suo coltello, per esempio. O una delle sue pellicce»
«Windigo non ha queste cose»
«E...» il bambino, preso alla sprovvista, si guardò intorno come imbarazzato «...Come... come fa a cacciare e a riscaldarsi e...»
«Windigo non è un uomo» tagliò corto il padre, ma la sua espressione era dolce «Te lo spiegherò meglio quando avrò finito di parlare con il capotribù».
L’espressione perplessa del bambino lo divertì sinceramente, ma trattenne la risata per non rischiare di offenderlo.
«Come non lo è? » esclamò poco convinto.
«Non lo è» ripeté suo padre «Ora vai dagli altri bambini. Ti insegnerò cos’è un windigo quando avrò finito. Vai» gli ordinò, proseguendo per la tenda del capotribù e lasciando indietro il piccolo cacciatore.
Tornando indietro con un’espressione concentrata, l’anziana donna rise bonariamente « Che cos’hai?»
«Non so cos'è un Windigo. E mio padre non mi vuole dire che cos'è» rispose il bambino
«Oh, ma te lo spiegherà...»
«Perchè tutti lo sapevano e io no?»
«Perchè tuo padre avrà dimenticato di dirtelo...»
«No!»
«No?»
«No» il piccolo abbassò la voce, vergognandosi di avere alzato il tono «Lui mi ha raccontato di ogni animale della foresta»
«Oh... ma Windigo non è un animale».
Se non era un animale e se non era un uomo, pensò il bambino, allora doveva essere uno spirito.
Fece per aprir bocca, ma l’anziana donna lo precedé «Tuo padre ti spiegherà tutto. Saprai cos’è un Windigo molto presto e ti narrerà le sue leggende»
Il bambino aggrottò le sopracciglia, poco convinto sul fatto che avrebbe dovuto aspettare «Gli altri bambini anche sapranno cos’è? Nessuno ne parla»
«È buono che non se ne parli, Piccolo Cacciatore»
«Perchè?»
«Perchè è astuto. E lo saprebbe. E non preoccuparti, tuo padre te ne parlerà... in un posto sicuro. Dopotutto tu devi saperlo».
Il bambino annuì e si allontanò per fare una passeggiatina: sapeva per esperienza che quando suo padre entrava nel tepee del capo ci rimaneva dentro per lungo tempo. Fu allora che vide qualcosa che lo tirò molto su di morale: un cerbiatto.
Il piccolo animale, appoggiato contro il tronco di un albero, sembrava ferito ad una delle lunghe zampine, ma curabile.
Si chiese dove fosse la sua mamma. Era ancora piccino e se ne stava lì, acciambellato nell’erba alta, probabilmente ad aspettare il suo ritorno. A meno che non le fosse successo qualcosa…
Scosse la testa: la mamma doveva essere andata alla ricerca di cibo, stava bene e la ferita del cerbiatto non era più grave di qualche graffio. Lui e gli altri bambini se ne facevano in continuazione e stavano tutti bene.
Raccolse dell’erba la divise in due mazzi, uno per ogni mano: quel piccolo cerbiatto gli sembrava davvero molto piccolo e suo padre gli aveva detto che non doveva toccare i cuccioli troppo piccoli a mani nude. Anche se pure lui era ancora un cucciolo.
Però, mentre la gente del suo popolo era intelligente e sapeva riconoscere il suo simile anche se aveva uno strano odore, molti popoli dei boschi erano spaventati dall'odore dell'uomo al punto tale che se lo sentivano su un loro cucciolo lo avrebbero persino potuto rinnegare.
«Tieni» Disse il bambino, tendendo uno dei ciuffetti d'erba verso il cerbiatto «Mangia».
Il cerbiatto lo guardò con circospezione, i grandi occhi scuri e umidi saettarono dai vegetali al suo volto. Le orecchie tremavano in modo buffo sul capo, girandosi avanti e indietro, ripiegandosi appena e poi drizzandosi ancora.
Il Piccolo Cacciatore si chiese che gusto ci poteva essere ad uccidere un animale così grazioso ed innocente. Una volta aveva sentito qualcuno degli adulti dire che era meglio uccidere il piccolo che la madre perché il piccolo non avrebbe saputo che cosa fare da solo, ma a quel punto non era meglio lasciarli stare e basta? Bah. Non li capiva e non gli piaceva.
Diffidente, il cerbiatto ci mise un po’ a decidere se mangiare o no, ma alla fine la sua fame ebbe la meglio. Si allungò verso l’erbetta e cominciò a mangiarla.
«Sei buffo!» Gli disse.
Il cerbiatto smise di mangiare e lo guardò con gli occhioni scuri dilatati. Il bambino non sorrise perchè sapeva che sono i predatori a mostrare i denti e rimase a guardarlo in silenzio.
Il piccolo erbivoro ritornò a brucare e finì tutto il piccolo cespo.
Il bambino si guardò intorno: sembrava che la madre non ci fosse, voleva dire che il piccolo si era allontanato da solo. Ma con quella zampa ferita? Qualcuno doveva averlo portato fino a lì.
Forse l’aveva lasciato lì per farsi inseguire dai predatori, seminarli e tornare indietro. Avrebbe potuto metterci tanto tempo e chissà da quanto era fuggita via, lasciando il suo cucciolo tutto solo ed indifeso.
Sì, si disse, forse stava cercando proprio di seminare dei predatori!
E se fossero tornati? Non poteva permettere che succedesse qualcosa a quel cerbiatto!
Così rimase lì, a vegliarlo. Dopo quasi un'ora, il cerbiatto smise di sembrare tanto guardingo, persuaso che il bambino non voleva fargli del male, e cercò di stringersi a lui, che però si allontanò, non volendo toccarlo.
La creaturina però non capiva perché l’altro si allontanasse e, cercando di calore, si alzò in piedi sulle lunghe zampe malferme, muovendo dei passi verso di lui.
Al Piccolo Cacciatore ricordò un ragnetto per come lo vide camminare e lo trovò ancora più simpatico.
«Giù» Gli disse, accompagnando la parola con un gesto della mano «Giù!».
Il cervide seguì il movimento con la testa con molto interesse. Sincronizzandosi, si raddrizzò e si accucciò docilmente.
«Giù, ho detto!».
Passava di lì Kyaiyo, un ragazzetto di tredici anni sempre intento a raccogliere erbe e appuntire paletti, che sorprese il bambino a guardare il cerbiatto retrocedendo lentamente.
«Fantastico!» Disse «Hai preso un piccolo cervo! Verrà buono per il pranzo di oggi... me ne lascerai un pezzetto?»
«Non l'ho preso!» rispose il figlio del cacciatore, ancora meno credibile quando il cerbiatto, vedendolo distratto, lo raggiunse e gli posò la testa contro la pancia per riscaldarsi il mento e parte del collo.
«No!» quasi gridò, mentre si allontanava con un salto «Se mi tocchi tua mamma non ti riconoscerà più!»
«Ma che stai dicendo?» gli chiese l’altro
«La verità!»
Il ragazzo più grande mosse gli occhi dall’uno all’altro « Se non è tuo… » disse «… Allora lo prendo io»
«No!»
Kyaiyo allungò una mano verso il cerbiatto, ma questi, che non ne riconobbe l'odore, cercò di zoppicare via.
«No!» Disse, imperiosamente, il figlio del cacciatore «Non toccarlo!»
«Hai detto che non è tuo! Sua madre non verrà mai a riprenderselo qui!»
«Si, si che verrà!»
«Ma l'hai toccato. E tu hai detto che sua mamma non lo riconoscerà più, giusto?» chiese il più grande, incrociando le braccia, ben piantato sulle gambe larghe
«Questo non centra niente!» alzò la voce il Piccolo Cacciatore «Lei non è stupida e lo riconoscerà. Non gliel’ho lasciato ancora addosso l’odore»
«Ma ti ha toccato»
«Non c’entra niente!» si arrabbiò il Piccolo Cacciatore «Vattene via!»
«Sì, ma porto lui con me!»
«Allora è mio!» mise in chiaro il bambino, parandosi davanti al cerbiatto.
Il ragazzo più grande rise divertito «Ah, ci hai ripensato!»
«Si. Si, è mio»
«Ok. Stammi bene» salutò rispettosamente Kyaiyo, poi allungò una mano verso il cerbiatto come per carezzargli il capo, ma il Piccolo Cacciatore gli fermò il braccio
«È mio»
«D'accordo» il ragazzo, aggrottando le sopracciglia, si ritrasse: non aveva mai visto quel bambino così ostile e non ci teneva a contrariare il figlio del miglior cacciatore del villaggio, altrimenti le avrebbe buscate da tutti e due i propri genitori.
Il Piccolo Cacciatore rimase a fissare il ragazzo andare via finché non sparì. Non si fidava per niente. Fortuna che tutti temevano e rispettavano suo padre!
Solo che… se mamma cerbiatta non tornava più che cosa avrebbe dovuto fare col suo cucciolo? Al villaggio lo avrebbero mangiato di sicuro come desiderava tanto Kyaiyo! E se l’avesse portato via e lei fosse tornata poco dopo?
Si voltò a guardare il cerbiattino: la creaturina lo fissava con i suoi occhi neri e liquidi e le grandi orecchie dritte sulla testolina.
Suo padre, certamente, avrebbe saputo che cosa fare con quel piccolo animale. E fu questo a spaventare di più il Piccolo Cacciatore: che suo padre sapesse esattamente cosa fare: ucciderlo.
Doveva nasconderlo, nasconderlo senza toccarlo ancora, e questo era difficile, molto difficile, anche perchè doveva curare la zampa dell'animale, applicare alcune erbe, nutrirlo e proteggerlo. Forse doveva adottarlo, come molti altri facevano con i cani che tirano le slitte e che aiutano nella caccia?
Sì, forse avrebbe dovuto farlo. Ma doveva essere l’ultima soluzione.
Avrebbe dovuto essere furbo: avrebbe dovuto farsi dei guanti con fili d’erba intrecciati per toccare la bestiola senza passargli il suo odore. Avrebbe dovuto creare un nascondiglio lì vicino, ma non troppo vicino, altrimenti sarebbe davvero stato come portarlo via alla mamma… era impossibile, ammise disperato. Che cosa doveva fare?
Fu allora che sentì i passi di qualcuno avvicinarsi e fu una vera fortuna sentirli, perchè di solito i piedi di suo padre non emettevano quasi rumore a contatto con il suolo. Fu un momento di silenzio assoluto.
Il bambino avrebbe voluto spingere via il cerbiatto, ma non voleva toccarlo, e suo padre era lì, vicinissimo, ed eccolo che lo vide, con un sorriso leggero dipinto sul volto adulto.
«Papà...» Iniziò il bambino
«La foresta ci ha mandato un dono» rispose il padre
«Papà, non mangiamolo, non è ferito gravemente, e poi è piccolo, ha poca carne...» iniziò a supplicarlo il figlio
«D'accordo» gli occhi dell'uomo brillavano «Crescerà»
Sotto lo sguardo pietrificato del Piccolo Cacciatore si fece avanti e sollevò tra le sue braccia il piccolo cerbiatto, sistemandoselo sulle spalle.
La creaturina cominciò a scalciare invano, troppo debole per contrastare la stretta dell’uomo sulle sue sottili zampette e bastò quello per far scattare il bambino.
Crescerà.
“Crescerà” stava per “lo nutriremo finché non sarà buono da mangiare”.
«NO!» gridò, parandosi davanti al Cacciatore e facendogli dilatare appena gli occhi per lo stupore.
«Lui è mio!» Ripeté il Piccolo Cacciatore «E non lo mangeremo!».
Il padre lo guardò in modo strano, mentre il cerbiatto iniziava ad emettere dei brevi belati spaventati e scalciava più forte. Il bambino temette che la povera creatura potesse rompersi le zampe, non conoscendo quanto in realtà quei sottili arti fossero robusti.
«Perché?» Domandò l'uomo
«Perché voglio tenerlo» rispose suo figlio, a voce un pò più bassa, moderandosi «Voglio... vederlo grande. Non riuscirò a mangiarlo se lo cresciamo e se è troppo piccolo non è buono da mangiare».
Il padre aprì bocca per parlare, per negargli quel capriccio ed educare il suo erede, quando un verso lontano, a metà fra il verso tonante del cervo e il lamento di un cane, lo fermò. I suoi occhi guardarono verso il bosco, poi verso il cerbiatto che aveva fra le braccia e infine verso suo figlio.
«La foresta vuole che lo tieni» Disse pensieroso, ma un tocco di paura colorò la fine della frase, un tieni più acuto e flebile insieme
«Lo terrò bene» promise il bambino alla foresta, ma rivolgendosi al padre, con sentimento e già s’immaginò dormire accanto al cerbiattino nella sua tenda e a come nutrirlo ogni giorno.
S’immaginò, però, anche come proteggerlo da tutta la sua tribù. Suo padre sarebbe stato un ottimo garante, ma il pensiero che qualcosa potesse andare storto lo innervosiva molto.
Fu così che il cerbiatto venne adottato dal bambino e battezzato "Lippie". Venne curato dall'uomo, che gli fasciò la zampetta con le grandi felci dopo averci applicato un impasto di cansisila e crisantemo e dopo poche ore ogni dolore scomparve e permise all'animale di iniziare a zampettare in giro, se non con sciolteza, almeno con più sicurezza e senza sembrare sul punto di cadere, anche se a ben vedere i piccoli cervi sembravano sempre sul punto di capitombolare sui lunghi arti sottili.
Il Piccolo Cacciatore era felice. Felice che Lippie stesse bene, che suo padre avesse cambiato idea e che la foresta sembrasse approvare!
Tutti si affezionarono a Lippie perché era dolce e curioso e, come tutti i cuccioli, con un grande appetito e toccava al suo amico bipede evitare che questi mangiasse qualsiasi cosa che, poco poco, non veniva sorvegliata. Più volte rubò qualche ingrediente alla moglie dello sciamano, ma lei rideva. E ridevano tutti. Anche suo marito e il capotribù.
Lippie era proprio buffo. E con una grande faccia di bronzo!
Con il tempo, il piccolo iniziò a crescere e lo fece molto più in fretta di quanto il Piccolo Cacciatore avesse mai immaginato. Le sue zampe si irrobustirono, anche se non di molto, il collo iniziò a diventare più spesso, l'appetito più grande. Venne l'inverno e il bambino ebbe paura che Lippie mangiasse le provviste della tribù, ma il cervo lo sorprese mangiando la dura corteccia degli alberi, facendogli chiedere come fosse possibile trarre nutrimento da quella scorza fredda e spessa.
Eppure Lippie ne pareva ghiotto e a volte lo guardava a lungo con quei suoi grandi occhi liquidi che parevano chiedersi perché mai il suo amichetto non lo imitasse.
Il Cacciatore aveva accettato il nuovo membro della famiglia e, di tanto in tanto, quando era ora di mettersi a dormire, augurava la buona notte ad entrambi, dicendo “Buona notte, figliolo. Buona notte, Lippie.” E il Piccolo Cacciatore era felice di ciò! Soprattutto del fatto che suo padre accettasse la sporadica invadenza del giovane cervo.
Poi la neve iniziò a sciogliersi e i primi fiori cominciarono a spuntare, bucando le brevi distese ancora candide con boccioli rosa, gialli e bianchi. Lippie, ormai grande due volte un cane, iniziò a mostrare sulla fronte, un tempo liscia, due piccoli abbozzi di corna.
Il Piccolo Cacciatore era eccitato, sperava che spuntassero due palchi enormi, ma suo padre gli spiegò che le corna dei giovani cervi erano molto, molto più piccole di quelle degli adulti.
La notizia deluse tantissimo il figlio del cacciatore, ma divertì quest’ultimo. Chissà, forse gli sarebbero diventate enormi la primavera dopo. Oppure la seguente ancora.
«È importante che siano grandi? » gli chiese il Cacciatore una sera, durante la cena.
«Gli starebbero bene» affermò il bambino.
«Sai… » fece suo padre in tono lento, quasi pensieroso e distante «… Oggi Lippie mi ha detto che ti trova più alto»
Il bambino sorrise. Non aveva mai capito se suo padre davvero sapesse parlare con gli animali o meno, ma una grossa parte del suo pensiero scavalcava a piè pari quel ragionamento, interessandosi solo del complimento. Era vero, il Piccolo Cacciatore era diventato più alto, ma era così bello sentirselo dire! Crescere era un magia.
L'umano e il cervo stavano crescendo insieme, solidi e rigogliosi come le chiome degli alberi.
«Grazie» Disse il bambino
«Non devi ringraziare» rispose suo padre, senza guardarlo «Ho solo detto il vero» continuò.
Il bambino non insisté poiché sarebbe stato inutile.
«Domani all’alba partirò per tre giorni»
«Tre giorni?»
«Così ho detto» affermò il Cacciatore « Ci vorrà più tempo per cacciare questa volta. »
Il Piccolo Cacciatore fece silenzio e rifletté a lungo sulla notizia « Papà, quando torni possiamo andare a trovare la mamma?».
L’uomo s’irrigidì.
«Le farà piacere vedere Lippie. Piacerà anche a lei! E io non mi ricordo più che faccia ha… Ti prego».
Andare a trovare la mamma. Il piccolo davvero anelava di poterla rivedere, la sua immagine era ormai una confusa macchia di femminilità, lunghi capelli scuri e mani dalla forma delicata.
«No» Rispose il padre.
Questa volta, il Piccolo Cacciatore volle insistere
«Hai anche detto che sono più alto! Sono più grande, posso venire a caccia con te!»
«Questa sarà caccia grossa»
«Voglio venire! Quando imparerò? E perchè vai a caccia grossa da solo?»
«Perchè gli altri mi sarebbero d'impiccio. Bisogna essere molto esperti per andare a cacciare grossi animali»
Da una parte il Piccolo Cacciatore fu felice che suo padre non gli avesse detto che gli avrebbe insegnato a cacciare, ma dall’altra il pensiero di non poter vedere sua madre l’angosciava.
« Ma se vai a caccia di grossi animali avrai bisogno di aiuto. » osservò.
« No. » disse lui soltanto « Un giorno sarai tu ad aiutarmi, ma fino ad allora resterai qui. »
Un lungo e pesante silenzio calò su di loro. Suo padre continuò a mangiare in silenzio, senza guardarlo come al solito e Lippie mosse incerto un orecchio indietro per i loro malumori. Il bambino invece rimase con il boccone a mezz’aria, torvo.
«L’altro giorno…» Disse il Piccolo Cacciatore, prendendo coraggio e spezzandolo «… Koko ha detto che la mamma era brava a cacciare»
«Lo ha detto a te?» chiese l’uomo diretto e mettendolo subito in difficoltà.
«… Lo ha detto ad una sua amica»
«Le hai spiate?» gli domandò.
Il bambino non rispose, ma il suo silenzio fu eloquente.
«Se ne sono accorte?»
«No» rispose il bambino, immediatamente.
Sapeva che spiare era sbagliato, ma sapeva anche meglio che suo padre ammirava le persone silenziose e capaci di non farsi sorpresere.
L'adulto mangiò un'altro boccone, masticando con deliberata lentezza.
« Bene. Perché se ti avessero scoperto sarebbe stata una grande vergogna. » disse severo.
Il bambino chinò il capo senza sapere che altro dire. Gli mancava tanto sua madre e tutto quello che sapeva di lei dagli altri membri della tribù erano che era una brava danzatrice, cantante e cacciatrice. Nient’altro. Forse era brava a fare le collane di perline e a conciare la pelle, ma non l’aveva mai chiesto a nessuno e nessuno aveva pensato che potesse interessargli.
Se Lippie non si fosse avvicinato a suo padre per annusargli indiscretamente la cena non avrebbero più parlato. Il Piccolo Cacciatore vide l’uomo allungare il braccio di lato e portarlo fuori dalla sua portata.
«Ma perchè non andiamo a vedere la mamma?» Provò ancora una volta il bambino «Non per la caccia. Dopo».
Suo padre non rispose alla domanda, impegnato in una sorta di confronto con il cervo, il cui collo robusto sembrava sempre più inamovibile mentre si spingeva verso il piatto, portando la grossa testa in avanti, le labbra protese come per afferrare i bocconi.
«La tua bestia è testarda, figliolo»
«Papà, la mamma...»
«Digli di allontanarsi!»
«Lippie!» disse seccamente il bambino, poi saltò in piedi e si avvicinò all'animale, prendendo a spingerlo.
Ci volle qualche secondo per farglielo capire, ma alla fine il grosso erbivoro comprese e si allontanò in un lento tramestio di zoccoli.
Malinconico, il bambino si voltò un’ultima volta verso l’adulto.
«Mi manca tanto, papà» Gli disse «Voglio davvero rivederla»
Suo padre non gli rispose.
«Finisci di mangiare» gli disse poi, alzandosi ed uscendo dalla tenda in silenzio. Lippie scelse proprio quel suo momento di distrazione per rubargli le verdure dal piatto con un gran rumore.
Il bambino rise, ma fu solo un momento. Fu allora che decise: se suo padre non voleva portarcelo, ci sarebbe andato da solo. Dopotutto il suo genitore sarebbe stato via per tre giorni, un sacco di tempo, e sebbene nella sua memoria le fattezze di sua madre fossero sfuocate, ricordava ancora il sentiero, le grosse pietre che lo segnavano, il fatto che suo padre avesse scalfito le cortecce degli alberi per poterlo ritrovare.
O almeno credeva di ricordarlo.
Preparò le provviste il mattino seguente, dopo che suo padre era partito da ore. Non si sarebbero mai incrociati ed aveva pensato a tutte le precauzioni per non perdersi.
Aveva rubacchiato, senza farsi vedere, ovunque e da chiunque, caricando la sacca con qualcosa di più rispetto allo stretto necessario; solo per star sicuro.
Il suo amico cervide sembrava in qualche modo felice di quella partenza.
Avrebbe dovuto portarlo con sé o lasciarlo al villaggio? Decise che non avrebbe deciso, Lippie tanto faceva tutto di testa sua e poteva scegliere di seguirlo oppure no. Non doveva preoccuparsi troppo delle tracce che avrebbero lasciato, i cervi sono delicati, si muovono con attenzione nel sottobosco, e dopo un giorno le loro tracce erano già scomparse, figuriamoci dopo tre.
Così attese che suo padre partisse, cercando di contenere l'eccitazione per quella sorta di fuga, sicuro che, in qualche modo, suo padre l'avrebbe fiutata.
Perché era praticamente impossibile riuscire a nascondergli qualcosa. A meno che non gli interessasse; ma una bravata del genere gli sarebbe interessata in ogni caso. E poi nessuno al villaggio si faceva gli affari suoi. Purtroppo.
Uscì dal retro della tenda per non camminare sotto gli occhi di tutti e se ne andò, passeggiando con Lippie, con tutta la calma di cui era capace. Nessuno s’interessò a lui per il fatto che stesse andando verso il bosco, perché anche quel giorno ai bambini era stato raccomandato di raccogliere la resina. E poi molti bambini andavano a giocare lì. Spero di non incontrarne nessuno.
«Dobbiamo stare molto attenti, Lippie».
Il cervo ruotò le orecchie indietro, poi di nuovo in avanti, e abbassò il capo come faceva quando sapeva che qualcuno si stava avvicinando. Grazie a quel gesto, il Piccolo Cacciatore riuscì a deviare per fare finta di non stare dirigendosi nel fitto della foresta, il tempo necessario per cui quando un adulto passò di lì sembrò solo che il bambino puntasse ad un gruppo di alberi non troppo distanti per raccoglierne la preziosa resina.
«Grazie» Mormorò quando fu al sicuro, ma Lippie parve non farci caso e trottò avanti, puntando dritto verso il bosco, per iniziare a sgranocchiare i teneri germogli verdi che facevano capolino dalle punte dei rami scuri.
Al giovane cervo piaceva molto saltellare per la foresta e mangiarne i frutti; anche se il Piccolo Cacciatore sospettava provasse molto più gusto a rubare il cibo a suo padre. Se non gli dava parte della sua cena, Lippie andava sempre da suo padre ad intercettargli il boccone.
L’uomo non ne era molto felice, ma il bambino lo trovava sempre divertente.
Trovare il sentiero dei suoi ricordi non fu affatto facile. Innanzitutto, tutto era cambiato e diverso da come se lo ricordava. Ed individuare i segnali non fu affatto semplice!
Non si aspettava niente di meno, ma il tempo scorreva e il bambino non voleva sprecarlo!
I suoi passi frusciavano appena sul letto spesso di aghi morti, spezzto qui e lì dai ciuffetti di erba scura e coriacea che osavano crescere nel fitto quasi nero del bosco. I rami più bassi dei pini, a causa della mancanza di luce, erano completamente defogliati e si tendevano nudi sopra la testa del bambino, simili a mani dal palmo troppo lungo e sottile.
Sulla corteccia, di un bruno scuro, risaltavano i segni bianchi e rosati, a volte con violente sfumature rosse come di artigliate, ferite profonde, che suo padre aveva lasciato per segnare il sentiero.
«È la strada giusta» Disse il bambino, ad alta voce, per farsi coraggio.
Aveva paura che la notte lo sorprendesse prima dell'arrivo, una paura, si disse, infondata perchè sua madre non poteva essere tanto lontana e lui non si sarebbe perso, i segni erano giusti.
Certo che, se non era così lontana dal villaggio, gli sembrava veramente strano che non potessero andare a trovarla. Forse era contagiosa, pensò il bambino, ma in quel caso le avrebbe parlato da lontano. Le avrebbe mostrato Lippie e le avrebbe tirato i regali che le aveva portato. Aveva preso anche qualche leccornia da condividere. Le avrebbero fatto piacere, ne era sicuro!
Qualcosa sfrecciò nel sottobosco, basso e di un colore indefibile fra il rosso mattone e il marrone, forse persino un grigio stranamente carico. Il Piccolo Cacciatore in altre circostanza avrebbe riconosciuto subito la volpe, il suo passo rapido e dritto, l'odore selvatico intenso che si trascinava dietro, ma qualcosa nell'atmosfera scura del bosco lo fece esitare e gli fece immaginare qualcos'altro come un grosso serpente, finchè non si accorse che l'animale doveva avere per forza le zampe, con il passo che aveva.
E poi Lippie non sembrava inquieto, era tranquillo e disteso.
Ci avrebbe pensato Lippie ad avvertirlo.
Il vero problema però, venne quando l’oscurità, portata dal tramonto, lo colse dopo le sue numerose brevi pause. Di certo non dovevano essere lontani: le pietre erano lì, a segnare la via e il viaggio non avrebbe dovuto durare più di un giorno. Forse durava di più perché era un bambino ed aveva le gambe corte…
Decise comunque di fermarsi e di non proseguire. Decise di pensare di andare trovare un posto dove nascondersi assieme a Lippie. In altri casi si sarebbe arrampicato su un albero e ci avrebbe dormito su, ma il suo amico non avrebbe potuto (e poi era troppo pesante per lui da issare con le corde!), quindi si misero alla ricerca di grossi massi ravvicinati che avrebbero potuto creare un antro dove infilarsi e la cui porta avrebbe potuto essere barricata da rami appuntiti.
La foresta gli sembrava tranquilla, ma la notte gli appariva spaventosa al di fuori del villaggio!
E da solo non si era mai spinto troppo oltre. Il verso lamentoso di un uccello notturno squarciò la notte, ma il cervo continuò tranquillo e trovò una zona riparata prima ancora che il bambino lo facesse.
E... magia! Dietro i grossi massi e la catasta di rami, in lontananza, si poteva scorgere la casetta in cui avrebbe dovuto abitare la mamma: il tettuccio di legno brillava nella luce della luna, nella piccola radura sgombra da alberi.
«L'abbiamo trovata!» Esclamò il bambino, aggrappandosi ai corti ciuffi di pelo sul fianco di Lippie «L'abbiamo trovata!».
Prese a correre attraverso gli alberi, dritto verso la casetta, i pugni stretti, un sorriso dipinto sul volto, con il cervo che lo seguiva come un cane.
« Mamma! Mamma! » chiamò il Piccolo Cacciatore che ancora non aveva raggiunto la costruzione « Mamma! Mamma! » chiamò ancora.
Ma nessuno gli rispose.
Si fermò davanti la porta e cominciò a battere i piccoli pugni sulla superficie di legno « Mamma, sono io! Fammi entrare! »
Alle sue spalle il giovane cervo si lamentò e trotterellò verso la finestra chiusa da delle assi. Il bambino lo vide e lo seguì in fretta, rovesciando un secchio lì vicino per salire ed aver modo di vedere meglio dentro.
L'interno della casa, sbirciato da uno spiraglio fra le assi, era scuro e immobile. Il letto, ben visibile, era vuoto.
«Mamma» Mormorò.
Non c'era nessuno, lì dentro. Nessuno.
Strinse i pugni.
«Mamma!» Gridò, pur sapendo che era inutile: lo vedeva benissimo che non c'era nessuno.
E invece qualcosa, un tocco gentile, gli sfiorò la spalla.
Il Piccolo Cacciatore si voltò di scatto e vide stagliarsi dietro di sé una figura di cui non distinse i tratti, troppo scura perchè la luce della luna, alle sue spalle, ne sottolineava solo i contorni. E in cima alla figura, un paio di corna ramificate, alte, possenti e bellissime.
Il bambino non aveva mai visto nulla di simile. Era enorme e slanciato e, anche se non sembrava ostile, gli mise paura e sentì tutti i suoi arti paralizzarsi come fossero fatti di pietra.
Che cosa doveva fare? Scappare? Parlare? Nascondersi? Chiedere scusa?
Aprì bocca ma nessun suono ne uscì.
La creatura si mosse fluidamente, sebbene le sue lunghe braccia facessero supporre nodose e forti articolazioni scrocchianti e il collo, che reggeva il peso di una testa coronata da un palco tanto imponente, fosse forte come metallo.
La creatura emise un suono.
Il bambino non lo capì, o forse gli parve di non capirlo.
Lippie era allarmato, ma non stava fuggendo.
E se Lippie non stava fuggendo non c’era motivo di scappare. O forse no? Forse non fuggiva solo perché quell’enorme creatura gli ricordava un cervo con quelle enormi corna. Un cervo umanoide.
Lì per lì pensò che fosse un uomo in abito cerimoniale. Avrebbe avuto senso! Ma non aveva mai visto un uomo così grande!
La creatura ripeté nuovamente il verso e il Piccolo Cacciatore non riuscì a comprenderlo, ma quando la vide chinarsi su di lui, tutto divenne nero. Doveva riuscire a parlarle.
«Dov’è la mia mamma?» domandò con voce acuta.
Lippie indietreggiò emettendo un verso lamentoso, gli occhi che roteavano come a cercare una via di fuga. Il cuore del Piccolo Cacciatore batteva come un tamburo di guerra e per la prima volta il bambino lo sentì con tutta la sua forza, un grosso peso forte e umido dentro al petto.
La creatura gli afferrò entrambe le spalle con lunghe dita forti, dotate di artigli corti, ma simili a piccoli uncini metallici e scuri, e con delicatezza lo spostò, spingendolo, facendolo claudicare fino ad un punto dove la luce della luna li illuminava entrambi. Con metà della faccia visibile, la creatura sembrava un antico spettro, uno spirito della foresta, ma non tanto malevolo, visto il grande occhio scuro che fissava il bambino con dolcezza. La dolcezza di una madre.
Poteva essere nel corpo di una bestia, e il Piccolo Cacciatore non sapeva che malattia fosse, ma sotto quel pelo chiaro, il muso dai denti forti, le orecchie cervine e i muscoli ampi delle spalle, c'era sua madre.
E al bambino non interessava che aspetto avesse o potesse avere. Ora potevano di nuovo stare insieme e così l’abbracciò. Si buttò tra le sue braccia stringendosi a lei come non aveva mai fatto con nessuno. Inspirò forte il suo odore, il visino premuto nel suo petto e pensò che, in altri casi, non l’avrebbe mai sopportato. Ma era il profumo della sua mamma e, in quel momento, non gli parve esistere odore più bello!
Lacrime calde gli rigarono le guance e, stringendosi a lei sempre più forte, sentì premere contro di lui qualcosa di piccolo e duro: la collanina che aveva fatto insieme tanti anni prima. Il Piccolo Cacciatore e suo padre ne avevano due identiche. Era proprio lei! Non si era sbagliato e non era un sogno! Era lei!
E sua madre ricambiò l'abbraccio con quella che pareva passione dettata dall'amore, ma con un corpo curiosamente troppo freddo, come se fosse la carcassa di un cervo di quelle che suo padre portava a casa dopo lunghe ore di caccia, con la gola tagliata ancora sporca di sangue rappreso.
«Mamma» Mormorò, la guancia affondata nel pelo della spalla di lei «Che cosa è successo?».
Una voce diversa rispose, maschile, familiare
«Cosa ci fai qui?».
Suo padre era lontano, in mezzo agli alberi, in piedi, e la sua pelle scura sembrava luccicare. La paura del bambino ritornò a pulsare come poco prima, ma il coraggio si fece strada in mezzo alla massa scura e gelida di quel terrore e lo portò alla sfida
«Perchè non me lo avevi detto?!» gridò.
Suo padre parve spaventato da quella domanda, ma rispose poco dopo
«Cosa pensavi che potessi dirti? Che cosa? Che tua madre era il Windigo?».
«Sì!» affermò il figlio «Perché se è malata e non è contagiosa, avremmo potuto farle compagnia! Saremmo stati tutti insieme! Se la tribù non la vuole non importa!» continuò «Perché noi non abbiamo bisogno di loro! Dobbiamo stare tutti e quattro insieme!».
Suo padre non lo rimproverò per avergli mancato di rispetto urlandogli contro. Lo lasciò sfogare, rimanendo lontano, con le braccia lungo i fianchi e un’espressione indecifrabile dipinta sul volto.
«… Tu… credi che sia malata?» Gli domandò piano
«Sì, certo. Me l’hai sempre detto tu!»
Suo padre aprì la bocca, ma non parlò. Non subito «Tua mamma ha fatto… una scelta».
Fu allora che lo notò: l'odore di sangue nell'aria. Sottile, non immediato, ma chiaramente sangue. Lo ignorò: sapeva che qualunque animale poteva essere morto lì, che era la capanna di sua madre, la moglie del miglior cacciatore del villaggio, dunque migliore cacciatrice. Che male c'era se aveva ucciso qualche bestia per nutrirsene? Doveva essere faile, se usava quelle corna così possenti e affilate, capaci di sventrare un caribù o una lince come se fosse un pesciolino sotto un coltello.
«Che scelta?» Domandò il bambino
«Essere la migliore di tutti» rispose suo padre.
Sua madre allora parlò: la sua voce era ancora femminile, ma arruginita, distorta, non difficile da capire, ma così inumana da fare male e si poteva capire perchè non avesse parlato fino ad ora
«Cacciare quello che nessuno si spinge a cacciare».
L'uomo si avvicinò a passo rapido al bambino che non riusciva a rimanere immobile, si spostava adesso da un piede all'altro per evitare di tremare. Faceva freddo.
Il Windigo non disse più nulla, fu il padre a parlare
«Pensaci, figliolo, pensaci! Cos'è che solo un lupo su mille, un lupo molto audace, può cacciare?»
«Non lo so, papà... un alce maschio?»
«No. No. Un branco di lupi, sebbene con fatica, può abbattere un alce maschio ed ho già visto grossi branchi tentare. E riuscire»
«Allora non lo so, papà»
«Una slitta. Dall'Est, oltre il mare, vengono dei cacciatori pallidi che pensano di poter sfidare le regioni più gelide, o anche i nostri inverni, senza essere preparati come noi. I lupi più astuti li cacciano, lo sai?»
«Cacciano gli uomini?»
«Si. Li sfiancano, piano piano, notte dopo notte, liberano i loro cani, a volte li mangiano, a volte li accettano nel loro branco. Evitano i fucili. Gli uomini bianchi non hanno pazienza, pian piano impazziscono, non possono fronteggiarli e divengono prede»
«… E la mamma caccia quegli uomini?»
Il suo papà lo guardò dall’alto «Sono la preda più ambita»
«Li… mangia?».
Il Cacciatore non gli rispose e il bambino sentì un gelo profondo impadronirsi di lui. Era come se lo avessero svuotato e riempito di ghiaccio. La risposta era più che chiara.
Suo madre aveva mangiato degli uomini.
Era un tabù gravissimo.
Ricordava bene con che faccia il capotribù aveva parlato durante la cerimonia, severo e terribile, ma quasi con terrore, guardando tutti i giovani uno ad uno in faccia, come per assicurarsi che avessero capito. E loro avevano capito, avevano capito bene, che cose terribili succedevano a chi mangiava i propri simili... e non sarebbe comunque stato orribile, disgustoso, mangiare qualcuno come te? Qualcuno che sai sta pensando, vivendo, soffrendo come puoi fare tu stesso? L'empatia stessa dovrebbe essere un filtro, il più potente, contrò quel disgustoso tabù.
Sua madre lo prese per mano (la mano di un mostro cannibale, cannibale, cannibale) e poi guardò l'uomo. C'era qualcosa di compassionevole nel suo sguardo, qualcosa che non stonava come si sarebbe potuto pensare nel volto di bestia.
«Una scelta» Ripetè il bambino.
Però, gli disse una vocina interiore, gli uomini bianchi erano cattivi. Molto cattivi. A lui non erano mai piaciuti. Anche se non era di certo una scusa per mangiarseli! Forse, continuò la vocina, sua madre aveva fatto tutto quello solo per proteggere la sua tribù. Aveva fatto un sacrificio. Una scelta.
Ripensò agli sguardi del capotribù e a quelli di terrore di tutti quando, tempo prima, avevano avvertito il wendigo avvicinarsi. Erano andati a caccia della sua mamma e suo papà l’aveva salvata… avevano cercato di uccidere la sua mamma!
Prima che potessero dirgli altro, il bambino si buttò nel suo grembo e si attaccò a lei, scoppiando a piangere. Lei lo abbracciò, confortandolo e cullandolo, ma il Piccolo Cacciatore non riuscì a riscaldarsi. Faceva freddo come fosse inverno, ma non lo era. Ed anche se era fastidioso non gli importava.
I cacciatori avevano cercato di uccidere la sua mamma!
I cacciatori l'avrebbero presa e forse l'avrebbero mangiata, tanto lei non sembrava più come loro, era diversa. Perchè era necessario mangiare gli altri animali? Non c'erano forse le piante del bosco? Non c'erano le uova degli uccelli? Perchè uccidere ciò che era diverso e risparmiare ciò che era uguale? Dunque, lo avevano ammesso, non tutti avevano lo stesso valore di fronte al Grande Spirito.
Ma era davvero così o erano gli umani che non avevano inteso la sua parola?
Una rabbia incomprensibile riempì il suo cuore.
«Ha fatto bene» Disse il bambino «Gli umani sono cattivi. Fanno cose cattive e non risparmiano ciò che è diverso».
Suo padre alzò appena il mento, combattuto fra il sorridere o l'inorridire perchè aveva funzionato: da mesi ormai portava alla capanna la carne degli umani cacciati da sua moglie e con quella nutriva suo figlio; questo era il motivo per cui lentamente in lui si era fatta strada l'idea che il tabù non fosse più così tabù, che non fosse una cosa abietta.
Una volta iniziato a riconoscere l'odore dei propri simili come appetitoso, anche se inconsciamente, si tende a chiudere un occhio sull'idea di mangiarseli. E il cuore diventa sempre più quello di un windigo, gelido verso gli uomini, pronto a giudicarli e condannarli.
«Cosa vuoi fare?» gli domandò suo padre.
«Voglio stare con lei» rispose il bambino.
Non gli interessava perché suo padre non si fosse trasformato: la mamma aveva dovuto scegliere di sacrificarsi. Era tutto chiaro nella sua testolina: se lei si fosse trasformata sarebbe stata libera e sarebbe rimasta legata a suo padre. Il Cacciatore godeva di un rispetto maggiore nella tribù e per lui sarebbe stato facile controllare tutto nella sua posizione.
«Voglio vivere qui, papà» disse il figlio del Cacciatore, senza guardarlo «Voglio stare qui con lei»
«Lippie?» domandò l’uomo.
Il bambino si asciugò le lacrime e si avvicinò al cervo che, lamentandosi piano, tuffò la testa tra le sue braccia.
«La mamma assomiglia a me e a Lippie ora… » disse piano.
Lippie non si avvicinò alla creatura che un tempo era stata umana, fremente, la testa bassa per coprirsi la gola, le zampe pronte a fuggire.
Il bambino si staccò dalla figura di sua madre per tendere un braccio verso il suo amico erbivoro
«Vieni!» disse «Vieni con me!».
Lippie mise una zampa avanti, gli occhi scuri che saettavano dalla figura del mostro a quella del bambino, le narici dilatate.
«Non avere paura, Lippie» Gli sussurrò il bambino in tono dolce «La mamma amerà tutti e due. Ora ha le corna e le orecchie come te, visto?» domandò il bambino e Lippie rimase immobile «Vivremo tutti insieme qui. È più grande della nostra tenda, starai bene anche tu! E vivremo sempre nella foresta!»
Il giovane cervo si lamentò: il suo amico umano non era spaventato, ma il suo istinto diceva di fuggire da quella creatura.
«Vivremo qui con la mamma e il papà!».
Lippie però continuò a non avvicinarsi e allora il Piccolo Cacciatore tornò ad abbracciare la mamma windigo. Voleva mostrargli ancora una volta che con lei sarebbe stato al sicuro.
Mostri come quello non mangiavano i cervi, di solito: preferivano di gran lungo stendere i loro unghioni su prede più difficili, sugli umani in particolare. E poi sembrava che i wendigo rispettassero in qualche modo i cervi, ma solo e soltanto loro, come se fossero imparentati, sebbene la sola cosa che davvero avessero in comune erano le imponenti corna ramificate.
Nonostante questo, i cervi erano animali sensibili e eccitabili, ma non estremamente intelligenti e proprio per questo sempre guardinghi e non molto amici di qualsivoglia predatore.
Perciò quando la mamma-windigo fece per avvicinarsi a lui con un lungo passo fluido, Lippie sollevò ben dritta la coda e saltò via, prendendo a correre come non aveva mai fatto in vita sua.
«Lippie, no!» strillò il Piccolo Cacciatore, tendendo le mani avanti ma non riuscendo nemmeno lontanamente a sfiorare la corta pelliccia del suo amico «Lippie! Fermati!».
Ma Lippie era già lontano, scomparso tra gli alberi.
Nella foresta avrebbe potuto incontrare lupi, orsi e quant’altro. Nessuno temibile come un Windigo, ma comunque pericolosi.
Senza pensarci due volte, partì di corsa e, alle sue spalle, sentì sua madre lamentarsi e suo padre ordinargli di fermarsi.
Quello che è certo dei cervi è che sono veloci. E silenziosi. Forse non le creature più veloci della foresta, ma riescono ad usare una delicata circospezione che li rende certamente più silenziosi di qualunque umano.
E Lippie aveva un bel vantaggio, specie sulle gambe corte di un bambino, mentre lui balzava potente sulle zampe lunghe dai tendini forti.
Questo pensava il Piccolo Cacciatore addentrandosi nel bosco, correndo. Non riuscì a raggiungere il cervo, non ci sarebbe mai potuto riuscire, però, tornando indietro, fu certo che quello sarebbe tornato, un giorno o l'altro. Era suo amico, magari ora poteva essere spaventato, confuso, ma non poteva averlo abbandonato.
Quello che il bambino non sapeva è che i cervi non pensano, e non amano, come gli esseri umani.
I suoi genitori lo raggiunsero insieme.
Fu strano vederli: lui più basso e proporzionato, lei altissima e che di umano non aveva quasi più nulla. Ma erano insieme ed era questo ciò che contava.
La scena lo rese felice, ma il pensiero che Lippie non fosse al sicuro lo schiacciò. Scoppiò a piangere, temendo di non rivederlo mai più. Sul volto di suo padre si dipinse una di quelle sue espressioni che non avrebbe mai saputo decifrare e sua madre, subito, scivolò sul terreno per stargli vicino. Sembrò quasi un fantasma per quanto fu veloce e silenziosa. Una rapida e breve folata di vento.
Pelo ritto sul dorso, una pelliccia quasi bianca, come quella sul ventre dei lupi, ma meno morbida.
Sospirando, il bambino la toccò.
Il tempo passa, passa per tutti, e passò per lui: ma non ebbe lo stesso significato che avrebbe avuto se fosse rimasto al villaggio.
Due anni, due inverni lunghi e rigidi capaci di gelare un cuore come gelavano le superfici dei laghetti.
Per la tribù furono anni difficili, il dover affrontare la scarsità di cibo, lo spostamento degli erbivori, la neve che coprì ogni centimetro di terra, lavoro, solo lavoro, e alcuni bambini nati da poco morirono, e questo li tenne occupati abbastanza da fargli dimenticare la scomparsa del cacciatore e di suo figlio.
Qualcuno disse che erano stati presi dai lupi. Di notte, intorno al fuoco, di tanto in tanto spuntava qualcuno che sussurrava l'azzardo che un windigo li avesse preso e allora tutti si stringevano e rabbrividivano più che se non fosse già terribile e mordente il gelo.
Furono due anni lunghi e terribili, ma per il Piccolo Cacciatore furono come due battiti di palpebre ed egli, divenuto finalmente un Grande Cacciatore, sebben giovane, tornò al primo freddo del terzo anno.
Il villaggio non era troppo lontano dalla casa della madre, ma il viaggio di ritorno fu comunque esaltante.
La foresta non era più nera e i rami non erano più mani rapaci e magre, ma dita morbide che accarezzavano la sua schiena in tocchi gentili.
La tempesta che infuriava intorno a lui era bellezza, ogni fiocco una perfetta formazione unica, cristallo di perfezione che congelava e uccideva e gli dava forza.
Il freddo adesso non mordeva la sua pelle, perchè era anche dentro di lui, ma non era dolore, era potere, un potere che gli uomini non possedevano.
Correva sul terreno come un lupo, chinato, il suo passo non emetteva rumore, solo sulla neve fresca era visibile, ma veniva presto cancellato dall'infuriare della tempesta.
La voce dei lupi, lontana, era un caleidoscopio di voci in caccia che roteava come la neve e si innalzava a un cielo nero come inchiostro.
Le luci lontane degli uomini, i loro fuochi, apparivano così piccoli!
Così insignificanti di fronte alla silenziosa potenza del passo di colui che era il padrone di quei luoghi, l'unico vero cacciatore.
Il figlio maggiore del Windigo. 


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