Il giorno dopo, al mio
risveglio, qualcosa era cambiato. Era la luce. Era sempre del consueto
grigioverde, come in una foresta sotto il cielo coperto, ma appariva più
limpida del solito. Fuori dalla finestra non c'era il velo di nebbia a
cui mi ero ormai abituata.
Saltai giù dal letto
per controllare e spalancai gli occhi, sorpresa: il cortile era
ricoperto da un sottile, ma bianchissimo e brillante, strato di neve, di
cui erano anche spolverati il tetto del mio pick-up e la strada. La
pioggia del giorno prima si era ghiacciata e disegnava ghirigori
fantasiosi e splendenti tra gli aghi dei pini, sui bordi della mia
finestra, sulle grondaie delle case.
Trattenni il respiro per un attimo, portandomi le mani al petto, poi proruppi in un urlo
«PAPÀ, C'È LA NEVE! LA NEVE!».
Carlo, in uniforme da poliziotto, comparve sull'uscio della mia camera, affacciando timidamente
«Stavo per uscire è...»
«Papà, hai visto che
bello? Lì fuori è tutto bianco e il ghiaccio è... è bellissimo»
conclusi. Spiegare a mio padre quanto amavo quella visione iniziando a
poeteggiare non mi sembrava la migliore idea, così mi limitai a cercare
di sembrare raggiante e alla fine lo contagiai e lui sorrise
«Sono così felice che ti piaccia, Belarda»
«Anch'io, papà».
Carlo si ritirò e uscì
prima che io avessi finito di prepararmi e scendere al piano di sotto.
Per molti versi, vivere con mio padre era come avere una casa tutta mia
e, lungi dal sentirmi abbandonata, mi godevo quelle occasioni di
solitudine.
Divorai qualche
cucchiaiata di cereali al cacao, di quelli che hanno un mucchio di
vitamine extra, e un po' di succo d'arancia direttamente dal cartone.
Ero un po' spaventata dall'idea di andare a scuola: anche oggi ci
sarebbero state battaglie a palle di neve e dubitavo che questa volta la
mia cartellina-scudo mi avrebbe salvata provvidenzialmente da tutti gli
assalti.
Inoltre avrei
incontrato di nuovo quel deficiente di Edward Cullen, che avrebbe potuto
arbitrariamente decidere che era una cosa simpatica spiaccicarmi sulla
nuca una palla di neve, visto che era bravo a leggere la gente quanto il
mio nuovo gatto era bravo a non far uscire i croccantini dalla ciotola,
cioè per niente; dopo tutto il suo blaterare imbarazzante e insensato
del giorno prima era chiaro che sarebbe stato difficile girargli alla
larga perché si credeva più affascinante di quello che era e che provava
qualcosa (non avevo ancora capito se interesse o profondo odio) per me.
Ci volle tutta la
concentrazione di cui ero capace per arrivare viva alla fine del
vialetto ghiacciato: rischiai di perdere l'equilibrio tre o quattro alla
volte e persino alla fine, quando ormai avevo raggiunto il pick-up, ma
mi aggrappai allo specchietto e fui salva. Non avevo dubbi, quel giorno
sarebbe stato irritante e scivoloso.
Guidando verso la
scuola, cercai di non pensare alla paura di cadere o a quella, ancora
più grande, di slittare sul ghiaccio e investire per sbaglio un paio di
vecchietti che attraversavano la strada. Poteva anche darsi che la mia
rovinosa goffaggine apparisse tenera, anziché patetica, (che fosse
questo il motivo per cui Mike e Eric mi venivano dietro in quel modo?
Speravo ardentemente di no!) e mi facesse vestire i panni della
damigella bisognosa d'aiuto, ma era preoccupante come questo mi mettesse
continuamente in pericolo.
Il pick-up non sembrava
avere alcun problema di tenuta sopra il ghiaccio scuro che copriva le
strade. In ogni caso, guidavo molto lentamente e cautamente, per nulla
desiderosa di spargere morte e distruzione sfrecciando attraverso la
Main Street. Ebbi quasi una visione, la vivida immaginazione di una
scena in cui il mio macchinone slittava lateralmente lungo la
carreggiata, schiacciava l'erba gelata e si sfracellava di fianco contro
una casa, dopo aver strappato via una buca delle lettere.
Per fortuna non accadde
nulla di male. Giunta a scuola, e scesa dal mezzo, capii perché il
viaggio era stato così semplice. Fui incuriosita da qualcosa di
argentato e mi avvicinai al retro del pick-up, ancorandomi per bene alla
carrozzeria, per controllare gli pneumatici. Erano avvolti da catenelle
sottili, intrecciate a forma di rombo. Carlo si era alzato chissà a che
ora per montarle ed evitare che sfracellassi case, altre macchine e
finanche me stessa.
Non ero abituata ad
avere accanto qualcuno che si prendesse cura di me e la cortesia
silenziosa di papà mi sorprese: se mai mamma avesse avuto in mente
l'idea di fare qualcosa di simile, di sicuro me l'avrebbe fatto sapere
venti ore prima e avrebbe preteso una sequela di ringraziamenti
infinita.
Impalata accanto al
faro posteriore del pick-up, mi sforzavo di ricacciare indietro l'ondata
improvvisa di emozioni positive provocata dalle catene. Fu in quel
momento che sentii un rumore strano.
Era un fischio acuto,
una frenata, sempre più vicina e inquietante. Fu un attimo: alzai gli
occhi, sbigottita. Vidi parecchie cose contemporaneamente. Non era un
film, perciò niente rallentatore, ma per fortuna la vampata di
adrenalina che mi si conficcò nel cervello, come l'ago enorme di una
vecchia siringa, mi rese più veloce, accelerando l'attività del mio
cervello per farmi trovare a recepire con chiarezza molti dettagli in un
colpo solo.
Edward Cullen, a
quattro auto di distanza da me, mi fissava terrorizzato. Il suo viso
emergeva da un mare di altri volti, immobilizzati nella stessa maschera
di terrore. Ma l'elemento più importante era il furgoncino blu scuro che
sbandava, le ruote bloccate e stridenti, una trottola impazzita nel
parcheggio ghiacciato. Stava per schiantarsi contro il retro del mio
pick-up, di fronte al quale c'ero io.
Forse non avrei avuto
neppure il tempo di chiudere gli occhi, forse non sarei riuscita neanche
volendo a chiuderli, ma il mio corpo si mosse da solo, spinto anche dal
cervello che urlava "VIA!".
Un istante prima che
potessi sentire il fragore del furgoncino che si accartocciava sul
cassone del pick-up, mi lanciai di lato, aiutandomi anche con le braccia
per avere maggiore spinta. Mentre il furgoncino sbatteva contro il pick
up, che a sua volta mi sbatteva contro un braccio (per fortuna non
troppo forte) spingendomi ancora più lontano, vidi Edward Cullen
frapporsi fra i due mezzi.
Lo avrebbero spiaccicato, pensai.
Scivolai, complice
anche l'urto del furgoncino, e caddi di schiena contro il manto
stradale, rimanendo completamente senza fiato: le spalle mi facevano
male per lo sforzo mostruoso che avevano dovuto sopportare, improvviso,
ma almeno ero viva. Il cuore mi batteva fortissimo, il fiato formava
nuvolette nell'aria gelida, e il cielo grigio mi sembrava meraviglioso,
per quei pochi e minuscoli istanti che potei scrutarlo.
Edward doveva essere
morto cercando di salvarmi, anche se non aveva alcun senso al mondo che
fosse riuscito ad avvicinarsi al luogo dell'incidente a quella velocità.
Ero sdraiata
sull'asfalto, dietro l'auto scura accanto alla quale avevo parcheggiato.
Non potevo scorgere altro, perché la corsa del furgoncino non era
ancora finita: aveva strusciato girandosi contro la coda del mio mezzo,
con una derapata, continuando a slittare in testacoda, e stava per
investirmi di nuovo.
Rotolai dietro la
macchina nera per usarla come scudo e mi alzai in piedi di scatto,
nonostante il ghiaccio ostacolasse la fluidità dei miei movimenti, poi
allungai una mano per afferrare i capelli di Edward Cullen che, contro
ogni pronostico, era ancora vivo, in piedi e accanto a me, pronto a
farsi mettere sotto dal furgoncino, con l'espressione più determinata
che avessi mai visto sulla faccia di qualcuno che stava sfidando un
automezzo a beccarlo in pieno.
«Buttati!» Urlai, ma
prima ancora che potessi finire la parola strattonai per i capelli lo
strano ragazzo e ci ritrovammo a terra. Il furgoncino, sbattendo contro
un'altra macchina, finalmente si fermò.
Ansimavo fortissimo,
mentre Edward tratteneva il respiro e mi fissava: non un filo di fiato
usciva dalle sue labbra socchiuse, altrimenti avrebbe di certo creato
nuvolette nell'aria gelida.
Per un interminabile
istante il silenzio fu assoluto, poi iniziarono le urla. In quel
pandemonio, sentivo gridare il mio nome dappertutto. Ma nitida, in mezzo
al frastuono, vicina al mio orecchio, sentii la voce di Edward Cullen
«Bella, tutto a posto?».
Lo guardai negli occhi. Erano bellissimi, come oro fuso, ma non mi avrebbero impedito di dirgli quello che pensavo.
«Razza di deficiente!»
Strillai «Potevi morire! Se non ti avessi tirato indietro saresti finito
sotto! Ma che bisogno c'era di mettersi in mezzo?! Guarda che non sei
fatto di metallo! Saresti morto!».
La mia voce suonava
ridicola, di parecchie ottave più alta del normale, come se stessi per
mettermi a piangere, anche se non ne avevo alcuna intenzione. I polmoni
mi bruciavano e intorno alle mie narici e alle mie labbra si formavano
nuvolette di condensa che mi facevano somigliare ad un piccolo drago
scarmigliato.
«Attenta» Mi avvertì lui «Mi sai che hai preso una bella botta in testa».
In quel momento mi accorsi della dolorosa pulsazione sopra l'orecchio sinistro.
«Ahi» dissi, sorpresa.
«Come pensavo». Incredibilmente, sembrava che lui stesse trattenendo una risata.
Lo guardai, mortalmente seria, mentre mi massaggiavo la zona dolorante con pollice ed indice
«Come diavolo... hai fatto ad arrivare così in fretta?»
«Ero qui accanto a te, Bella» rispose lui, serio
«No, non lo eri. Eri là
sotto» indicai il punto esatto in cui era «E poi eri qui» indicai il
punto in cui lo avevo salvato «E se non fosse stato per me, saresti
morto spiaccicato»
«Sono più duro di quanto pensi» rispose, con un sorrisetto.
Lo spintonai,
bofonchiando «Deficiente, almeno ringrazia» e cercai di sedermi. Lui mi
lasciò fare allontanandosi quanto poteva nell'angusto spazio fra l'auto e
il furgone. Osservai la sua espressione preoccupata, innocente, e per
l'ennesima volta fui disorientata dall'intensità dei suoi occhi dorati.
Sembravano gli occhi di un cane da caccia e forse erano ugualmente
teneri mentre mi scrutavano, cercando di capire quanto mi ero fatta
male.
Infine ci trovarono,
una folla di persone con le lacrime agli occhi, che urlavano verso di
noi e si urlavano a vicenda in un gran caos che mi confondeva.
«Non muovetevi» Ci ingiunse qualcuno
«Tirate fuori Tyler dal furgone!» gridò qualcun altro.
Il movimento attorno a
noi era frenetico. Cercai di alzarmi, ma la mano fredda di Edward mi
tenne per una spalla e mi ricacciò giù
«Per adesso resta qui»
«Ma fa freddo!» mi lagnai. Fui sorpresa nel sentirlo sogghignare. Suonava sarcastico.
Mi arrabbiai e nonostante la botta e il freddo e lo shock scattai in piedi, divincolandomi dalla sua presa
«Senti, tu stavi laggiù. Eri accanto alla tua macchina».
Il suo volto si indurì «Invece no».
«Ti ho visto. Hai cercato di suicidarti buttandoti sotto il camioncino. Hai bisogno di aiuto».
Intorno a noi c'era il
caos. Sentivo le voci più roche degli adulti giungere sul luogo
dell'incidente e chiedere spiegazioni ad un paio di ragazzi che,
volenterosi, gli fecero un resoconto dell'accaduto. Nonostante ciò, mi
ostinai a non lasciare cadere il discorso: avevo ragione io e questo
avrebbe potuto fare la differenza fra la sua vita e la sua morte. Edward
forse era depresso e aveva cercato di farsi fuori in una vampata di
gloria, fingendo che io avessi bisogno di aiuto, anche se non avevo idea
di come avesse fatto ad arrivare in un tempo così breve. Era
velocissimo? Come faceva?
«Invece no».
L'oro dei suoi occhi era fiammeggiante. «Per favore, Bella»
«Perché?».
«Fidati» Mi pregò lui, cercando di sopraffarmi con la sua voce dolce. Non potevo cedere.
Ora si sentivano anche le sirene.
«Prometti che mi spiegherai tutto, altrimenti ne parlerò con mio padre che ne parlerà con tuo padre»
«Promesso» concluse lui, esasperato
«E non fare l'esasperato» risposi io «Ti ho appena salvato la vita».
Ci vollero due
infermieri e due insegnanti (Varner di trigonometria e Clapp di
ginnastica) per spostare il furgoncino abbastanza da far passare le
barelle fino a noi. Edward rifiutò con decisione di salirci, ma io
allargai le braccia
«Ha preso una botta» dissi «Quando l'ho tirato indietro»
«Ho battuto solo con la spalla, tu con la testa» replicò lui, con aria da saputello
«Non è vero» scossi la testa «È molto confuso, ha preso un colpo più duro del mio».
Non era vero, ma non
avevo intenzione di fare l'impressione della damina che si era fatta
male sul luogo dell'incidente, non quando ero stata io a salvare le sue
pallide chiappe.
Mi si avvicinarono per farmi indossare il collarino, ma io mi scansai
«Prima prendetevi cura di Edward, ve ne prego» li implorai «Non posso sopportare che non prestiate per prima le cure a lui»
«Sto bene» disse lui, stringendosi nelle spalle
«Beh, anch'io» lo imitai, stringendomi nelle spalle in modo identico al suo «O tutti e due o nessuno».
Uno degli infermieri,
un uomo dalla pelle color corteccia di cedro, cercò di convincermi che
era necessario indossare quel coso per evitare movimenti bruschi nel
caso avessi subito traumi alle vertebre.
«Non ho subito traumi alle vertebre» Misi avanti le mani «Però posso dire che Edward invece si»
«Non è vero» disse scandalizzato il ragazzo «Non mentire»
«Guardate la sua
faccia» lo puntai «È pallidissimo, terrorizzato, sotto shock. Il sangue
deve essergli tutto affluito alla testa, ha delle occhiaie orribili».
Dovettero tutti
ammettere che avevo ragione e cercarono di costringere lui, questa
volta, a mettersi il collarino. Ah, gli piaceva fare il bello e dannato,
eh? Peccato che sembrasse davvero malaticcio e che alla fine, per non
dover litigare con gli infermieri e gli insegnanti, dovette farsi
imbragare e caricare sull'ambulanza. Io mi sedetti davanti, al posto del
passeggero, probabilmente solo perché ero la figlia dello sceriffo
Cigna.
La situazione era pazzesca, in senso buono.
Prima che l'ambulanza partisse arrivò mio padre.
«Bella!» Urlò, preso
dal panico, quando mi vide sull'ambulanza; per fortuna si tranquillizzò
un poco quando vide che ero seduta e non sulla barella, dietro, con
Edward.
«Sto benissimo, papà» Sospirai io «Niente di rotto».
Chiese conferma all'infermiere più vicino, che gli sorrise e disse
«La portiamo solo per
un controllo. Quello che si è fatto male è il ragazzo che c'è dietro.
Sua figlia gli ha salvato la vita, è stata davvero pronta. Dovrebbe
essere fiero di lei».
Mio padre salì
sull'ambulanza e mi strinse forte in un abbraccio. Eravamo entrambi un
po' imbarazzati, ma le circostanze eroiche, dovevo concederglielo,
meritavano un abbraccio. Stavo facendo quasi fatica a metabolizzarlo...
ero un'eroina, avevo salvato la vita di un ragazzo. Era una grande
responsabilità.
Vidi i fratelli di
Edward che scrutavano la scena da lontano: alcuni sembravano infuriati,
altri scuotevano il capo, ma nessuno di loro sembrava minimamente
preoccupato per la salute del fratello. Erano strambi, ma non sapevo che
fossero anche anaffettivi.
E poi c'era sempre la
faccenda dell'Edward superveloce... che avesse dei veri superpoteri? O
ero ammattita un po' a causa della botta in testa che avevo
effettivamente preso, ma poi negato per fare un torto a Edward?
Per
fortuna mi diedero del ghiaccio da applicare su un'eventuale botta in
testa, così riuscii a fermare la crescita di un bernoccolo che
altrimenti si sarebbe sollevato implacabile.
Ovviamente, l'ambulanza
fu scortata dalla polizia durante il tragitto verso l'ospedale. Mentre
scaricavano Edward mi dileguai oltre l'entrata dell'ospedale con le mie
sole forze: ero certa che lui stesse digrignando i denti per la rabbia,
ma gli avrei dimostrato di essere superiore alle semplici vendette
allontanandomi senza godermelo.
Incontrai un'infermiera, che mi chiese senza troppi preamboli se ero la ragazza che aveva salvato Edward Cullen.
«Si» Dissi, annuendo
contemporaneamente «Ma non è stato così grandioso come dicono. Ero solo
lì e... niente, chiunque l'avrebbe fatto».
Mentivo. Mentivo
mentivo mentivo: era stato effettivamente grandioso quando, con tutta la
prontezza e la velocità che neanche pensavo di possedere avevo sfidato
il ghiaccio scivoloso e afferrato Edward per la prima cosa che le mie
dita avevano sfiorato (i suoi selvaggi, mai pettinati capelli) e lo
avevano tirato indietro appena in tempo perché il furgoncino stridendo falciasse il ghiaccio nel punto in cui li si era trovato.
L'infermiera
tracagnotta, che aveva capelli bruni e due grandi occhi color nocciola,
mi misurò la pressione e la febbre, poi mi disse che ero a posto e che
se volevo mi avrebbe accompagnata a vedere in che condizioni era il mio
compagno di classe.
Camminammo nella lunga corsia del pronto soccorso, con tanti letti in fila separati da tendine color pastello.
Due infermieri
sistemarono in un letto accanto a quello di Edward un ferito: riconobbi
Tyler Crowley, del mio stesso corso di educazione civica, con una
stretta fasciatura sporca di sangue che gli avvolgeva la testa. Stava
cento volte peggio di me (che ero l'impettita eroina del giorno), ma mi
fissava, ansioso.
«Bella, non sai quanto mi dispiace!»
«È tutto a posto,
Tyler» lo rassicurai «Tu sembri davvero malridotto, invece. Sono così
dispiaciuta che sia successo... le strade per ora sono un inferno,
sarebbe capitato anche a me, se mio padre non avesse montato le catene
alle ruote del mio pick-up».
Mentre parlavamo, un
infermiere cominciò a sciogliergli il bendaggio, scoprendo una miriade
di escoriazioni sulla fronte e sulla guancia sinistra.
«Ho avuto paura di
ucciderti!» Disse lui, in tono lamentoso e spaventato «Andavo troppo
veloce, e ho preso una lastra di ghiaccio...». Fece una smorfia di
dolore quando l'infermiere iniziò a strofinargli la faccia con un
batuffolo di cotone imbevuto di antisettico.
«Non preoccuparti, mi hai mancata»
«Come hai fatto a spostarti così in fretta? Ti ho visto e un istante dopo eri sparita...»
«Mi sono buttata» dissi
«Lo so che sembra da pazzi, ma ho pensato a come... a come il mio gatto
fa quando vuole saltare da una mensola all'altra. Ho usato anche le
braccia per spingermi. Mi sono rannicchiata e poi... ho provato un po' a
fare il gatto. Mi sono fatta male lo stesso, però sono viva» sorrisi,
cercando di rassicurarlo «Piuttosto, non hai avuto paura di mettere
sotto Cullen?»
«Cullen? Non l'ho visto... Dio, forse perché è successo tutto talmente in fretta. Lui sta bene?»
«Penso di si, anche se lo hanno portato qui in barella. L'ho tirato via prima che potesse finire sotto».
Tyler spalancò gli occhi, incredulo e ammirato
«L'hai salvato? Tu?»
«Davanti a tutta la scolaresca» ammisi «E credo che me ne vanterò per i prossimi duecento o trecento anni».
Edward, nel letto
accanto, sbuffò. Apparentemente, Tyler era così fuori di sé per la paura
da non aver neanche notato che Cullen era sdraiato nel lettino più
vicino al suo, con le tendine alzate.
«C-Cullen?» Balbettò Tyler «S-scusa...»
«Non fa niente» rispose Edward, in tono finto-umile «Non mi sono fatto niente»
«Solo perché ti ho salvato» dissi, agitando l'indice verso di lui
«Oh chiedo perdono...
chiedo perdono» si intromise di nuovo Tyler «Davvero, sono stato un
idiota a correre in quel modo con il ghiaccio, io non dovevo, io
ero...».
Fummo assillati dalle
scuse di Tyler, nonché da un ingente numero di promesse di risarcimento.
Non c'era verso: malgrado i nostri continui tentativi di convincerlo
che stavo bene, lui si tormentava da solo. Alla fine, quando iniziammo
ad ignorarlo, i suoi borbottii si affievolirono.
Edward si mise a sedere
sul bordo del letto. Non portava il collarino, doveva esserselo tolto
arbitrariamente non appena le infermiere lo avevano mollato un attimo.
Com'era orgoglioso! Al limite dell'idiozia.
Mi guardò con un
sorriso furbesco, tirando un po' indietro il collo, come una papera. Era
così bello, mi chiesi come facesse ad essere anche così stupido e
antipatico.
«Allora, qual'è il verdetto?» Chiese
«Non mi sono fatta un graffio» risposi «Ma non sono ancora pronta per tornare a casa. Non finché non saprò come stai tu»
«Ah, ti preoccupi per me?»
«Ovviamente. Molti
esseri umani provano una cosa chiamata "empatia"» gli spiegai «Che gli
permette di immedesimarsi nelle altre persone e molto spesso nel
desiderare che queste non soffrano. Anche io, non essendo per nulla
psicopatica, ho questa cosa che si chiama "empatia" di cui di sicuro non
hai mai sentito parlare e...».
Volevo fargli una
ramanzina, ma d'improvviso sbucò fuori, come dal nulla, un dottore.
Rimasi a bocca aperta. Prima, durante l'incidente, non avevo visto
certamente il mondo al rallentatore, ma mentre questo medico camminava
lentamente verso di me, con il lungo camice bianco che svolazzava
intorno alle sue cosce, ebbi un'improvvisa impressione di dilatazione
temporale. Non avrei potuto mai più prendere in giro papà perché diceva
che il dottor Cullen era bello, non avrei potuto prenderlo in giro
neanche se fosse stato il suo amante segreto, accidenti!
Perché quello lì non poteva essere nessun altro che il bellissimo, fighissimo, incredibilissimo dottor Carlisle Cullen.
Era giovane, biondo,
con i capelli pettinati all'indietro, e il suo pallore unito all'oro dei
suoi capelli lo faceva sembrare una statua antica e splendente che
ritraeva una qualche divinità. La sua faccia, mascolina e liscissima,
aveva bei tratti regolari, con il naso dritto e le labbra mediamente
piene, atteggiate ad un sorrisetto compassionevole e dolce. Aveva
occhiaie marcate e l'aria stanca, due caratteristiche che su chiunque
altro (compreso il suo figliuolo adottivo) sarebbero stati punti di
demerito, ma a lui davano un'aria più vissuta, forte e gentile, da
infaticabile lavoratore. Un maschio con la M grande. Un Maschio.
«E allora, signorina
Swan» Disse il dottor Maschio, con un tono di voce decisamente
attraente, come di sabbia bagnata al vento «Come stiamo?»
«Bene» risposi soltanto, battendo le palpebre.
Accese il pannello luminoso sul muro sopra la mia testa, osservando alcune radiografie.
«Sono di Edward?» Chiesi
«No» rispose lui, scuotendo la testa «Edward sta benissimo, per fortuna, e fra poco sarà libero di andare»
«Ah»
«Ti fa male la testa? Edward dice che hai preso un brutto colpo»
«Sto bene» dissi, di nuovo, lanciando un'occhiataccia verso Edward, che sogghignò.
Le dita fredde del dottore mi massaggiarono piano il cranio. Io sobbalzai, poi mi sciolsi. Lui se ne accorse
«Sensibile?» chiese
«No, davvero».
Avrei voluto urlare
"ancora!" quando le mani del dottore si ritrassero dalla mia testa.
Avevo un debole per i massaggi alla testa, specie se a farmeli era un
dottore simpatico, gentile, che nel tempo libero sopportava i capricci
di Edward Cullen e che era bello come un divo holliwoodiano.
«Bene, tuo padre è in sala d'attesa, puoi farti riaccompagnare a casa. Se hai capogiri o problemi di vista, però, torna subito»
«Posso andare a scuola?» chiesi, tanto per esserne sicura
«Forse per oggi dovresti stare tranquilla».
Feci un cenno verso Edward
«Lui, invece, che fa, può tornare?»
«Qualcuno dovrà pur diffondere la notizia che siamo sopravvissuti, no?» rispose il ragazzo, compiaciuto
«A dir la verità» lo
corresse il dottor Cullen «Sembra che metà istituto sia in sala
d'attesa. E che metà istituto sappia che tu hai salvato la vita di mio
figlio».
Il sorriso di Edward
scomparve come un polaretto su un marciapiede con quaranta gradi
all'ombra. Oh no! Era uno di quei figli di papà che non vogliono far
sapere a nessuno che una ragazza gli ha salvato le chiappette!
«Grazie» Disse il dottor Cullen, allungandomi una mano «Tengo molto a mio figlio. Ti sono molto grato»
«Carlisle...» disse Edward, con un tono metà supplicante e metà di minaccia.
Strinsi la mano del dottor Cullen, molto fiera di me
«Sono contenta di aver
salvato suo figlio. Ad ogni modo, forse, si sarebbe salvato da solo se
non ci fossi stata io ad occupare lo spazio dietro di lui» dissi, anche
se non era vero: Edward sarebbe stato marmellata.
Cercai di uscire molto
allegramente e sbarazzinamente dalla stanza, ma inciampai nel piede del
letto di Edward e il dottor Cullen mi afferrò proprio un istante prima
che il mio naso si spiaccicasse contro le piastrelle.
«Sto bene» Dissi, quando mi guardò preoccupato.
Era inutile informarlo che i miei problemi di equilibrio non avevano nulla a che fare con la botta in testa.
«Prendi dell'aspirina contro il dolore» Suggerì, mentre mi aiutava ad alzarmi
«Non fa così male. Non prendo farmaci a caso, mi scusi, dottore».
Il suo buonumore non parve scalfito
«A quanto pare sei stata davvero molto fortunata» disse, mentre firmava le mie carte con uno svolazzo.
Oh, le carte! Quasi
quasi me le scordavo lì. Odiavo dover aspettare che qualcuno mi firmasse
le carte prima di uscire da un qualunque posto.
Quando ebbe finito, il dottore si concentrò su Tyler, avvicinandosi al suo letto.
«Purtroppo, tu dovrai
restare qui un po' più a lungo» Mormorò, facendo trasalire il ragazzo.
Era chiaro che a lui, la bellezza di mister universo biondo faceva
ancora più effetto che a me.
Appena Carlisle Cullen ebbe girato le spalle, mi accostai ad Edward, che si alzò in piedi con uno scatto elegante e fulmineo
«Hai un minuto? Ho bisogno di parlarti».
Lui fece un passo
indietro, irrigidendo il volto come al solito. Lo faceva sempre: ogni
volta che dicevo una cosa che non gli andava anche solo
lontanissimamente a genio, la sua faccia diventava un pezzo di granito
vagamente disgustato.
«Tuo padre ti aspetta» Disse tra i denti.
Io lanciai uno sguardo verso il dottor Cullen e Tyler.
«Vorrei parlare con te,
da soli, se non è un problema» Incalzai. Non mi sarei lasciata
abbindolare dai suoi ridicoli, assolutamente inefficaci, infantili
metodi di manipolazione.
Allargò le braccia, poi
mi voltò le spalle e si diresse con lunghe falcate dall'altra parte
dello stanzone. Quasi mi toccava correre per tenere il suo passo, visto
che stava praticamente scappando. Non appena girammo l'angolo che dava
su un breve corridoio, si volse verso di me.
«Cosa vuoi?» chiese, con tono irritato. Lo sguardo era freddo.
Quell'aria ostile mi intimidiva, mio malgrado, perciò parlai con un po' meno decisione di quanto desiderassi
«Mi devi una spiegazione» gli ricordai «E non questa irritazione a caso da ragazzino bipolare»
«Io non ti devo proprio niente».
Arretrai davanti al risentimento che trapelava dalla sua voce
«L'hai promesso»
«Bella, hai battuto la testa, non sai quello che dici». Mi stava provocando.
A quel punto persi le staffe, gli lanciai un'occhiata spavalda e ringhiai
«La mia testa non ha un
graffio. In compenso c'è qualcosa che non va nella tua. Secondo me sei
depresso. O depresso e bipolare. Ed è terribile, ma hai bisogno di
aiuto, aiuto vero. Se non mi spiegherai come stanno le cose, dirò a
tutta la scuola che sei depresso»
«Cosa?!» fece lui, infuriato
«Esatto. E lo sai che mi ascoltano. Tutti mi ascoltano. Invece nessuno ascolta te»
«Io non sono depresso!»
«Non dirlo come se ti avessi insultato, razza di psicopatico. Voglio aiutarti»
«Non mi aiuti così!»
«Si che ti aiuto. O
come minimo aiuto me stessa. Dammi la spiegazione che mi devi oppure
tutti saranno carini e gentili con te tutti i giorni perché dirò a tutti
che sei davvero molto malato, d'accordo?».
Lui indietreggiò al posto mio, questa volta, e mi lanciò un'occhiataccia
«Cosa vuoi da me, Bella?»
«Voglio la verità. Voglio sapere perché ti sto coprendo»
«Secondo te cos'è successo?» sbottò lui.
Non riuscii a trattenermi.
«Quello che so è che
eri tutt'altro che vicino a me. Neanche Tyler ti ha visto, perciò non
dirmi che ho battuto la testa. Ho una scolaresca a supportare la
versione del mio gesto eroico. Eri lontanissimo e poi d'un tratto eri
accanto a me... eri arrivato lì, ti ci eri fiondato, come se volessi
morire. Ma l'hai fatto troppo velocemente, non ho mai visto niente del genere, io...».
Ero infuriata, talmente
tanto che ero sul punto di piangere; serrai i denti per lo sforzo di
trattenere le lacrime. Si, sono una buffoncella emotiva, ma non volevo
che quel poveraccio provasse a farsi fuori così, volevo aiutarlo, io
volevo...
Lui mi fissava, incredulo e rigido. Stava sulla difensiva.
«Pensi che io sia
venuto fin lì per uccidermi?» Il suo tono di voce voleva mettere in
dubbio che fossi sana di mente, ma non fece altro che insospettirmi di
più. Sembrava una battuta recitata alla perfezione da un attore esperto.
Mi limitai ad annuire, a denti stretti.
«Non ci crederà nessuno, lo sai» Adesso pareva che volesse deridermi
«Vuoi mettermi alla prova?» lo stuzzicai, stringendo ancora i denti fra una parola e l'altra «Lo vuoi, vero?».
Lui parve spaventato. Spaventato e scioccato insieme, ma cercava di nasconderlo pessimamente. Altro che grande attore...
«Non lo dirò a nessuno» Controllai la rabbia e pronunciai ogni parola lentamente.
Lui parve più sorpreso, ma anche più tranquillo.
«E allora, che importa?»
«Importa a me»
insistetti «Non lo dirò a nessuno, a patto che mi darai la risposta che
merito. Non mi piace mentire; perciò, se lo faccio, deve esserci un buon
motivo»
«Non puoi limitarti a lasciar perdere?»
«Non puoi limitarti a ringraziarmi e dirmi perché mai ho dovuto salvarti?».
Non mi davo per vinta: aspettavo, infuriata e impaziente.
«Immagino che tu non intenda lasciar perdere» Disse lui
«No»
«In tal caso... spero che tu sopporti di buon grado la delusione».
Ci guardavamo in cagnesco, muti. Parlai per prima, sforzandomi di mantenere la concentrazione.
«Perché?» Dissi semplicemente, con grande freddezza.
Lui esitò e per un istante su quel volto meraviglioso vidi un'inattesa vulnerabilità.
«Non lo so» Disse, a mezza voce.
Poi mi voltò le spalle e se ne andò.
Ero talmente arrabbiata che per qualche minuto non riuscii a muovermi.