giovedì 27 settembre 2018

Il Mecenate


One-shot per il concorso "Opera d'arte" di @AfterDarkIT.

Serena è un'artista che ha perduto l'ispirazione; per ritrovarla decide di visitare la prestigiosa Galleria Borghese nella quale sono custodite alcune delle più grandi opere del passato. Lì incontra uno strano vecchietto che nasconde più di un segreto...










Il Mecenate

Serena aspettava un'ispirazione. Era sicura che quando fosse riuscita a richiamarla dalla tana distante in cui si era nascosta, come una volpe tremebonda in periodo di caccia, sarebbe riuscita a creare qualcosa di assolutamente esplosivo.
Era difficile definire l'ispirazione per un artista. Serena pensava che fosse diversa per ognuno, e che la sua fosse in grado di attivare le sue capacità artistiche che, ne era sicura, non avevano bisogno di spinte. Quello di cui aveva bisogno era della decisione per creare quello che aveva in mente, o farsi venire in mente qualcosa. Oh, non aveva idea di come parlare dell'ispirazione facendola sembrare una cosa profonda, ma poetare non avrebbe fatto altro che farle saltare i nervi senza aiutarla neanche un pochino.
Il suo sketchbook giaceva aperto sulle sue gambe da ormai un quarto d'ora, e la sua matita – rosa a stelline, ed era indecisa se questo particolare la rendesse più eccentrica o meno credibile – si rifiutava di tracciare linee che avessero un senso. In realtà non tracciava linee, punto. Veniva sollevata a pochi centimetri dal foglio immacolato e la mano di Serena ne faceva spostare la punta di grafite avanti e indietro senza risultati, come un cantastorie senza fiato.
Per quello, per le linee sensate, aveva bisogno dell'ispirazione.
Posò il suo sketchbook di fianco a sé, sul muretto di mattoni che stava proprio attaccato alla parete di casa sua che dava sul giardino, riparata da occhi indiscreti. Era un libricino dall'aria rispettabile, con la copertina nera e seria come la cravatta di un becchino, che sembrava rimproverare l'esistenza della matita con la sua sola presenza. Serena si raddrizzò e si ricompose, intrecciando le dita di fronte a sé. Si schiarì la gola con un piccolo versetto roco, le spalle dritte, come se avesse cercato di impressionare il disastro che era il giardino.
L'unica cosa che sembrava riuscire a salvarsi dall'essere divorata dalle erbacce – fine misera toccata ai narcisi e alle violette – era un albero di melograno che si stiracchiava soddisfatto e sornione contro il cielo. Serena era stata contenta di vedere che di melagrane se ne stavano gonfiando parecchie tra i suoi rami; qualcuna stava cominciando ad arrossire compiaciuta. Almeno la metà era caduta a terra, il resto sembrava essere stato mangiucchiato direttamente sui rami, da uccelli o addirittura da ratti intraprendenti.
No, il melograno non era un buon punto di partenza per l'ispirazione, non oggi.
Serena lasciò correre lo sguardo sulle piante, schiarendosi la gola di nuovo, indispettita. Quello che vedeva non aveva nulla del bello classico: era sicura che nessuno avrebbe mai comprato un quadro con quel rampicante abbracciato ad un'erbaccia vigorosa, tanto da sembrare una pianta sola, e cespugli di erbacce dall'aria anonima, ed erba spessa e irregolare che faceva capolino tra i grovigli vegetali. Il suo muretto riscaldato dal sole sembrava una scialuppa di salvataggio in un mare agitato.
La natura non aveva la minima intenzione di aiutarla nella sua crociata artistica.
Non era neanche una paesaggista, Serena, ed era convinta che nessun paesaggista rispettabile avrebbe potuto prendere ispirazione da quello sfacelo. Quello di cui aveva bisogno per ritrovare la bussola era qualcosa che fosse inconfondibilmente bello di per sé, bellezza raffinata già estratta dalle fallaci cose terrene da qualche buon'anima che le risparmiasse la fatica.
In poche parole, aveva bisogno di vedere arte umana.
Il Cristo di Mantegna, Amore e Psiche di Canova, la Madonna Sistina di Raffaello...
Aveva disegnato i due puttini sul fondo di quel quadro in un lampo di entusiasmo sul suo libricino austero, ed era stata felicissima di come erano usciti: le proporzioni dei loro piccoli corpicini, i bordi smussati delle alucce. Li cercò con un sorriso sulle labbra, sfogliando le pagine.
Non erano come li ricordava. Il puttino sulla destra aveva la faccia di un bambino di cera messo sopra una candela, il cui ultimo pensiero in punto di scioglimento era stato di profondo disappunto. Al puttino sulla sinistra qualcuno doveva aver calciato entrambi i calcagni mentre lei non guardava, perché era sicura che non fosse quella l'espressione che gli aveva disegnato lei. Il suo angioletto era stato un bimbo pensieroso ma adorabile, con minuscole alette da colomba spalancate dietro le spalle. Questo invece era uscito sconfitto da un combattimento da strada.
Serena si strinse lo sketchbook con la matita infilata tra le pagine al petto, molto ben chiuso, e schizzò in piedi, gettando un'ultima occhiata di rimprovero alla giungla dietro casa sua prima di allontanarsi a grandi passi.
La Galleria Borghese di Roma, aperta nel millenovecentodue, da fuori ha un aspetto squadrato e pulito, imponente e bianco, con una facciata che è un impeccabile esempio di simmetria e pulizia, con abbellimenti graziosi ma non barocchi, lasciando il bianco puro a predominare sul colpo d'occhio. Essa si trova all'interno della villa borghese Pinciana ed è impossibile trovare un'altra galleria che ha il vanto di esporre allo stesso tempo tante e tali opere da nomi come Bernini, Caravaggio, Carracci, Raffaello, Canova, Rubens e molti altri fra quelli che hanno costellato i libri di storia per generazioni.
Lo zampino e l'ingegno umano erano così indiscutibilmente presenti che Serena si sentì tranquillizzata al solo vedere la facciata bianca dell'edificio.
Aveva dovuto guidare non poco per riuscire ad arrivare, e si, aveva dovuto pagare, ma l'arte richiedeva qualche sacrificio. Il fido sketchbook, la matita e il suo lupetto color lavanda portafortuna, portato a dispetto del clima estivo, accompagnarono Serena mentre attraversava la strada che spartiva le due ali verdi e curate del giardino, che circondavano la struttura.
Ecco, così era come doveva presentarsi l'erba per essere bella, per lei.
C'erano dei passi costanti alle spalle della ragazza da un po', ma la giovane non si allarmò. Non mancavano i visitatori, non c'era motivo di credere che qualcuno stesse tallonando proprio lei.
Ad ogni modo, Serena non poté fare a meno di notare che i passi dietro di lei erano irregolari; forse l'altro visitatore aveva qualche problema con una gamba, perché non riusciva a gestirla bene.
Serena inspirò, espirò, sentendo un sorriso sbocciarle sul volto.
Si sentiva quasi ribelle per avere seguito una decisione fatta così su due piedi. Sarebbe stato ancora più divertente se non fosse stata tipo da fare questo genere di cose, però seguire i colpi di testa era una droga che aveva assaggiato da quando portava ancora le trecce stile Pollyanna, ovvero molti anni prima. Non si poteva dire che fosse un comportamento insolito per lei, ma questo non la frenò dal sentirsi molto fiera di sé.
Era quasi arrivata quando sentì una voce gracidante alle sue spalle «Signorina? Signorina bionda?».
Serena voltò solo il capo verso la voce che la chiamava. Il fato doveva avere un disegno piuttosto contorto in programma per lei, perché non appena girò il mento inciampò su qualcosa, incespicò e non cadde solo dopo una piccola acrobazia, ma toccò comunque per terra con un ginocchio.
Il suo interlocutore ne approfittò per superarla a passetti zoppicanti veloci e con un sorrisetto come se avesse vinto alla lotteria, lasciando Serena a guardarlo perplessa.
L'aspirante maratoneta era un uomo anziano, dal viso largo e i capelli lunghi e bianchi, anche se aveva iniziato a stempiare abbondantemente.
«Signorina bionda, alla ricerca di ispirazione?».
Serena storse la bocca e drizzò la schiena. Non ci voleva un genio per capirlo: era entrata con uno sketchbook in un museo. E poi perché il vecchio non si era neanche offerto di aiutarla, ma continuava a guardarla soddisfatto?
«Si» Borbottò lei «Perché?»
«Oh, tutti vengono qui alla ricerca di ispirazione» il sorriso del vecchietto si trasformò appena, virando ad un ghigno «E non ne hanno idea. Vero, signorina, che neanche lei ne ha idea?»
«Idea di cosa?» Serena controllò che il suo sketchbook non avesse accusato strappi.
«Idea di quello che c'è dietro...» il vecchio fece un gesto con l'indice, un circoletto discendente simile ad una molla «La gente entra a guardare questi quadri con la bocca aperta, ma mica le sa le cose!»
«Veramente molti di loro sono appassionati. E lo sono anch'io»
«Ah, davvero?»
«Si da il caso che io sia un'artista» Serena si vide costretta ad alzare il mento e a cercare di ingrandirsi, come se davanti avesse un orso e non un vecchietto.
Sapeva che i vecchietti, specie se erano professori, non prendevano sul serio le ragazze che volevano fare gli artisti: per loro solo Tiziano, Caravaggio, Raffaello erano degni di quel titolo, divinità che si ergevano sopra i mortali. Ma Serena era disposta a difendere il suo titolo a colpi di parole o di matita.
A sorpresa, il vecchietto non rise né la contraddisse, ma annuì docilmente
«Eh si. Lei è sicuramente un'artista, ma non è detto che lei sappia cosa c'è dietro... guardi...» le fece segno di camminare, di seguirlo, e con passetti corti e rapidi la portò di fronte al busto marmoreo di un cardinale con pizzetto e baffi «Guardi!»
«Il Cardinale Scipione Borghese» Disse Serena, immediatamente.
Il vecchietto le fece un sorrisetto, invitandola a continuare.
«Era il cardinal legato, il ministro degli esteri e degli interni. Uno degli uomini più potenti d'Italia» Spiegò Serena «So benissimo chi è. So cosa c'è dietro questo busto»
«No che non lo sa, signorina» il vecchietto scosse la testa «Lei sa chi è quest'uomo per come te lo hanno raccontato. Ma quale fosse il suo tipo di caramelle preferite, dove posò per questo busto, della sua amicizia con un cacciatore di vampiri, queste cose tu non le sai. Ogni opera d'arte porta con sé una storia precisa e ormai son quasi tutte perse» l'uomo fece un altro gesto vago «Ma perdo tempo anche io, non è vero? Perché dovrebbe volermi ascoltare, signorina?»
«Perché dovrei?» ripeté Serena, confusa. Quell'uomo continuava a passare dal lei al tu, cosa che Serena trovava fastidiosa, perché non capiva se volesse prendere le distanze oppure entrare in confidenza.
«Infatti, perché dico io?» L'anziano si grattò una guancia con la mano cosparsa di minuscole macchioline brune
«Già».
Il vecchietto si voltò, dando le spalle a Serena, e prese ad allontanarsi. Il retro della sua giacca era trapuntato da sottili disegni di fiori argentati, splendidi ed eterei, che da lontano erano quasi indistinguibili dal tessuto circostante e che parevano scomparire sempre di più ad ogni passo. Quell'ometto dai capelli lucenti, che a tratti parevano di ceramica e a tratti di platino, si fondeva con la galleria Borghese come se fosse egli stesso un quadro o meglio ancora una statua.
Serena batté le palpebre. Era venuta lì dentro alla ricerca dell'ispirazione e d'improvviso si sentì stupida a sprecare la compagnia di quell'eccentrico vecchietto... certo, magari era solo un pazzo vestito molto bene, di pazzi ce n'erano tanti nelle gallerie d'arte, ma la ragazza intuiva che sarebbe stato interessante ascoltare le sue panzane.
Gli corse dietro e stavolta toccò a lei superarlo
«Aspetti! Aspetti signore! Come si chiama?»
«Ambrogio Ginulfo Asterio, signorina. E lei?»
«Serena»
«Che bel nome, Serena» Ambrogio riprese a camminare svelto, le mani dietro la schiena «Sai, c'era una Serena che affiancò una dea, una volta. Il nome stesso Serena ispira divinità, è lunare e antico e molto, molto bello. Se fossi una donna, mi chiamerei Serena».
Attraversarono le stanze e si fermarono in un locale con le pareti dipinte di un arancio poco carico sulle quali risaltavano le cornici dorate. Il vecchio le indicò un quadro in cui vi erano molte giovani: alcune facevano il bagno, ignude, altre avevano archi e frecce, e una ragazzetta con braccia muscolose teneva per il collare un cane da caccia che voleva avventarsi su qualcosa o qualcuno.
«Tu che sei una studentessa d'arte così brava, sa che cos'è questo? Eh! Non leggere il cartellino!» Fece il vecchietto, divertito
«È... la Caccia di Diana, giusto?» rispose Serena, titubante. Non ne conosceva l'autore, ma aveva una vaga idea di cosa rappresentasse.
«È stato il Domenichino a dipingerlo» Spiegò il vecchio, gesticolando «Ah, quel buon uomo! La realizzò per sé, perché era un appassionato di divinità pagane, e perché in questo modo era certo che il cardinale Scipione Borghese, che aveva il brutto vizio di volergli comprare tutte le opere comprese quelle che proprio non erano in vendita, lo avrebbe lasciato in pace. Ah! Domenico ci mise tanto amore e tanta passione in questo quadro: voleva appenderselo sopra al caminetto, così da guardarlo d'inverno, quando fuori tirava tempesta, mentre mangiava il cibo caldo e immaginarsi che fosse stata Diana in persona, la dea, a procurargli quel cibo. Ma Scipione Borghese era davvero un uomo terribile! Grande estetica, terribile etica» scosse la testa «L'avido Borghese vide il quadro e lo volle per sé. Che gliene importava a lui se non erano madonne e santini, ma giovinette mezze svestite che si divertivano? Era un quadro troppo bello. Tanto meglio per lui se c'erano femmine carine. Quindi sai cosa fece?»
«No» disse di slancio Serena
«Buondio, che diavolo vi insegnano a scuola, a farvi gli autoscatti e metterli nello snapciaps?».
Serena rise e il vecchietto le rispose con un sorrisetto tenue e colpevole, forse avendo capito la sua gaffe.
«Comunque» Continuò Ambrogio «Borghese iniziò a chiedere insistentemente il quadro. Il pittore, Domenichino, poveretto si vide costretto a dirgli che l'opera era già prenotata, che la voleva il cardinale Aldobrandini, e pure Aldobrandini, che Dio l'abbia in gloria, ci si mise in mezzo e disse di averla prenotata. Sembrava che, almeno per questa volta, avessero strappato il quadro dalle grinfie di quell'avido di Borghese, ma quello lì ne sapeva una più del diavolo e fece mettere l'artista in prigione per convincerlo a cedergli il quadro! E come puoi vedere» il vecchietto indicò con il mignolo la grande tela dipinta «Ci riuscì, visto che ora è appeso proprio qui»
«Non sapevo di questa storia...»
«Te l'ho detto: voi giovani d'oggi non sapete niente delle cose che contano davvero. Prima mi ha detto che sapeva chi è il cardinale Borghese, ma adesso mi fa capire che non sa che faceva mettere la gente in prigione per rubargli i quadri»
«Beh» Serena si strinse nelle spalle «Borghese ha creato questa galleria. È famoso. Io so quel che mi hanno insegnato»
«E non le hanno insegnato abbastanza, signorina. Altrimenti saprebbe...» l'indice teso di Ambrogio vagò fino a posarsi sulla figura della giovinetta dalle forti braccia, vestita di rosa e che tratteneva il cane, dipinta sulla tela «... Che questa signorina qui ha il suo stesso nome. Serena. È per questo che ti ho portata qui. La galleria Borghese ha una storia diversa da raccontare ad ognuno di noi, ma è bene che si cominci sempre dal proprio nome»
«Come sa che quella si chiamava come me?» domandò la ragazza, scettica
«Scommetto che appena arriverà a casa, signorina, cercherà su internet quello che le dico per sapere se è vero oppure no» ghignò Ambrogio «Bene, non le dico bugie. Alcune delle cose che le dirò le troverà facilmente, altre non ci sono proprio, ma nessuna è una menzogna. Come lo so? Io c'ero» il vecchietto spalancò gli occhi «E se credi che io sia folle, fa' pure»
«Beh, deve ammettere, signor Ambrogio, che è un po' folle come cosa, pretendere di viaggiare nel tempo»
«Viaggiare nel tempo?» il vecchietto rise, emettendo un verso da paperotto «Anche lei viaggia nel tempo! E viaggiamo esattamente nello stesso modo, io e lei signorina: sempre in avanti»
«Quindi...» Serena giocherellò con la matita «Mi sta dicendo che...»
«Sono vecchio»
«Ma così vecchio? Non li dimostra»
«Adulatrice! I giovani di oggi sanno lisciare gli anziani come nessun altro. È pure vero che sanno insultarli come nessun altro. Sanno fare tutto meglio, compreso disegnare»
«Non direi. Voglio dire, tutti i dipinti che ci sono nelle gallerie d'arte sono vecchi»
«Sono vecchi perché la gente è affascinata dalle cose vecchie» tagliò corto Ambrogio «Ai miei tempi non erano così preziose come sono oggi. Le cose vecchie valgono di più, per qualche motivo. Eppure conosco ragazzine che potrebbero fare cose migliori di Caravaggio in metà del tempo, ma mica le pagano per farlo»
«Ah».
Serena rimase in silenzio. Non aveva mai conosciuto personalmente nessuno che fosse più bravo di un maestro rinascimentale, ma li aveva visti su internet, certi lavori... certe composizioni con colori che sembravano veri e creature fantastiche che avrebbero potuto esistere davvero su altri pianeti, palazzi baciati da un sole virtuale e baci così pieni di passione e morbidezza da dar la pelle d'oca e far sentire un formicolio in fondo al cuore. Non ci aveva pensato mai davvero, ma i grandi maestri del passato probabilmente non sarebbero stati considerati così grandi nel presente, dove una ragazzina con una penna biro avrebbe potuto sfidarli e batterli sul loro stesso campo. Forse. O forse avrebbero trovato il modo, si sarebbero fatti raccomandare, sarebbero diventati famosi con altri meriti. Magari non tutti loro, magari solo qualcuno... ma il mondo era cambiato. Non sarebbe stato facile. Perché qualcuno avrebbe dovuto desiderare un ritratto, quando gli bastava farsi un selfie?
«Serena... » Disse il vecchietto «Era una ragazza incredibile, lo sai? Un'addestratrice di cani di prim'ordine. Lo sai, no? I levrieri si dice che non ti ascoltano mai, sono difficilissimi da addestrare. Lei avrebbe potuto farli ballare come quei cani moderni che usano per fare le pubblicità, quelli bianchi e neri da pecora»
«I border collie?»
«Quelli. Credo. Comunque era qualcosa di notevole. Ci sono tanti cani con tante storie interessanti dentro queste opere».
Serena alzò la testa per interromperlo, perché aveva l'impressione che, se gliene avesse dato l'occasione, il vecchietto si sarebbe immerso in una nuova serie di racconti con la naturalezza con cui respirava. Non che non le interessassero, se doveva essere sincera, però...
«Io sono venuta per guardare tutte le opere del museo» fece la ragazza, nel tono più cortese ma fermo che le riuscì «E lei sta continuando a farmi saltare da un quadro all'altro. Mi ha fatto correre qui dall'entrata, io avrei voluto vedere i quadri»
«Tu stai vedendo i quadri» disse lentamente il signor Ambrogio, con altrettanta cortesia. Serena si sentì un po' stupida.
«Si, ma non in ordine» rispose Serena, usando un tono che la faceva sembrare giusto un filo seccata. Ambrogio ammiccò, ma non smise di sorridere.
«Tu vuoi vedere i quadri in ordine, mia cara?»
«Oh, si. Mi piacerebbe molto»
«Hai ragione. Dovremmo vederli in ordine, ragazza mia» l'anziano la indicò con il dito sorridendo, come se avesse visto qualcosa di prezioso, poi lo abbassò e allacciò fluidamente le mani dietro la schiena. «Nella mia vita ho visto tante cose nell'ordine che mi hanno indicato che ho finito per guardare le cose alla rinfusa solo per ingannarmi nel credere di vedere cose nuove».
La giovane fece per incamminarsi verso l'entrata, già pregustando di vedere tutti i quadri in modo ordinato e conciso, facendosi anche raccontare qualche aneddoto da questo vecchietto matto. Tutto sommato sembrava innocuo, e c'era qualcosa nel suo modo di parlare che le piaceva istintivamente, come se tutto ciò che il vecchio Ambrogio Ginulfo avesse pronunciato fosse stato parte di un copione teatrale.
«Signorina, dove va? Vuole già uscire?».
Serena si voltò confusa. Il suo strano accompagnatore si era spostato in tutt'altra direzione, e adesso attendeva paziente che lei lo raggiungesse accanto ad un quadro appena venato dal tempo, con un uomo dalla morbida barba grigia che da seduto si protendeva verso una bella donna quasi del tutto scoperta, con i capelli color grano raccolti.
Giove e Giunione, di Annibale Carracci.
«Ha detto che li avremmo visti in ordine» Protestò Serena «E per vederli in ordine dobbiamo vederli dal primo all'ultimo. Lei mi ha trascinato in una delle ultime stanze»
«Perdona un povero vecchio per averti confusa, Serena. Mi creda se le dico che la maggior parte delle volte ne sono consapevole e lo faccio appositamente, ma questa volta no» l'anziano le si avvicinò calmo, sempre con le mani allacciate dietro la schiena «Non ho detto che volevo vederli in ordine. Adesso ha tre possibilità, mia cara ragazza, che cambieranno il corso di questa sua giornata e che potrebbero o meno portarla a riavere la sua ispirazione. La prima opzione è che lei ignori questo mio discorso e prosegua verso la strada che aveva deciso di intraprendere da sola, continuando il percorso esattamente come lo aveva programmato, vedendo le opere esattamente come questa galleria gliele sta proponendo, e tornare a casa esattamente come aveva previsto. Non ci sarebbe nulla di male a scegliere questa opzione».
Serena lo guardò con gli occhi socchiusi, soppesando le parole del vecchio Ambrogio.
«La sua seconda possibilità è fidarsi di questa persona che ha appena conosciuto, e che le promette solennemente di farle passare una giornata estremamente piacevole che le farà conoscere tutte le cose che lei ha bisogno di conoscere, anziché ricordare le cose che tutti si aspettano che lei ricordi o imparare le cose che non sono importanti. Le prometto anche che non sarà per nulla come lo aveva pianificato e che non farò altro che sorprenderti, Serena. Una volta deciso di fidarti di questa persona che non conosci, potresti anche seguirla. Anche questa sarebbe un'opzione del tutto possibile».
Serena annuì, quasi inconsciamente.
«La terza possibilità è seguirmi comunque, ma senza fidarti di me. In quel caso tutte le belle parole che ti ho detto sarebbero sprecate, ma anche questa è una possibilità che potresti senz'altro seguire. Mi dispiacerebbe, ma potresti».
«Insomma, tre possibilità...»
«In realtà ne hai molte, molte di più. Solo che ne ho omessa qualcuna perché non mi garbava, e spero così di dissuaderla dall'intraprendere questi corsi d'azione»
«Non è corretto da parte sua, cercare di influenzarmi così. Quale potrebbe essere, per esempio, la quarta opzione?»
«Non per darle idee, ma potrebbe fuggire via da questo luogo. O per darle anche una quinta opzione omaggio, aggredirmi. Cose che spero non siano nel suo carattere, giovane artista, come lo erano in altri che sono venuti qui in cerca di ispirazione» allargò un braccio verso i quadri appesi a parete «O nel carattere di alcuni di quelli di cui abbiamo prova tangibile della loro ispirazione. Ne rimarrei deluso».
Serena rimase a pensarci, a capo chino. Guardò le proprie mani, curate e chiare, ancora apparentemente intoccate dal sole estivo. Le sarebbe piaciuto che si fossero abbronzate. Guardò come tenevano stretto il bordo dello sketchbook nero, che avrebbe tanto potuto riempire di tutte le idee che aveva in testa. Se solo le avesse avute, tutte queste idee da riversare.
Guardò il quadro di Carracci. Era bellissimo, indubbiamente. Però...
«Non dovrebbe farla tanto lunga, signor Ambrogio, la stavo già seguendo» disse Serena, affiancandoglisi come se fosse stata la cosa più naturale del mondo.
Il sorriso sul viso rugoso di Ambrogio era largo e genuino.
«Vieni, Serena. C'è così tanto da vedere!»

*****

Serena non sapeva come, ma dopo i primi due quadri si era trovata a braccetto con lui. Ormai si davano del tu.
A quanto pare il Bacchino malato si era provato a guarirlo a suon di zuppe, in cui una volta era una finita una lumaca, ma le zuppe erano valse a poco anche se poi si era effettivamente ripreso grazie ad un misterioso viaggiatore – Ambrogio non ne disse il nome, lo chiamò solo “Il Dottore” – che aveva detto che le zuppe non erano un buon rimedio, visto che si era ammalato a causa dell'infezione di una ferita procuratagli dal calcio di un cavallo alla gamba.
La Verità del Bernini non era stata realizzata a seguito di una commissione, ma l’artista l'aveva realizzata per sé, lavorandoci in un momento di personale difficoltà, in cui un campanile alla Basilica di San Pietro era stato demolito per problemi di stabilità. A causa di questo fallimento, era stato molto criticato. Lui si era piccato e aveva cominciato a creare la statua, perché pensava che il tempo avrebbe dato ragione a lui e fatto venire a galla la verità. Alla fine la verità non era venuta a galla, e la statua che lui aveva scritto nel testamento sarebbe dovuta rimanere alla sua famiglia era arrivata comunque al cardinale Borghese.
«Quello che quell'uomo voleva, quello otteneva» Aveva detto Ambrogio «C'è ancora molto da dire su di lui».
Adesso stavano dritti di fronte all'immagine di due donne uguali, l'una vestita riccamente e l'altra seminuda, sedute nei pressi di una fontana in cui un bimbetto alato mesceva le acque. Sullo sfondo le campagne offrivano diversi piccoli dettagli ad un occhio attento
«E questo, che mi sai dire di questo?» La provocò gentilmente il vecchietto, accennando con il mento al dipinto.
«Amore sacro... e amor profano» Rispose subito Serena, con solo un istante di esitazione nella voce. Era difficile scordare un titolo del genere «Di... Tiziano? Queste due donne rappresentano l'amore che è in tutti noi, e sono identiche proprio perché sono due facce della stessa medaglia».
Si, era sicura di non avere sbagliato.
Distolse lo sguardo per valutare la reazione di Ambrogio. Lui sorrideva come un gatto dei cartoni animati di fronte ad un canarino indifeso.
«Chi è chi?»
«Cosa?»
«Chi è l'amore sacro e chi è l'amor profano?» chiese lui, estendendo il braccio libero per indicare la tela.

«Ma è ovvio che è...» Rispose di getto Serena, poi si zittì di botto.
«È ovvio che...?».
La ragazza emise una specie di lungo “hmm” pensieroso, borbottato, cercando di guadagnare tempo. Se fosse stato qualcun altro a porle quella domanda avrebbe risposto senza esitare, ma a questo punto era certa che Ambrogio le stesse dicendo qualcosa senza davvero dirglielo. Le stava dicendo “riflettici bene, pensaci bene”. Voleva farle capire che le cose stavano in modo diverso da quello che sembravano, o voleva solo confonderla?
Ambrogio attese pazientemente, con una versione bonaria del suo sorriso da gatto a distendergli il volto rugoso, che la giovane prendesse di nuovo la parola.
«L'amore profano è la donna vestita da sposa, e l'amore sacro è la donna spogliata» Disse alla fine. Il vecchio la guardò con uno scintillio negli occhi, poi alzò di nuovo gli occhi al quadro.
«Si. È così, Serena. Come fai a dirlo?»
«Beh» Serena si morse il labbro inferiore «Guarda come è distesa e tranquilla la donna svestita. Non solo è più tranquilla, ma nell'arte, la bellezza divina e sacra è disegnata come svestita, perché... perché rappresenta un ideale di perfezione»
«Non ci sono tutte queste sante ignude nei dipinti» obiettò Ambrogio, ma in tono compiaciuto, incoraggiante
«Beh, questo perché la divinità a cui si riferisce Tiziano non è quella cristiana» Serena scosse la testa e indicò il bambino alato chino sulla fontana. Se fosse stato un bambino vero gli avrebbe subito intimato di allontanarsi dall'acqua e non sporgersi così. «Quello è Eros. Quindi lei è la divinità della bellezza, dell'amore sacro».
Ambrogio sembrava deliziato, e batté le mani una contro l'altra velocemente. Emettevano un rumore secco che Serena era sicura di non aver mai sentito nessun applauso fare un suono del genere: questo era fragoroso, e ricordava due ciocchi di legno che venissero battuti uno contro l'altro ripetutamente.
«Osservare è uno dei più grandi doni che ci viene fatto quando guardiamo delle opere d'arte. Vedi? Tu avresti pensato una determinata cosa, stavi per dire che le due donne rappresentavano le cose nel modo inverso, vero? Perché è la tua interpretazione, quello che puoi trarre dalle cose che sai come una giovane d'oggi. E non c'è niente di male, mia cara. Ma guardando bene, sei riuscita a fare una cosa meravigliosa. Hai osservato, e hai visto le rotelline che giravano nella testa del pittore. Sei riuscita a vedere qualcosa di invisibile, i pensieri di una persona morta molti, molti anni fa. Come ti senti?»
«Io? Uhm, bene». La domanda colse Serena alla sprovvista. Bene in effetti era una cosa vaga, la risposta cortese ad una domanda premurosa. Ma c'era anche altro: si sentiva orgogliosa, stranita di quanto la rendesse orgogliosa l'approvazione di quello strano vecchio, ed ancora era incuriosita.
Ambrogio annuì.
«Sai, c'è una storia piuttosto triste dietro questo quadro. Ma non sono sicuro di volertela raccontare, è un quadro speciale»
«Perché è speciale?»
«Perché è uno di quei quadri in cui tutti possono sbizzarrirsi ad immaginare cosa possa voler dire la composizione, o non immaginare nulla e godersi il quadro. Si può annuire e fare finta di essere d'accordo e godersi quanto è bello il quadro senza pensarci. Si può fare a meno di notare che quello lì in mezzo» ed indicò la fontana, ornata da cavalli e figure umane dai visi sbozzati, gli occhi vuoti «... non è una fontana, ma un sarcofago».
Serena sentì qualcosa contrarsi nel suo stomaco, per un brevissimo e fuggevole istante. No, quella era una fontana, giusto? Non un sarcofago. Una fontana. La avevano studiato anche a scuola questo quadro famoso e sempre di fontana o fonte si era parlato, di una vasca, mai di una tomba.
«S... sul serio?» Domandò timidamente la ragazza «Cioè, a me sembra... mi sembra una...».
Guardò bene il quadro e non riuscì a dire la parola “fontana” perché quello sembrava davvero un sarcofago: sorgeva nel mezzo del nulla, non addossato ad alcun muro ma eretto sul terreno erboso della campagna, non aveva connotati da fontana... era pieno d'acqua, ma da dove veniva quel liquido?
«Ti sembra?» Incoraggiò il vecchietto
«Un sarcofago» concluse Serena, incredula.
Che nessuno se ne fosse accorto per così tanto tempo, che lei stessa ci avesse visto una fontana, perché era quello che le avevano indicato, aveva dell'incredibile.

Ambrogio scosse la testa
«Non ti racconterò questa storia. È troppo triste e tu non sei qui per quello, giusto? Non cerchi una tristezza che sia gemella alla tua, cerchi un'ispirazione»
«Sì» Serena annuì
«E allora sai cosa faremo, mia brava amica?» il vecchietto riprese a camminare e la ragazza a braccetto con lui «Ascolteremo l'arte. Quella che hai nelle vene e che ti dice cosa fare»
«Tipo l'ispirazione? Non ce l'ho ancora»
«No. Non l'ispirazione. Più... l'attrazione. Guardati intorno»
«Non stiamo facendo altro che guardarci intorno»
«Si, si, certo! Ma guarda meglio. Cos'è che ti chiama con più forza? Dimmi di quale di queste opere vuoi sapere la storia. Ma bada bene: sarà l'ultima storia che ti racconterò per oggi, perché ho un impegno che si avvicina»
«Ah. Beh, allora...»
«Ma sarà una storia lunga» la interruppe Ambrogio «E, spero, migliore delle altre. Tutto dipende dall'opera che sceglierai»
«Va bene anche una statua?»
«Certo che sì! Va bene qualunque cosa, anche un fregio sulla parete, un frammento, un disegno. Lascia che la tua attrazione parli, perché l'arte è questo: ciò da cui siamo attratti. Ciò che amiamo»
«E allora quelli che disegnano mostri?»
«Ci sono innumerevoli ragioni per amare i mostri. Perché rappresentano le paure che abbiamo superato, perché sono il lato animale e oscuro dentro di noi, perché sono belli. Non per tutti, ma per chi crea il mostro... il quadro è sempre bellezza per qualcuno. Se nessuno lo ama, allora non è arte».
Serena vide sfilare madonne e veneri, ritratti di uomini di chiesa, antiche scene pagane, e sentì che a modo loro tutti la chiamavano. Rischiò di sprecare l'ultima storia della giornata su Leda col Cigno, su una maga Circe accompagnata da una cane creata da Dosso Dossi, su Davide con la Testa di Golia di Caravaggio.
Tutti i quadri, tutte le sculture, parevano ai suoi occhi meritevoli di quell'ultimo racconto, ma proprio per questo nessuno ne era meritevole davvero.
Sovrappensiero, d'improvviso, si ritrovò davanti un gruppo scultoreo che si sollevava in una splendida torsione di muscoli e drappeggio, bianco come neve, che in quella luce e in quella stanza pareva vivo. Era la rappresentazione scolpita di un possente, splendido uomo dalla folta barba riccia, incoronato, che sollevava fra le sue braccia una donna la quale, nel cercare di respingerlo, dava l'impressione di danzare. Ai suoi piedi, fido guardiano, c'era un cane a tre teste.
Era il celebre Ratto di Proserpina di Gian Lorenzo Bernini ed era assolutamente glorioso.
Serena non ebbe alcun ripensamento, non tentennò: indicò la statua, guardò dritto negli occhi Ambrogio e disse «Questo».
Il sorriso sornione del vecchio si allargò appena mentre egli annuiva, soddisfatto
«Vedi, Serena? Vedi? Bisogna sempre lasciare parlare l'attrazione, quando si parla di arte. Questa statua ha davvero...» Ambrogio si leccò le labbra sottili «... Una delle storie più interessanti qui dentro. Oh, non è la più interessante di tutte in assoluto, ma forse, chissà, è quello di cui hai bisogno tu...».
Il vecchietto smise di parlare mentre un paio di turisti giapponesi passavano nella stanza, fotografavano frettolosamente le statue e se ne andavano.
«Allora?» Domandò Serena, sollecita
«Allora...» Ambrogio la guidò intorno alla statua «Guardala. Cosa noti?».
La ragazza sorrise: conosceva bene quella statua.
«Ci sono molte cose da vedere» Iniziò senza esitazione «Ad esempio, beh, possiamo subito notare che la statua è stata scolpita cercando di dare un'impressione dinamica. La torsione del busto è quasi innaturale, la composizione è fatta così perché crea una specie di... una specie di...» Serena mosse le mani una intorno all'altra, come se stesse avvitando una lampadina invisibile piuttosto contorta «... una specie di spirale. È come se la forza con cui la attira e la forza con cui lei cerca di respingerlo li stia proiettando via con così tanta potenza da farli avvitare su sé stessi. Come una tromba d'aria. E poi...».
Serena si chinò un poco in avanti verso la statua, tamburellando le dita della mano sinistra sul mento. Stava diventando un gioco per lei. «E poi... sai, non ci avevo mai fatto caso, ma in un certo senso sembra che il cane li stia ancorando. Cioè, non che li sta tenendo giù sennò volano via, ma a parte guardarli non sembra coinvolto nel movimento. Sta lì, con le sue tre teste, guarda quello che succede. Almeno a me da l'impressione di essere... di essere estraneo al rapimento. Cioè, la testa di mezzo sembra disperata, attenta a quello che sta facendo il suo padrone, ma le altre due... non so, mi da l'impressione di fare da sentinella. E poi non si può notare questo». La giovane sporse appena un braccio per indicare il modo in cui le mani di Plutone si stringevano sulla coscia della fanciulla divina, nel tentativo di tenerla a sé.
«Che cos'è questo? Cosa vuol dire questo?»
«Vuol dire tante cose. Per prima, ecco, lo so che è un rapimento, ma la stretta della mano di Plutone sembra lì solo per trattenerla, non per farle male. In qualche modo, sembra quasi tenero con lei. No, forse tenero non è il termine giusto...»
«Era diverso a quei tempi» Ambrogio si strinse appena nelle spalle ossute, e gli strani riflessi del suo panciotto scintillarono appena, come ragnatele controluce «Gli dei erano piuttosto impacciati. Per non mandare segnali sbagliati, mandavano segnali sbagliatissimi»
«Significa anche che... vuol dire che l'autore si è impegnato. Perché altrimenti non si spiega come sia riuscito a rendere la pelle così morbida, così, ecco, cedevole. Sembra quasi che se la toccassi anche io sarebbe morbida come la pelle di una persona vera»
«Vuoi toccarla?»
«Mi piacerebbe molto» disse Serena, senza curarsi di nascondere il tono sognante che saturò la sua voce.
Le sarebbe piaciuto davvero. Fantasticò di sporgersi ed accarezzare le braccia possenti del dio degli inferi, sentire la consistenza del marmo liscio e perfetto, fresco, sotto i polpastrelli. Immaginò di seguire il profilo delle vene dai polsi alle mani dell'uomo, passarci su le dita con più forza per sentire con chiarezza il cambiamento di profondità da un punto all'altro.
Per un attimo, guardando la statua, si convinse che se fosse riuscita ad arrivare in qualche modo al viso di Proserpina, e le avesse toccato il viso – forse per consolarla, non doveva certo essere una bella situazione per lei – la pelle si sarebbe piegata docilmente, tiepida, sotto le sue dita.
Da un momento all'altro Plutone avrebbe aggiustato la presa e, con Proserpina salda tra le braccia, sarebbe fuggito via dalla Galleria, dopo secoli di lotte tra le loro forze di piccolo tornado per spingere in direzioni opposte. O chissà, forse Proserpina si sarebbe liberata.
Cerbero le sarebbe corso dietro, o sarebbe rimasto, tre teste indecise, ad aspettare un secondo troppo tardi un comando del padrone?
Cercò di ricordarsi se avesse visto carri nelle altre sale con cui Proserpina avrebbe potuto fuggire.
Fu un momento di autoinganno perfetto, poi, in qualche modo, tornò ad essere solo una statua sotto i suoi occhi.

Si voltò verso il suo strano accompagnatore e lo trovò con le mani tese verso la statua come un bambino avido, tutto soddisfatto, a pochi millimetri dal toccarla.
Trasalì, guardandolo con orrore.
«No!» Esclamò, aggrappandosi al suo braccio. Ambrogio non era particolarmente forte, e la foga con cui aveva cercato di fermarlo gli fece scattare il braccio verso il basso con una velocità sorprendente.
«Ah, lo sapevo» Sbuffò Ambrogio con aria teatrale «Eccone un'altra. Avrei dovuto imparare, ormai, a non dire ai visitatori che c'è anche la possibilità di aggredirmi. A volte mi prendono in parola»
«Non ti voglio aggredire» sibilò Serena, ma senza rabbia. Gli lasciò il braccio; aveva una strana consistenza sotto la stoffa, più solida di quello che si sarebbe aspettata. «Che ti salta in mente? Non puoi toccare la statua»
«Ah» un sorrisetto si disegnò sulle labbra del vecchio «E io che pensavo di averne diritto più di chiunque altro. Dovrò farmene una ragione, immagino».
Serena aggrottò le sopracciglia. Scosse la testa.
«Riusciresti ad inserire perché mai tu dovresti avere maggiori diritti sulla statua nella storia? Non voglio perdere troppo tempo prima di sentirla, ma non credo di potere semplicemente lasciar correre una frase del genere»
«Mi sembra giusto» il vecchio allacciò nuovamente le braccia dietro la schiena. Non sembrava per nulla pentito. «Potrei riuscire ad infilarci qualcosina. Dipende da come si mette la storia»
«Beh, la storia la racconti tu. Con uno sforzo potresti benissimo raccontarmi tutto»
«La storia la racconto io, ma non posso rovinarla. Ogni storia è un fiume, e cercare di forzarne gli argini può provocare un'esondazione»
«Secondo me è solo pigrizia».
Serena aveva conversato praticamente tutta la mattina con questo strano ometto, arrivando a dire praticamente tutto ciò che le passava per la mente. Sembrava quello che il vecchio Ambrogio voleva, e, doveva ammetterlo, anche a lei piaceva poter essere sincera, basare un'intera conversazione su quello che vedeva, provava e pensava davvero.
Non si aspettava di venire fulminata così aspramente con lo sguardo dal suo interlocutore, con uno sguardo più che rabbioso. Sembrava che provasse disappunto.
Serena si rimpicciolì istintivamente sotto quello sguardo imperioso, in contrasto con la figura del vecchio. I due rimasero in silenzio per una manciata di minuti.
Poi: «Scusa. Hai ragione. Non bisogna forzare la storia» Disse Serena, anche se non era del tutto sicura che fosse vero. Ambrogio sembrò accorgersene, ma le scuse lo avevano decisamente addolcito.
«Non dovrei arruffarmi le penne, vecchio uccellaccio che sono» Esalò il vecchietto, spostando nuovamente lo sguardo sulla statua, in un sussurro quasi nostalgico «Sei una giovanotta. Tutto quello che sto facendo lo sto facendo proprio perché lo so, che non vi insegnano più le cose giuste. Imparerai. Non so se avresti imparato, ma adesso imparerai».
Nonostante il primo impulso a sentirsi irritata per quel discorso, Serena ne rimase quasi affascinata.
«Quisquis humi pronus flores legis, inspice saevi, me Ditis ad domum rapi» Recitò il vecchio, prendendo un sospiro e ondeggiando dalle punte ai talloni «Benissimo. Apri bene le orecchie, mia cara, come se dovessi metterci le cuffie del tuo ai-podz, perché questa è l'ultima storia della Galleria».



*****

Correva l'anno milleseicentoventuno quando un uomo, un uomo importante, abituato a non sentirsi mai dire di no, decise che voleva una nuova opera da poter mostrare nella sua crescente collezione, fiore all'occhiello della città. Non era esclusivamente amore per l'arte che lo muoveva, quanto una versione quasi distorta di esso: l'uomo potente desiderava che tutti vedessero i quadri bellissimi, le dame marmoree ghiacciate in pose graziose e i guerrieri bronzei scolpiti in una parvenza di movimento, e desiderava che, dopo averli molto ammirati ed essere tornati a casa parlando di quello che avevano visto e con la consapevolezza che i quadri, le dame e i guerrieri sarebbero appartenuti solo all'uomo potente. Era possessivo, avido, appassionato, e tutto ciò che voleva avrebbe potuto ottenere.
Era stato il Signore stesso ad incoraggiarlo su questa strada.
Tutti lo vedevano ad ogni modo come un uomo rispettabile, e per certi versi lo era. Per altri, faceva pensare che avrebbero dovuto picchiarlo di più.
Quell'uomo si chiamava Scipione Cafferelli-Borghese e la nuova opera che desiderava era una statua che aveva commissionato a un artista ventitreenne, tale Giovan Lorenzo Bernini che affettuosamente chiamava “Gian”. Gianlorenzo, quando si sentiva irritato e Gian Lorenzo Bernini quando erano presenti amici con cui vantarsi.
Ordunque, Scipione Borghese era un cardinale. Al giorno d'oggi i cardinali non sono più come erano una volta e un po' c'è da dispiacersi: almeno quelli di una volta, con tutto il loro mettersi in mostra e la politica e l'arte, servivano a qualcosa, mentre quelli di oggi non fanno quasi nulla.
Scipione, poi, non era neanche brutto, anzi, aveva un che di grazioso e regolare nel viso e portava vezzosi baffi e pizzetto sempre ben curati. Nonostante fosse un cardinale, e quindi personalità che in teoria bisognerebbe escludere dalle proprie fantasie, più di una donna aveva desiderato quell'uomo che sprizzava potere e denaro e che proteggeva gli artisti.
Un bel giorno, il cardinale Borghese volle andare al laboratorio di Gian Lorenzo Bernini, per vedere con i suoi occhi come stava andando la creazione della statua che aveva commissionato. Vestito con la sua porpora, in pompa magna come se stesse andando ad una gran festa, il cardinale si fece accompagnare da una sfarzosa carrozza, trainata da due cavalli neri, fino alla bottega dove il suo giovane artista protetto stava lavorando.
Entrando, seguito da due servi, Scipione vide un gran disordine: trucioli di legno e secchiate di pittura, polvere che ricopriva ogni cosa e mazze e scalpelli abbandonati intorno ad un enorme pezzo di marmo candido. Accigliandosi, cercò con lo sguardo il Bernini, ma non lo vide. Allora lo chiamò.
«Gian! Gianlorenzo! Dove sei finito?».
Da dietro il massiccio pezzo di marmo, spuntò un ragazzo arruffato, con la barba sfatta, grandi occhi scuri sovrastati da lunghe sopracciglia aggrottate.
«Eccoti qui, Gian!» Esclamò il cardinale «Ti vedo bene, mio buon ragazzo! Allora, dov'è la statua?».
Il giovane artista occhieggiò al massiccio pezzo di pietra candida che aveva accanto
«Signore» disse «Eccola qua»
«Ma... sono già passati sedici giorni da quando ti ho commissionato la statua! E dodici da quando ti ho fatto ricevere il materiale!» esclamò Scipione, arricciando il naso come faceva sempre quando era fortemente irritato «Non hai neppure iniziato!».
Il Bernini sospirò e scosse leggermente la testa. Un paio di ciocche gli ricaddero sulla fronte.
«Ahimè, sua eminenza»
«Ebbene?»
«Ebbene, mi manca ancora qualcosa»
«Eppure io ti ho fatto avere ogni cosa tu potessi desiderare per la mia commissione. Stai forse cercando di ottenere qualcosa di più, Gianlorenzo? Chiedi e ti sarà dato. Per un artista come te, potrei forse anche permettere qualche...»
«Sua eminenza, perdonate, è una questione di cuore»
«Di cuore?»

«Di anima, potremmo quasi dire»
«Gian, le questioni di cuore e di anima devono rimanere separate. Il cuore lo si usa per i nostri disgraziati simili, ma l'anima appartiene al nostro Signore, e non deve essere toccata dalle questioni di cuore»
«E per l'arte cosa si usa?»
«Una sana miscela dei due, Gian» rispose il cardinale, irritato all'idea che il lavoro che aveva richiesto fosse rallentato, nientemeno, da una cosa terrena come una faccenda di cuore. E chi era la fortunata che aveva catturato lo sguardo del suo protetto favorito?
«Allora, con rispetto parlando sua eminenza, vedete che avevo ragione?» Fece il giovane artista, per nulla trionfante
«Che vuol dire? Spiegati meglio»
«Questo marmo è ancora solo marmo per me. Bellissimo marmo, so che non vi siete risparmiato per darmi il meglio»
«Dopo aver creato il gruppo scultoreo che ti avevo chiesto, so benissimo che non sarebbe andato sprecato. Sembrava fossi riuscito quasi ad infondere il soffio della vita in quei tre, sia Enea, che Ascanio che Anchise» lo adulò Scipione, con un sorrisetto sotto i baffi curati

«Valeva la pena dargli vita proprio in quel modo, povero vecchio»
«Vale sempre la pena che qualcuno soffra, se viene sacrificato alla buona arte» disse il cardinale, e non stava affatto scherzando. Era sinceramente ciò che pensava, e lo avrebbe dimostrato diverse volte durante il corso della sua vita. Specie per assicurarsi che la buona arte fosse la sua. «Ma insomma, il problema qual è, Gianlorenzo?»
«Credevo di averglielo dato ad intendere, sua eminenza» il ventenne si passò una mano tra i capelli «Il marmo rimane marmo. Non riesco a cavarne fuori dalla mia mente il modo perfetto in cui plasmarlo, e non ho intenzione di fare quest'opera meno che qualcosa di mozzafiato, fosse almeno per rispetto a voi».
Il cardinale Scipione si sentì un po' calmato da questa spiegazione, e il suo naso si distese, senza rimanere più arricciato per l'irritazione. Quello era un primo buon segno.
«Mi stai dicendo che è l'ispirazione che ti manca, Gian?» Si sincerò l'uomo, allacciando le mani dietro la schiena con aria solenne «Mi stai dicendo questo?»
«Temo di si, sua eminenza». La risposta del giovane scultore era poco più che un gemito, mentre si passava le mani sul viso come se fosse stato molto stanco.
Il cardinale non rispose subito, pensieroso. Si avvicinò a passi misurati e silenziosi al Bernini, poggiandogli una mano sulla spalla con sicurezza.
«Sei stanco, mio caro ragazzo. Riposa». La mano solida del cardinale batté un paio di volte sulla spalla del giovane, e lui ne parve rinfrancato.
«Non ho ancora nessuna idea»
«Ti verrà. E sarà tra le più belle che tu abbia mai fatto, te lo assicuro». Quest'ultima frase fu pronunciata in tono tanto convinto da sembrare che stesse minacciando il suo protetto piuttosto che cercando di consolarlo. Ma lo scultore, con già due bei lavori alle spalle richiesti da quel suo avido mecenate, capì quello che intendeva e si tranquillizzò.
«Lo farò, sua eminenza. Pregate per me. Se Dio mi mandasse un po' di aiuto, non sarebbe sgradito».
Forse un altro uomo di fede avrebbe brontolato contro quel giovane di non scomodare il Signore in quelle faccende, ma il cardinale Scipione era assolutamente d'accordo.
«Pregherò per te. Se la mia posizione vuol dire qualcosa e il buon Dio riterrà opportuno sentirmi, lo saprai». Mentre Gian Lorenzo si allontanava per concedersi un po' di riposo, il cardinale lasciò correre le dita lungo il blocco di marmo ancora intonso. Aveva deciso di omettere bellamente che, se anche il buon Dio non si fosse scomodato per il suo scultore, lui aveva già qualcosa in mente.
Qualcosa di più terreno.
Se l'ispirazione non si decideva a venire dall'astratto, allora forse sarebbe venuta dal concreto. Il cardinale Scipione Borghese aveva accesso a una rete di comunicazione capillare con cui avrebbe potuto chiamare a raccolta chiunque avesse desiderato, da ogni angolo d'Italia, quando e come egli desiderava.
Scipione sorrise e sollevò una mano in segno di saluto
«Ti auguro una buona giornata, caro Giovan. Sono certo che l'ispirazione arriverà».
E ne era certo davvero. Non appena arrivò nella sua sontuosa dimora, circondata di splendide statue, iniziò a chiamare servi, scrivere carte, mandare messaggi. In capo a due ore, il cardinale Scipione Borghese aveva richiamato a sé cinquanta giovani, venticinque donne e venticinque uomini, di bell'aspetto, taluni rinomati come modelli per quadri e per statue, altri semplicemente conosciuti per la loro grazia.
Li fece disporre in un ampio semicerchio, nel suo giardino, e lì li raggiunse.
I modelli e le modelle erano perplessi: sua eminenza li aveva mandati a chiamare con grande urgenza, ma non aveva detto loro per quale motivo. Sapevano che il cardinale poteva essere crudele, temevano di aver fatto qualcosa di male, qualcosa di peccaminoso.
Scipione Borghese entrò nello spazio del semicerchio esternamente delimitato dai corpi di quei giovani splendidi. Li guardò tutti.
«Eccovi qui tutti, miei giovani amici» Disse, un sorriso sornione sulle labbra «Vi ho convocati per un compito al servizio di Dio. Sapete tutti quale meraviglia sia l'arte e di come essa parli della perfezione divina al cuore degli uomini. Quello che vi chiedo oggi è un favore per conto del Signore. Conoscete Gian Lorenzo Bernini?».
Qualcuno annuì, qualcun altro si guardò in giro perplesso. Il cardinale sollevò di nuovo una mano
«Per chi non lo conoscesse, il Bernini è uno scultore. Uno dei più bravi, se non il più bravo del nostro tempo, a mio avviso. È il nuovo Raffaello e forse è persino più bravo di lui».
Qualcuno sorrise, forse pensando che il cardinale stesse un po' esagerando. Scipione parve non farci caso e continuò, in tono più profondo
«Gian Lorenzo sta lavorando ad una statua per me. Sarà il suo capolavoro, ne sono certo, una rappresentazione perfetta, finissima. Ma qualcosa offusca la sua mente, il Signore non riesce a mandargli il suo messaggio: gli manca l'ispirazione. Ed è qui che voi dovrete giocare, miei buoni cristiani! Voi dovrete dargli l'ispirazione».
Occhi interessati e occhi perplessi scrutarono il cardinale Scipione. Un leggero mormorio si alzò dal semicerchio, uomini e donne cercavano di sussurrarsi all'orecchio senza essere notati, cosa che risultò in un momento in cui tutti sussurravano e tutti erano notati. Il cardinale alzò una mano e i giovani si zittirono nuovamente, attenti.
«Quello che dovete fare» Disse «È andare alla sua bottega, di cui vi darò l'indicazione, e intrattenerlo. Raccontategli una storia, fate un trucchetto di magia, pregate per lui, non mi interessa: fate qualcosa che risvegli la sua ispirazione e se Iddio vorrà due di voi saranno scelti»
«Ma cosa deve scolpire?» Domandò un ragazzo audace, con una cortissima barba rossa simile a velluto
«Una scena pagana» spiegò il cardinale, senza alcuna vergogna «Il rapimento della dea Proserpina ad opera dell'infernale Plutone».
Sebbene a tutti parve alquanto strano che un uomo di chiesa commissionasse cose simili, nessuno parlò e quasi tutti annuirono.
«Ordunque» Proseguì Borghese «Andrete due alla volta, un maschio e una femmina. Vi dirò io quando andare e pregherò per la vostra riuscita».
Diede loro le indicazioni per la bottega, poi scelse la prima coppia e la spedì senza troppe cerimonie in città.
Il primo ragazzo si chiamava Antonio, lei invece Catena.
«Dé, non è che ti pare strano?» Chiese la giovane, camminando sulla via per lo studio del Bernini «Voglio dire, mi pare una gran strumentazione per far avere l'ispirazione a uno scultore, no? E poi se è così bravo, come mai non ha l'ispirazione?»
«Non lo so» rispose Antonio, stringendosi nelle spalle «Ma ci sono avvezzo. Il cardinale è un uomo strano. Questa è la terza volta che mi fa chiamare per una cosa del genere. È mezzo matto, che Dio mi perdoni, ma sa il fatto suo»
«E perché ti ha chiamato le altre due volte, di un po'?»
«Ah, non posso davvero dirlo. Ho giurato».
Catena continuò a tempestarlo di domande, a cui però Antonio rispose solo con frasi vaghe, finché non raggiunsero lo studio del Bernini.
«Buongiorno, maestro!» Salutò Catena, affacciandosi dalla porta spalancata «Bella giornata, non è vero?».
Gian Lorenzo si stava mangiando le unghie con molta concentrazione e ci mise qualche istante prima di rendersi conto che qualcuno lo aveva salutato.
«Ah! Si, si, buongiorno signora»
«Buongiorno. Si può entrare?»
«Si, si prego! Desiderate qualcosa?».
Catena e Antonio entrarono. Lei aveva capelli lunghissimi, ma raccolti in una crocchia elaborata da cui sfuggivano poche ciocche, mentre Antonio aveva potato la sua chioma liscia in un caschetto ordinatissimo. Il Bernini li guardò, sperando dentro di sé di trovare una scintilla di ispirazione, ma niente scattò in lui.
Ormai da giorni stava cercando l'ispirazione dappertutto: nelle farfalle che si avvitavano in voli giocosi sui prati, nelle lapidi ordinate dei cimiteri, nella frutta, nei volti dei passanti, nelle stoffe, nelle case. Niente. Nessuna persona e nessun animale sembrava capace di ispirarlo perché quello che cercava era un'atmosfera ben precisa di gloria antica, di favola pagana, che sembrava non esistere in quel tempo e in quei luoghi.
«Maestro» Disse Antonio, accennando un inchino «Ci hanno detto che lei sta realizzando la più grande statua che sia mai esistita. Possiamo vederla?».
Gian Lorenzo non sapeva se arrabbiarsi per quell'intrusione, essere lusingato dai complimenti o mortalmente imbarazzato perché non aveva niente da mostrargli, così si fermò a guardarsi intorno con le guance in fiamme, rimanendo in silenzio per un tempo lunghissimo.
«Sta bene?» Domandò a un certo punto Catena
«Sto sto bene sto» borbottò l'artista «Ma ecco, la statua... la statua non c'è ancora. Non l'ho neppure cominciata. La dovevo cominciare, ecco, adesso, ma siete arrivati voi e allora...»
«L'abbiamo interrotta maestro? Oh, ci dispiace moltissimo!»
«Già già, perdonati...»
«Possiamo rimanere qui a vedere come iniziate la statua? Sarebbe un onore vedervi iniziare ad intaccare il marmo! Potremo dire di esserci stati per il primo colpo al marmo!».
Gian Lorenzo, che ovviamente non aveva alcuna intenzione di iniziare a scolpire senza ispirazione, arrossì ancora di più. Come avrebbe fatto a buttare fuori quei due strani tizi che non volevano commissionargli nulla, ma solo stare lì a guardarlo?
«Preferirei, davvero, che non ci fosse nessuno a vedere il mio primo colpo. Sapete, per scaramanzia» Si inventò infine, stringendosi nelle spalle «Se non vi serve niente, potete andare via, per favore? Ho bisogno di spazio e di solitudine per lavorare».
Catena e Antonio si guardarono in faccia: era ovvio che quell'artista non aveva ancora recuperato l'ispirazione. Allora Antonio iniziò a togliersi la camicia.
Il Bernini, allarmato, guardò a destra e a sinistra come una caricatura di sé stesso
«Che cosa state facendo, signore?» domandò, allarmato
«Guardate!» rispose Antonio, gettando a terra la camicia «Un torso che pare di marmo! Che ve ne pare, maestro? Potreste usarmi come modello?».
Il Bernini ci ragionò un istante, sperò che l'ispirazione arrivasse, ma niente: quel corpo era troppo acerbo, i muscoli adolescenziali stavano lasciando piano piano il posto a quelli da adulto, i pettorali erano troppo piatti, le braccia mancavano di volume. Quel ragazzo era senza dubbio molto bello, ma non sembrava certamente Plutone!
L'artista recuperò da terra la camicia
«La prego!» esclamò, porgendo l'indumento ad Antonio «Si rivesta e vada altrove. Non ho bisogno di un modello».
Antonio rise (perché sapeva che il Bernini aveva bisogno eccome di un modello!) e lanciò un'occhiata a Catena come a dirle “ti sfido a fare come ho fatto io!”. Lei gli diede una poco signorile gomitata su un fianco, poi si rivolse al Bernini
«Avete bisogno per caso di una modella donna?»
«No, grazie» ribatté indispettito l'artista «Potete andare via entrambi, come potete vedere sono molto occupato».
Era certo che neanche il volto di questa ragazza fosse adatto per il suo lavoro. Ma insomma, chi erano questi tizi che entravano così nella sua bottega?
Per la disperazione crescente del giovane scultore, la coppia non fu l'ultima a presentarsi, praticamente senza dargli spiegazioni. Tutti di bell'aspetto, di carattere più o meno aperto e vivace. A due a due arrivavano, esibivano comportamenti a dir poco bizzarri, facevano domande insistenti sulla statua e continuavano con le loro stramberie finché non venivano cacciati.
Se ci fosse stato un modo per Giovanni Lorenzo di lavorare da tutt'altra parte avrebbe raccattato statua e strumenti e se ne sarebbe andato a lavorare altrove, anche nelle campagne. Sfortunatamente, il bel blocco di marmo che il cardinale si era premurosamente preoccupato di fargli avere superava agevolmente i due metri, e non era così semplice trasportarlo a mano nelle campagne.
Il Bernini era sicuramente un artista di fama crescente, ma non capiva bene come questo potesse essere in qualunque modo legato a quello a cui stava assistendo all'arrivo della quinta coppia.
Lui bruno, lei bionda, avevano attaccato bottone con un mordi e fuggi di chiacchierata di cortesia prima di iniziare il loro siparietto.
«Oh Signore...» Brontolò il Bernini a bassa voce.
«Un muto dice a un sordo: un cieco ci sta spiando» Disse con convinzione il giovane uomo dai capelli bruni, ultimo arrivato in bottega.
La sua compagna, capelli biondo cenere, naso lungo e lineamenti piacevoli, annuì convinta.
«Un elefante si siede supino» Disse la ragazza
«Pino muore» fece il ragazzo, e annuì.
«Se son fiori fioriranno» Prese nuovamente la parola il giovane dai capelli bruni «Ma se son...»
«Basta, basta così» Lo scultore alzò le mani e le agitò verso i due visitatori, come se avesse voluto cancellare la loro presenza dalla bottega solo con i palmi «Sarò privo di ispirazione, santo cielo, ma non di intelletto! Non si può certo pretendere che io non mi renda conto di questa strana affluenza alla mia bottega».
La coppia si guardò negli occhi e poi si voltò nuovamente verso lo scultore, come due bambini in attesa di una punizione.
«Avanti, cosa sta accadendo? Pretendo di saperlo!»
«Maestro» La ragazza si fece avanti quasi timidamente «Siamo solo venuti qui cercando di rallegrarla»
«Perché, che si dice forse in città che non sono contento?»
«Quasi, maestro, come se lo facessero» intervenne l'altro visitatore «Ci hanno detto che ancora non ha iniziato la statua»
«È vero che non l'ho iniziata. Ma questo autorizza tutti a venirmi in bottega e raccontarmi della morte di Pino?».
Il ragazzo rispose cercando di rimanere serio, con risultati discutibili «Pfft...! No, maestro, ma siamo preoccupati per lei»
«Ancora con questa storia! E di grazia, questa mobilitazione a cosa servirebbe?»
«Cercavamo di portarle ventate di novità, ognuno a modo suo» disse la giovane, sostenendo la loro causa «Speravamo che questo l'avrebbe aiutata a ritrovare la sua ispirazione»
«La mia ispirazione...?» Ripeté il Bernini. Tutto gli fu chiaro in un lampo; qui c'era sicuramente lo zampino del cardinale Borghese, non c'era dubbio: solo lui avrebbe potuto spingersi a tanto.
«Quanti altri ne devono venire, di coppiette come voi?» Chiese lo scultore, che probabilmente era anche impressionato dallo sforzo del cardinale di venirgli incontro, con tanta velocità e premura.
I due giovani si guardarono di nuovo. «Quanti ne sono venuti prima di noi, maestro?» Chiese la giovane donna
«Altri otto figuri»
«Eh, maestro, ce ne stanno ancora che vorranno farvi visita!» assicurò la ragazza, con un sorriso sbarazzino che contrastava con il tono, chiaramente imbarazzato.
Il Bernini si nascose la faccia con le mani.
Gli furono cantate belle canzoni, raccontate poesie, due coppie ballarono per lui – una con grande grazia, una un po' meno –, una coppia si mise in diverse pose cercando di dargli l'ispirazione, arrivarono altre storielle buffe.
Ma, per quanto avesse quasi iniziato ad apprezzare questo via vai, niente di quello che stava vedendo gli era utile. Era come se avessero voluto rallegrarlo, tirargli su il morale.
Forse, se avesse dovuto ritrarre Proserpina prima di essere ghermita dal dio degli inferi, mentre danzava e raccoglieva fiori con le sue amiche e ancelle, allora tutto questo sarebbe bastato.
Però doveva rappresentare un attimo potente, senza ignorare la forza emotiva del momento e contemporaneamente mantenendo un senso di equilibrio e bellezza nel gruppo scultoreo, senza rovinarlo con l'angoscia di lei o la brama di lui. Ma non troppo, non voleva essere del tutto irrealistico.
Il Bernini uscì dalla bottega a prendere una boccata d'aria. Non si sorprese di vedere ancora così tante coppie di giovani lì intorno, che chiacchieravano fra loro (o fingevano di chiacchierare). Pensò a come avrebbe potuto scacciarli, quando udì un verso che pareva il cigolio di una ruota che non veniva oliata da giorni, ma amplificato come in un anfiteatro.
Tutti volsero la testa verso la fonte di quel rumore: il cielo.
Dal gruppo si levarono ben due bestemmie e per fortuna che il cardinale non era presente! Ma anche se Scipione Borghese fosse stato lì, non avrebbe certo pensato a somministrare una qualche punizione ai blasfemi, quanto invece a mettere in salvo la propria vita.
Dal cielo, infatti, stava discendendo una bestia alata. Un demone, pensarono molti! Un demone simile ad un pipistrello, con grandi ali di pelle e un becco affilato simile a quello di una cicogna, ma almeno sei volte più grande, dalla quale proveniva quel rumore lacerante e orribile. La sua pelle, apparentemente nuda, era decorata da colori e disegni vivaci: verde, rosso, blu e un bruno lucente.
Le dimensioni della creatura erano a dir poco mostruose: da una punta dell'ala all'altra misurava almeno dodici metri.
I giovani iniziarono a correre a destra e a sinistra, in preda al panico, urlando. Alcuni si nascosero saltando in un carro pieno di paglia, altri si rifugiarono dentro alla bottega del Bernini, altri ancora puntarono a correre più lontano possibile.
Ma Gian Lorenzo rimase immobile, ipnotizzato a guardare quella bestia. Forse, si disse, era un drago... si, di certo doveva essere uno di quei rettili mitologici, anche se nessuno gli aveva mai detto che i draghi avevano il becco.
Ovviamente il Bernini non poteva sapere che si trattava di un Quetzalcoatlus, lo pterosauro più grande mai esistito, e anche se glielo avessero detto non ci avrebbe creduto.
Il Quetzalcoatlus urlò, l'enorme becco schioccante, fece un ampio giro sopra le case puntando i suoi occhietti color ocra sulla folla spaventata, e poi discese sporgendo le zampe posteriori munite di artigli ricurvi. Afferrò per l'avambraccio una giovane donna a nemmeno sei metri di distanza dal Bernini e prese a battere forte le ali per rapirla nel cielo.
La donna strillò terrorizzata, ma un robusto fabbro, accorso nell'udire tutto quel trambusto, la afferrò per la vita e cercò di trattenerla al suolo.
Iniziò così una delle più surreali lotte mai viste a Roma, che pure era una città che ne aveva viste di cose strane.
Lo pterosauro strideva di frustrazione, borbottando a modo suo, perché non riusciva a sollevare anche il grosso uomo da terra né a strappargli dalle braccia la sua preda, il fabbro ringhiava e sbuffava e i suoi piedi strisciavano sulla strada, costringendolo ad allargare le gambe ed abbassarsi per ancorarsi meglio.
«Non la avrai!» Gridava l'uomo, tirando «Non la avrai, Satana!».
Nessuno intervenne nella lotta per aiutare gli umani o il mostro. Ovviamente non c'era più nessuno: erano tutti scappati. Tutti tranne il Bernini, che però sembrava incantato.
«Madre divina...» Disse sottovoce l'artista, cercando di non battere neppure le palpebre per non perdersi un solo istante di quella scena «... Grazie, santi di tutti i cieli, per aver mandato la bestia».
Sul volto della giovane, che il quetzalcoatlus tirava da un braccio, era stampata un'angoscia che solo Proserpina prima di lei doveva aver provato nel vedersi rapita dall'immenso dio degli inferi. Con la mano libera, la donna percuoteva selvaggiamente i piedi dell'animale, ma tale era il suo panico che senza volerlo schiaffeggiò più di una volta l'uomo che la tratteneva e che voleva salvarla.
Quanto al fabbro, le sue braccia possenti erano tese, i muscoli degli avambracci che spuntavano dalle maniche arrotolate parevano disegnati e vivi insieme. Il suo volto era adulto, virile, ornato da una folta barba riccia, nera come catrame, e da una massa di capelli ribelli, intrisi di sudore.
Eccoli! Eccoli Plutone e Proserpina!
Il cane del fabbro, appena affacciatosi dalla porta della bottega, vide il mostro alato e invece di averne paura ci si slanciò contro, abbaiando ferocemente per difendere il suo padrone. Il quetzalcoatlus capì: non aveva alcuna possibilità di vincere quella battaglia, i suoi nemici stavano diventando troppi.
Così il demone multicolore lasciò andare la giovane donna, che ricadde fra le braccia del fabbro. Anche loro due hanno una storia interessante, ma a raccontarla ci si perderebbe tempo, e poi è una storia un poco sporcacciona e a dirla tutta...



*****

«Aspetta!» Disse Serena, cercando di non ridere «Mi stai dicendo che la posa che vediamo nella statua del ratto di Proserpina è quella di un tizio che sta cercando di trattenere una signora perché un dinosauro volante voleva rapirla?»
«Non un dinosauro volante. Uno pterosauro» precisò Ambrogio «È molto diverso»
«Si, ma tutto questo non ha senso!»
«Certo che ce l'ha. È colpa di Maffeo Barberini, il primo mecenate di Gian Lorenzo Bernini. Fu lui a portare i dinosauri a Roma!»
«Cosa? E come?»
«Ho detto una storia sola» il vecchietto fu perentorio, le sopracciglia aggrottate «E quella dei dinosauri a Roma è tutta una storia sua»
«Ma non ci sono notizie di questa cosa. Si saprebbe, no, se ci fossero stati dei dinosauri a Roma nel seicento?»
«Infatti. Si sapeva eccome! Ma Ermes ha cancellato tutte le prove dell'esistenza dei draghi e per buona misura ha dovuto estendere lo stratagemma anche sui dinosauri del 1600 italiano, perché Maffeo Barberini non doveva essere ricordato come qualcuno collegato alla magia».
Serena rimase un attimo in silenzio, guardandosi alle spalle. Una luce quasi dorata penetrava dalle finestre e ancora oltre c'erano gli ordinati giardini. Era un luogo di magia, ma non del tipo di magia che faceva comparire i dinosauri nel mezzo della città. Forse. In effetti lei non aveva mai visto un dinosauro, quindi non avrebbe potuto dire se l'atmosfera fosse quella giusta.
«Chi era Ermes?» Domandò dopo qualche istante «Quello di cui hai parlato. Quello che ha cancellato le prove... dell'esistenza dei... draghi? Parli del dio, Hermes?»
«No. Ermes Siegader To'Rvak. Il grande ingannatore della storia, il signore nero che uccise i draghi» rispose Ambrogio con una luce cupa negli occhi e un'espressione di disgusto «Rapitore dell'arte, mangiatore di neonati. È meglio non raccontare di lui dentro una galleria d'arte, per scaramanzia»
«È una cosa tipo... Voldemort?» scherzò la ragazza
«Voldemort?» il vecchio scosse la testa «Non so chi sia, ma non può essere come Ermes. Non c'è niente di peggio di Ermes. Ma ora, vuoi sentire oppure no la fine della storia di questa statua?»
«Continua ancora?»
«Si. Certo. La vuoi sentire?» il vecchio sollevò un sopracciglio «Oppure no?»
«Ma certo! Certo che voglio sentirla!»
«Allora...»



*****

Fu così che il cane del fabbro ispirò Cerbero stesso, il suo padrone divenne Plutone, la giovane modella si mutò in Proserpina nella mente dell'artista.
Il Bernini non attese che ritornasse la calma. Non gli importava nulla del terrore che il mostro aveva seminato per le strade, non andò a sincerarsi delle condizioni di salute del fabbro e della modella: c'era un progetto nella sua mente, un'immagine grande, immensa, bellissima e vera. La sua missione divina era trasferire quell'immagine nel marmo.
Gian Lorenzo chiuse tutte le porte, buttò fuori gli aiutanti, si assicurò che nessuno entrasse e usò la cera di una candela per farsi due tappi per le orecchie. Non voleva sentire nessuno, vedere nessuno, voleva concentrarsi solo sulla sua idea perché non evaporasse.
Normalmente Gian Lorenzo era un ragazzo molto pragmatico, uno di quelli con i piedi per terra, ma quella volta qualcosa lo afferrò e lo fece bruciare di una passione incontenibile: avrebbe creato la cosa più bella del mondo.
Disegnò oltre venti schizzi di studio, da diverse angolazioni. Misurò il marmo un millimetro dopo l'altro, segnò i punti salienti, poi si mise a lavorare come un matto con scalpelli, raspe ed abrasivi. Usò tanto trapano quando non ne aveva mai usato per i ricci di Plutone, carezzò con gli strumenti le carni di Proserpina, fino a dar loro una parvenza di vita, una morbidezza reale. Si innamorò di lei e odiò Plutone per averla rapita e fu quell'odio che gli fece scolpire con ancora maggior furia il volto di lui, quasi sprezzante, e i suoi muscoli forti, brutali. In preda ad un furore artistico, danzò con le mani sul panneggio e si ferì due volte per sbaglio, ma si legò un panno intorno alla mano e proseguì macchiando il marmo di scarlatto.
Quando ebbe sbozzato la superficie della statua, i dettagli più importanti, capelli e volti, cadde in ginocchio e pianse. Aveva lavorato per due giorni fermandosi solo per mangiare e per evacuare i rifiuti del suo corpo, ma adesso il cibo era finito e doveva andare a comprarne altro.
Non voleva smettere di lavorare, sentiva che il suo slancio sarebbe stato smorzato da una pausa, ma non aveva altra scelta.
Sei ore dopo, Gian Lorenzo Bernini scoprì che la sua idea, attraverso i primi particolari e i disegni, era stata fissata: non l'aveva persa e non gli era necessario lavorare tutto d'un fiato fino alla fine, fino alla realizzazione completa del suo capolavoro.
Pianse per la seconda volta. Richiamò i suoi assistenti, riaprì le porte della bottega e riprese a scolpire con più calma.
Finì la scultura quasi un anno dopo e ne fu totalmente soddisfatto.



*****

«E adesso, è finita la storia della statua?» Chiese Serena, con gli occhi brillanti
«Non proprio, ti ho raccontato solo della sua nascita. Il cardinale rimase incredibilmente felice e soddisfatto del risultato, guardando la statua con ammirazione tale che il Bernini si sentì il petto scoppiare d'orgoglio. Nel lodarlo lo chiamò con il suo nome completo, Giovanni Lorenzo Bernini, e pose la statua all'entrata della sua dimora poco fuori Villa Pinciana. Passò poi nelle mani di un altro porporato nel 1926, tale Ludovico Ludovisi. Non rimase molto nelle sue mani, perché mi resi conto presto che non era una buona idea che rimanesse nelle sue mani troppo a lungo. Era un uomo di Chiesa, parente di uomini di Chiesa e tirato su da uomini di Chiesa. Con i suoi begli occhi non sarebbe mai riuscito a vedere la bellezza nel corpo della più bella delle Persefoni, semplicemente perché era una donna pagana. E quella statua meritava di stare dove tutti avrebbero capito quanto fosse straordinaria». Stavolta Serena non si accorse abbastanza in fretta di ciò che stava accadendo per fermarlo.
La mano del vecchio si sollevò con naturalezza, appoggiandosi quasi con tenerezza sulla base del gruppo scultoreo. Serena sobbalzò, ma non scattò nessun allarme. Niente di niente.
Le dita di Ambrogio continuarono ad accarezzare il marmo gentilmente, con movimenti tanto piccoli e lievi da sembrare quasi un effetto ottico. Questa cosa era legale? Era normale che nessuna guardia o allarme fosse allertata dal comportamento di quello strano vecchio?
L'affetto e la possessività nello sguardo di Ambrogio erano chiari. Serena lasciò semplicemente che continuasse, prima di sussurrare, sentendosi tornare bambina:
«Ludovico Ludovisi. E poi?»
«La statua visse molte altre avventure prima di tornare qui nella Galleria Borghese, nel 1902, e rimanerci sul suo nuovo piedistallo. Vide un mercante dalla pelle color ambra, venuto a rubare anziché vendere, vide un cavallo impazzito fuggire dalle mani di un lottatore in incognito, cardinali, donne nascoste sotto abiti da papa e papi in abiti da donna... ora che ricordo, anche un paio di esplosioni che per fortuna non la toccarono, sia ringraziato il cielo. È stata testimone di tante e tali cose da non poter essere raccontate con la giustizia che meritano in una sola mattina, prima di tornare qui ed avere il riposo che merita, circondata da altra bellezza. Ah, è così difficile promettere la storia di un oggetto quando è antico e straordinario, vero, giovane? Finisci sempre per dover raccontare anche molte altre storie. Le leggende finiscono per condividere molto spesso lo stesso cammino, sai Serena? Se solo potessero raccontarla loro. Ah, perché non parli?» esclamò alla statua, in tono di finto rimprovero
«Non deve per forza raccontarmi tutta la storia, signor Ambrogio. Ciò che mi ha raccontato è stato...»
«Bello?»
«Strambo. Interessante»
«Onorato, Serena. Anche la base è carina, vero, mia cara? Indubbio che sostenga bene il lavoro sublime di Gian. Dimmi, Serena, quanto tempo hai ancora prima di dover andare?».
La ragazza estrasse il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni; lo schermo, con il suo albero di melograno come sfondo, si illuminò come un piccolo faro.
«È davvero passato così tanto?» Boccheggiò ad alta voce.
Ambrogio scoppiò in una risata piacevole «Mi sembra di capire che non avrò l'onore di intrattenerti ancora a lungo, mia cara. Ah, non fa nulla. Sappia che è stato un grande piacere per me» disse, passando ancora una volta dal tu al “lei” formale
«Anche per me, Ambrogio» Serena gli rivolse un sorriso luminoso, posando lo smartphone con movimenti pratici «Ma ti dimentichi che io sono venuta qui per un motivo preciso»
«Ora che me lo rammenta...»
«Vediamo se sei stato in grado di fare quello che mi ha promesso, o se hai dato solo aria alla bocca come un vecchio trombone» disse la ragazza maliziosamente, sollevando lo sketchbook ed aprendolo esattamente a metà, impugnando la sua fida matita.
«La prego di fare un bel lavoro, salvi la faccia a lei e a me, Serena» Replicò Ambrogio divertito, con l'aria di non stare del tutto scherzando.
Serena si sentiva bruciare di energia. No, bruciare non era il termine giusto.
Era come se la sua testa fosse riscaldata da dentro da questa energia che sentiva, come il cratere di un vulcano, con la lava che si rimesta, si muove. E da questa lava affioravano continui abbozzi di idea come bollicine in un bicchiere di buono champagne, pronte ad evaporare quanto ad essere assaporate.
E una parte di lei sapeva che poteva assaporarle, che poteva estrarle tutte e realizzarle tutte, se solo avesse voluto.
Il suo sketchbook stava aperto di fronte a lei da pochi attimi quando la mano di Serena poggiò con naturalezza la matita – rosa a stelline, un particolare che la fece sentire più eccentrica, meno credibile, e bene in generale – e delle figure di grafite sbocciarono sotto la sua mano come se si fossero sempre annidate sulla pagina.
Ambrogio aspettò in silenzio, educatamente.
Serena osservò il proprio risultato soddisfatta, trionfante, e rise.
«Potrei vederlo, cara Serena?» Chiese Ambrogio gentilmente, tendendo una mano verso di lei.
«Perché no?» Senza smettere di sorridere, la giovane passò il libricino nero al suo accompagnatore. Sulla carta, un grosso mostro alato, con becco di cicogna e occhi infossati e terribili, aveva ghermito il braccio di una donna angosciata, tenuta dalle braccia forti di un fabbro barbuto, con gli occhi chiusi e la faccia comicamente tesa nello sforzo.
«Non è originale, lo so» disse lei «È esattamente quello che mi hai appena raccontato. Ma non voglio dimenticare come l'ho immaginato mentre lo raccontavi, perciò» e aggiunse una risatina «Eccolo qua. Ma ho anche altre idee, buone idee, idee mie, giuro. Credo che guadare così a lungo queste opere mi abbia reso un po' invidiosa, specie quella del Bernini. Mi sa che mi concentrerò sull'anatomia umana per un po'»
«Ha indubbiamente tanto da offrire» disse Ambrogio, rimirando il disegno con uno scintillio compiaciuto negli occhi. Per un attimo, Serena ebbe paura che voltasse pagina e vedesse il disegno dei suoi angioletti malriusciti.
«Posso riavere il mio sketchbook?».
Il vecchio assentì col capo e glielo ridiede molto lentamente, quasi riluttante.
«Allora, pensa di avere riavuto la sua ispirazione?»
«Penso... penso di si» Serena si strinse nelle spalle «Solo il tempo può dirlo»
«L'ispirazione è una bella fiamma. Non la lasci morire»
«Più facile a dirsi che a farsi»
«Senza dubbio. Conosco persone che sembrano averne una scorta infinita e persone che si bloccano dopo ogni opera, spaventati che quella dopo non sia all'altezza o che non riescono più ad avere idee. Da quel che ne so io, il modo migliore per rimanere ispirati è creare senza fermarsi, senza curarsi che ogni pezzo sia un capolavoro»
Serena lo indicò con la matita ed annuì. «Appunto preso». Ambrogio le sorrise.
«Ci sono così tante altre cose che vorrei chiederti» Confessò la ragazza
«Ad esempio?»
«La storia dei dinosauri a Roma. O perché tu dovresti avere diritto più degli altri a toccare la statua»
«Ti piacerebbero di sicuro»
«Ma il tempo vola e mi è stata concessa una sola storia, giusto?»
«Giusto» concordò il vecchio «Ma questo non vuol dire che non ci siano altri modi per ottenerne di nuove»
«Altri modi?» ripeté piano la ragazza, pensierosa «Beh, tu non vivi qui e io neanche. È difficile incontrarci di nuovo. Hai degli account social?» chiese Serena, ma ebbe ogni risposta che le serviva nel vedere la faccia piena di sdegno ed affronto del vecchio ad una domanda che, almeno secondo lei, era del tutto innocua.
«Su, non fare così signor Ambrogio!»
«Per fortuna lei si sbaglia signorina, altrimenti noi saremmo nei guai»
«Mi sbaglio? E su cosa?»
«Sul fatto che io non viva qui». Il vecchio le sorrise, dolcemente, e Serena batté le palpebre.
«Fermo, fermo, aspetta. Non puoi vivere dentro il museo» La ragazza abbassò la voce come per non farsi sentire. Per qualche motivo, una parte di lei non credeva davvero che lui non potesse vivere nel museo, ed in effetti la frase era stata pronunciata più come una provocazione.
«Galleria Borghese ha avuto l'influenza di molti uomini e donne, ma non sarebbe stata quello che è se io non fossi stato qui. Deve a me di esistere com'è» Disse Ambrogio, con autorità severa «A dire la verità, cara Serena, non riesco proprio a farmi portare via le cose che amo. È come se mi portassero via una parte della mia anima». Diede una pacca amichevole al piede di Plutone, sorridendo come ad un vecchio amico «Che in questo caso sarebbe del tutto letterale, mia cara. È così che sono finito in questa situazione, suppongo, e mi trovo a non potere proprio uscire da qui»
Serena lo guardò bene, e qualunque risposta – magari un pizzico sarcastica – la sua mente avesse formulato fu spazzata via come granelli di polvere sotto una sferzata di vento.
Perché si era accorta che c'era una cosa sconvolgente, evidente, proprio sotto i suoi occhi. Ambrogio aveva palpebre pesanti ed occhi intelligenti, scuri, che brillavano sotto il piano solido della fronte, alta e percorsa da una serie di rughe carnose come solchi leggeri in un campo. Il naso curvava sulla punta, la base più larga dell'attaccatura minuta, sovrastando la bocca piccola e dalle labbra tonde e di colore intenso, dovevano essere state proprio rosse quando era giovane.
Gli zigomi tondi risaltavano sotto la mascella larga e dal taglio poco deciso, rughe d'espressione segnavano il suo volto furbo tra le sopracciglia e accanto agli occhi, e gli incorniciavano la bocca tirata in un sorrisetto.
Aveva già visto quel volto.
Lo aveva visto poco dopo aver visto Ambrogio, in realtà, ma alcune differenze le avevano impedito di vedere quanto in realtà si somigliassero. Differenze come il fatto che l'altro volto era privo delle rughe di quella vecchiaia, aveva un aspetto meno affilato e decisamente più in carne, ed era fatto di marmo.
«Hai la faccia di una ragazza che sta guardando un fantasma» Ridacchiò Ambrogio, esibendo sfacciatamente il volto, sciupato ed invecchiato, del cardinale Scipione Caffarelli-Borghese.
«Le cose sono tre» Disse Serena ad alta voce, deglutendo «O sei un poco matto, non devo dare troppo peso a tutte queste strane cose che hai detto e somigli solo per caso al busto all'entrata...»
«È possibile» Ammise il vecchio, divertito
«Oppure sei un discendente del cardinale Borghese, ed è per questo che gli somigli e che dici di avere, tipo, dei diritti sulla Galleria»
«Uh, il pronipote di un cardinale? Possibile, ma sconveniente, che ne dici?»
«Oppure... beh...»
«Oppure?» incoraggiò lui, con un luccichio negli occhiata
«Oppure... oppure tu sei Scipione Borghese» disse lei meravigliata, quasi con riluttanza.
Non riusciva neanche a crederci di averlo detto ad alta voce, o averlo preso in considerazione. Nella sua mente era stato così scontato, così naturale, ma che strano effetto faceva una volta pronunciato ad alta voce!
«In realtà ci sono molte, molte più alternative, e lo sai mia cara» le fece presente il vecchio, gentilmente, prendendole una mano tra le sue. Serena lo lasciò fare, scrutando i suoi occhi scuri, cercando qualcosa di cui neppure lei era proprio sicura. «Però è molto più comune che l'alternativa sia quella più semplice, anche quando non è la più probabile».
La ragazza rimase in silenzio per qualche attimo, spostando lo sguardo sulle mani calde e reali del suo interlocutore. Si guardò attorno sperduta, cercando la risposta che non era negli occhi del vecchio nelle opere che li circondavano, ma alla fine tornò a guardare il suo interlocutore.
«Si, ma com'è possibile?»
«Io sarò sempre qui, fino a quando la Galleria esisterà» disse il cardinale Scipione con un meraviglioso misto di gioia e solennità, spalancando le braccia come per abbracciare il posto tutto in una volta sola «C'è un pezzo di me in ognuna delle mie opere favorite. Ho lavorato a lungo perché non siano solo mie, ma siano me. Come credo voglia fare ogni collezionista».
Ridacchiò, come se fosse avesse fatto una battuta sul tempo atmosferico o qualunque altra cosa triviale e comune.
Serena annuì. In qualche modo quello che aveva sentito era plausibile al suo cuore d'artista. Il suo cervello le sibilava che non poteva bersi una simile fandonia senza prove, ma il resto di Serena si disse che non era davvero importante. Non era importante se quell'uomo non era Scipione Borghese e se non era davvero un pezzo vivente di uno dei più grandi musei mai creati, perché a volte credere in qualcosa lo rendeva reale più di qualcosa di vero. E se lo fosse stato sarebbe stato una delle lunghe voci sull'infinita lista di cose strane che il mondo aveva visto.
Magari neppure la più strana.
«Ma mi hai detto... mi hai detto di chiamarti Ambrogio. Perché?».
Il cardinale guardò per un istante altrove, sorridendo tenuemente, poi volse gli occhi a lei
«Ambrogio è come mi chiamano. Significa “l'immortale”. E poi non voglio che la gente si accorga subito di chi sono davvero»
«Ma nessuno se ne accorgerebbe, voglio dire, è assurdo!»
«Ci sono persone abituate all'assurdo. Molte più di quante tu ne possa immaginare. Loro mi troverebbero e qualcuno di loro vorrebbe persino uccidermi. Perciò non dire a nessuno il nostro piccolo segreto» si portò un dito alle labbra «Io sono Ambrogio Ginulfo Asterio».
Per un alcuni istanti i due non parlarono, mentre una famigliola numerosa che sembrava capitanata da un bell'uomo ricciolino passava accanto a loro. Una donna bionda con la frangetta e un uomo dagli zigomi affilati come coltelli stavano litigando riguardo a un gatto, mentre un ragazzo adolescente fingeva di essere assatanato e di sparare con le dita ai quadri per mettersi in mostra davanti alla sua fidanzatina. Gli altri erano relativamente tranquilli.
Poi se ne andarono tutti in un'altra stanza, lasciando il cardinale e la giovane artista di nuovo da soli.
«Serena, tu hai del talento» Disse il vecchio
«Ehm... davvero?». “E che c'entra?” Avrebbe voluto chiedere, ma non voleva interrompere il flusso della conversazione.
«Si. Che tu mi creda, o ti creda in questo caso, non è importante per quello che voglio da te. Hai talento, hai la possibilità di diventare davvero grande»
«Grazie... Ambrogio»
«E io voglio per me questo potenziale».
Serena aggrottò le sopracciglia.
Il vecchio andò dritto al punto: «Voglio commissionarti qualcosa, Serena. Sarai ben retribuita, te lo prometto, e avrai in più anche una delle mie storie in cambio della tua opera per me. Che ne dici, mia cara?»
«Beh, è una bellissima offerta» Serena batté le palpebre. «Rimarresti deluso, sua eminenza. Passare da questo...» ed indicò la stanza attorno a lei, poi il suo sketchbook «A questo. Lasciatelo dire, non stai facendo un salto di qualità»
«I talenti vanno coltivati, e tu sarai un'aggiunta gradita al mio giardino. Ho bisogno di nuove essenze con cui rinfrescare l'ambiente... lascia che sia io a decidere cosa è di qualità, mia cara. Non ho mai sbagliato».
Per qualche motivo, ora Serena sentì un moto di disagio agitarsi dentro di lei come un anguilla confinata in uno spazio ristretto. Voleva andarsene. Non capiva perché, ma adesso aveva bisogno di rintanarsi a casa sua, lontana da tutto questo.
Avvertiva la necessità impellente di pensare a tutto questo a mente fredda, prima di prendere un impegno.
Il cardinale smise di sorridere, e fece un passo indietro. Non era né ostile né aveva smesso di sembrare amichevole, ma le lasciò spazio.
«Io... vorrei andare...» disse a bassa voce Serena, affondando le mani nelle tasche.
«Capisco, Serena. Va bene così».
Serena indietreggiò di un paio di passi precipitosi. Si chiese se avrebbe dovuto stringergli la mano o salutarlo baciandolo sulle guance, ma alla fine si limitò a sorridere e agitare la mano. Si voltò a guardare indietro solo un'ultima volta, prima di incamminarsi verso casa.
«Pensaci» Gli disse il vecchio. Non la guardava, aveva gli occhi chiusi. «Ti chiedo solo questo. Pensaci. Mi ritroverai sempre qui».



*****

Serena sedeva sul muretto di mattoni dirimpetto al suo amato albero di melograno, ma non lo vedeva. La sua testa era china ormai da più di mezz'ora, e da quando si era seduta la sua mano destra non aveva smesso per un attimo di muoversi.
Figure su figure, linee che creavano piccoli mondi nello spazio di una pagina, e Serena si sentiva come se non avesse mai potuto smettere.
Erano giorni che rinfocolava la fiamma della sua ispirazione creando e creando e creando, sentendosi riscaldare dentro. Però aveva continuato a pensare, proprio come aveva voluto il vecchio. Alla sua proposta, e a tutte le strane, straordinarie cose che le erano successe e che sarebbero potute succederle.
Rifinì lo sguardo scuro di un vecchio sorridente, che la trafiggeva dal foglio. Chiuse di scatto lo sketchbook, e rivolse lo sguardo al cielo stellato.
L'indomani mattina, lo sapeva, avrebbe comprato un nuovo biglietto per la Galleria. 


*****

Nel buio della Galleria Borghese di Roma, dentro la Sala degli Imperatori, il cardinale Scipione Borghese attendeva pazientemente, accucciato dentro come i perfetti contorni marmorei de Il Ratto di Proserpina, come una volpe nella sua tana.
Attendeva, tranquillo. Non aveva motivo di preoccuparsi. Un uomo come lui otteneva sempre ciò che voleva.


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