domenica 10 settembre 2017

Sunset 8. Isabella Swan



Quando fui in grado di camminare, imboccai a passi lenti il corridoio che portava all'uscita, inalando l'odore di disinfettanti e di sudore che aleggiava nella corsia. I neon scorrevano sulla mia testa e, benché fosse pieno giorno, immaginai come sarebbe stato inquietante quel luogo di notte... mi ricordò un videogioco horror. Edward avrebbe potuto benissimo essere uno zombie mangia-cervelli, pronto a sbucare da dietro un angolo per assalirmi.
La sala d'attesa era più gradevole di quanto avessi osato sperare: sembrava che chiunque avessi mai intravisto a Forks fosse venuto lì per vedere come stava Edward e per incontrare l'eroina del giorno. E magari anche per sapere come stava l'eroina del giorno, che aveva battuto la testa, ma questi sono dettagli...
Carlo mi corse incontro, le scarpe lucide che ticchettavano sul pavimento come le unghie di un grosso cane. Alzai le mani.
«Non mi sono fatta niente» Gli dissi immediatamente, per rassicurarlo. Non ero dell'umore giusto per le chiacchiere e non era sicuramente colpa di papà, ma non volevo dovergli dire che era tutto ok dopo che lo avevo dovuto già ripetere a tutti (compreso a lui) così tante volte.
«Cos'ha detto il dottore?»
«Il dottor Cullen, che per la cronaca sembra un fotomodello, mi ha visitata, ha detto che sto bene e che posso tornare a casa». Sospirai.
Mike, Jessica ed Eric erano tutti lì e si stavano avvicinando: avrei dovuto ritardare la fuga nel mio nido sicuro spendendo una parola anche con loro. Sarebbe stato gentile, solo una cafona gli avrebbe fatto fare tutta quella strada e poi sarebbe fuggita con suo padre come se i suoi amici contassero meno che nulla.
Eric parlò per primo, velocemente
«Salve, ispettore Cigna! Ciao Belarda! Come stai? Abbiamo visto che cosa è successo ed è stato veramente incredibile e siamo preoccupatissimi per te e...»
«Sto fantasticamente» risposi, mostrando i palmi delle mani «Davvero, è Edward Cullen il malatino della giornata, non io»
«Chissenefrega di lui» interloquì Jessica, che quel giorno portava un cerchietto decorato a foglioline per tenere vagamente a posto la massa di capelli ribelli «Siamo venuti qui per la nostra amica»
«Io c'ero» si intromise Mike, radiante «L'ho visto da lontano. Hai salvato la vita a Cullen. Ce lo devi raccontare più nel dettaglio!»
«Si, è vero!» squittì Jessica «Tutta la scuola ne parla! Hai salvato la vita di Cullen! Vogliamo sapere tutto! Tutto!».
Iniziarono tutti quanti ad agitare le braccia e lanciarmi occhiate piene di ammirazione e rispetto e papà parve molto compiaciuto dalla cosa. Io arrossii più di quanto avrei voluto e cercai di farmi schermo con i capelli, di rimpicciolirmi ed indietreggiare, ma fu del tutto inutile... così iniziai a raccontare quello che era successo.
Era paradossale quanto mi stancasse dover raccontare i particolari in quel momento, mi sentivo imbarazzata e svuotata; in un altro istante avrei descritto tutto il salvataggio nel dettaglio, ma sotto i neon della sala d'aspetto, con i miei amici che mi guardavano con gli occhi sgranati, e con l'impressione di stare ingigantendo l'intera faccenda del "gli ho salvato la vita", ero davvero a disagio.
Per fortuna papà capì che stavo iniziando a stancarmi e mi prese per un braccio, delicatamente
«Belarda adesso deve riposare, ragazzi» disse ad alta voce, con un tono che non ammetteva repliche «La porto a casa»
«Si, signor Cigna» dissero in coro Eric e Jessica, mentre Mike si limitava ad annuire, con gli occhi socchiusi.
Papà mi lasciò, poi mi mise un braccio attorno alle spalle, senza toccarmi davvero, e mi guidò verso le porte a vetri dell'uscita.
Io salutai con un gesto vagamente imbarazzato i miei amici, sperando di suggerirgli che non era colpa loro se me ne stavo andando così. Salire sull'auto della polizia fu davvero un sollievo, perché mi accorsi di avere anche le gambe stanche.
Restammo in silenzio. Di colpo fui presa dai miei pensieri, così tanto che a malapena mi accorgevo della presenza di papà. Ero sicura che il comportamento di Edward "capelli-pazzi" Cullen in ospedale, così sulla difensiva, fosse una conferma delle cose bizzarre che ancora non riuscivo a credere di aver visto.
Alla fine giungemmo a casa. Carlo parlò.
«Ehm... forse è il caso che tu chiami Renée». Chinò la testa, con aria colpevole, e lasciò ciondolare le braccia.
Rimasi sgomenta.
«L'hai detto alla mamma? Hai detto alla mamma che ho quasi rischiato la morte in un incidente stradale?»
«Scusami» borbottò lui
«No, dovrai fare di meglio»
«Che cosa posso fare di meglio» si strinse nelle spalle, imbarazzatissimo «Sono andato nel panico, Belarda. Non sapevo che fare e ho chiamato tua madre»
«Allora, se questo accordo non era tacito e implicito» sbottai «Lo diciamo ad alta voce adesso: alla mamma non si dice niente. Mi taglio per sbaglio un braccio? Alla mamma non si dice niente. Tu cadi sulla neve e ti fratturi il cranio? Io non telefono a mamma per dirglielo. Finiamo insieme in un canyon, senza acqua né cibo? Chiamiamo i soccorsi, ma non la mamma. Intesi?».
Mio padre alzò lo sguardo verso di me e batté le palpebre. Era paonazzo e potevo credere che stesse anche tremando un po' per il nervosismo.
«Va bene» Cedette, dopo un lungo silenzio «Non diciamo niente alla mamma. Ma ora gliel'ho detto, questo, e dovrai telefonarle... altrimenti lei verrà qui...».
Lui la amava ancora. Contro ogni buonsenso possibile, visto che lei lo aveva abbandonato in questo modo, lui desiderava ancora vederla ed ecco perché aveva fatto quel gesto. Ecco perché, senza volerlo, mi aveva tradita.
Scesi dall'auto, con l'intenzione di sbattere la portiera con più foga del necessario, ma senza il coraggio di farlo.
Telefonai. Ovviamente mia madre era in piena crisi isterica, di cui vi risparmierò i dettagli. Mi toccò ripeterle che stavo bene almeno trenta volte, prima che si calmasse. E non è un'iperbole, furono davvero almeno trenta volte. Mi implorò di tornare a casa (dimenticandosi che al momento casa nostra era disabitata), ma resistere a quelle suppliche sdolcinate fu facile come ingoiare per sbaglio una piccola gomma da masticare: un gioco da bimbi.
Non ero impaziente di fuggire da Forks perché ero una persona sana, equilibrata, felice. Chi mai avrebbe voluto scappare da un paradiso verde con l'aria pura, la gente amichevole e soprattutto dove era stata appena dichiarata eroina locale?
Quella sera, stanca, decisi di andare a letto presto.
Papà continuava ad osservarmi con aria ansiosa, come se dovessi avere un attacco di convulsioni da un momento all'altro, il che mi dava sui nervi. Prima di entrare in camera passai dal bagno e mi lavai i denti due volte, perché avevo un saporaccio sulla lingua che non riuscivo ad identificare in pieno, una sorta di felpatura muffosa e metallica. Sperai che non fosse il sintomo di una commozione cerebrale.
Ritornata in camera, vidi Dracula seduto sul copriletto, che muoveva pigramente la punta della coda e mi fissava. I suoi occhi, rossi e arancio, brillavano nel buio, riflettendo la luce del lampione piantato non troppo lontano dalla finestra.
«Che c'è?» Gli domandai, andando a sedermi accanto a lui «Hai visto un fantasma?».
Il micio mi saltò in grembo, emettendo un suono trillante, e cadde sdraiato. Ero pronta a iniziare a carezzargli la testa, quando lui prese a farmi la pasta contro la coscia, muovendo le zampette con gli artigli sguainati e punzecchiandomi dolorosamente.
«Ahi... Dracula... ahi... smettila!».
Lo afferrai per le ascelle e lo sollevai. Il gatto girò la testa e ci guardammo negli occhi, per un istante. Aveva due occhi bellissimi, perfetti, altro che quelli di Edward Cullen.
Misi giù il micino e andai a riempirgli la ciotola di croccantini, poi mi misi a letto.
Quella notte, per la prima volta, sognai Edward Cullen.
Nel sogno, il mio nome era Isabella Swan, non Belarda Cigna, ed ero così imbranata che quando il furgoncino mi veniva incontro ero immobilizzata e rischiavo di essere spiaccicata. Non provavo neanche a mettermi in salvo, perciò Edward Cullen arrivava ad una velocità sovrannaturale e si frapponeva fra me e il furgoncino. Due mani affusolate e bianche mi si pararono di fronte per proteggermi, e il furgone si arrestò di colpo ad una spanna dal mio volto. Le grandi mani erano affondate nella carrozzeria, dentro una provvidenziale, profonda ammaccatura del furgone.
Poi agirono così velocemente da diventare invisibili: una fece presa in un istante sotto il furgoncino, e qualcosa mi trascinò, inerme con una bambola, girandomi per le gambe e facendomele sbattere contro una ruota dell'auto scura che nella vita reale avevo usato come scudo.
Fui assordata da un lancinante rumore metallico, e il furgoncino, con il vetro sbriciolato, si piantò sull'asfalto, nell'esatto punto in cui, un istante prima, si trovavano le mie gambe.
Per un interminabile istante il silenzio fu assoluto, poi iniziarono le urla.
«Bella! Bella!»
«Oddio, quella era Bella Swan?»
«Bella!».
Nitida in mezzo al frastuono, vicina al mio orecchio, udii la voce bassa e affannata di Edward Cullen.
«Bella, tutto a posto?».
Mi svegliai di soprassalto. Che razza di sogno bislacco e irritante, dove Edward aveva una forza ed una velocità sovrannaturali e io ero una deficiente!
Dracula mi guardava, in piedi sul fondo del letto, allarmato.
«Va tutto bene» Lo confortai, appoggiando la testa al cuscino «Ho fatto solo un sogno scemo perché oggi ho avuto uno shock».
Ritornai a dormire. E feci un secondo sogno, ancora peggiore del primo. Ancora più assurdo.


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Sunset 7. Missione: Salvare Edward


Il giorno dopo, al mio risveglio, qualcosa era cambiato. Era la luce. Era sempre del consueto grigioverde, come in una foresta sotto il cielo coperto, ma appariva più limpida del solito. Fuori dalla finestra non c'era il velo di nebbia a cui mi ero ormai abituata.
Saltai giù dal letto per controllare e spalancai gli occhi, sorpresa: il cortile era ricoperto da un sottile, ma bianchissimo e brillante, strato di neve, di cui erano anche spolverati il tetto del mio pick-up e la strada. La pioggia del giorno prima si era ghiacciata e disegnava ghirigori fantasiosi e splendenti tra gli aghi dei pini, sui bordi della mia finestra, sulle grondaie delle case.
Trattenni il respiro per un attimo, portandomi le mani al petto, poi proruppi in un urlo
«PAPÀ, C'È LA NEVE! LA NEVE!».
Carlo, in uniforme da poliziotto, comparve sull'uscio della mia camera, affacciando timidamente
«Stavo per uscire è...»
«Papà, hai visto che bello? Lì fuori è tutto bianco e il ghiaccio è... è bellissimo» conclusi. Spiegare a mio padre quanto amavo quella visione iniziando a poeteggiare non mi sembrava la migliore idea, così mi limitai a cercare di sembrare raggiante e alla fine lo contagiai e lui sorrise
«Sono così felice che ti piaccia, Belarda»
«Anch'io, papà».
Carlo si ritirò e uscì prima che io avessi finito di prepararmi e scendere al piano di sotto. Per molti versi, vivere con mio padre era come avere una casa tutta mia e, lungi dal sentirmi abbandonata, mi godevo quelle occasioni di solitudine.
Divorai qualche cucchiaiata di cereali al cacao, di quelli che hanno un mucchio di vitamine extra, e un po' di succo d'arancia direttamente dal cartone. Ero un po' spaventata dall'idea di andare a scuola: anche oggi ci sarebbero state battaglie a palle di neve e dubitavo che questa volta la mia cartellina-scudo mi avrebbe salvata provvidenzialmente da tutti gli assalti.
Inoltre avrei incontrato di nuovo quel deficiente di Edward Cullen, che avrebbe potuto arbitrariamente decidere che era una cosa simpatica spiaccicarmi sulla nuca una palla di neve, visto che era bravo a leggere la gente quanto il mio nuovo gatto era bravo a non far uscire i croccantini dalla ciotola, cioè per niente; dopo tutto il suo blaterare imbarazzante e insensato del giorno prima era chiaro che sarebbe stato difficile girargli alla larga perché si credeva più affascinante di quello che era e che provava qualcosa (non avevo ancora capito se interesse o profondo odio) per me.
Ci volle tutta la concentrazione di cui ero capace per arrivare viva alla fine del vialetto ghiacciato: rischiai di perdere l'equilibrio tre o quattro alla volte e persino alla fine, quando ormai avevo raggiunto il pick-up, ma mi aggrappai allo specchietto e fui salva. Non avevo dubbi, quel giorno sarebbe stato irritante e scivoloso.
Guidando verso la scuola, cercai di non pensare alla paura di cadere o a quella, ancora più grande, di slittare sul ghiaccio e investire per sbaglio un paio di vecchietti che attraversavano la strada. Poteva anche darsi che la mia rovinosa goffaggine apparisse tenera, anziché patetica, (che fosse questo il motivo per cui Mike e Eric mi venivano dietro in quel modo? Speravo ardentemente di no!) e mi facesse vestire i panni della damigella bisognosa d'aiuto, ma era preoccupante come questo mi mettesse continuamente in pericolo.
Il pick-up non sembrava avere alcun problema di tenuta sopra il ghiaccio scuro che copriva le strade. In ogni caso, guidavo molto lentamente e cautamente, per nulla desiderosa di spargere morte e distruzione sfrecciando attraverso la Main Street. Ebbi quasi una visione, la vivida immaginazione di una scena in cui il mio macchinone slittava lateralmente lungo la carreggiata, schiacciava l'erba gelata e si sfracellava di fianco contro una casa, dopo aver strappato via una buca delle lettere.
Per fortuna non accadde nulla di male. Giunta a scuola, e scesa dal mezzo, capii perché il viaggio era stato così semplice. Fui incuriosita da qualcosa di argentato e mi avvicinai al retro del pick-up, ancorandomi per bene alla carrozzeria, per controllare gli pneumatici. Erano avvolti da catenelle sottili, intrecciate a forma di rombo. Carlo si era alzato chissà a che ora per montarle ed evitare che sfracellassi case, altre macchine e finanche me stessa.
Non ero abituata ad avere accanto qualcuno che si prendesse cura di me e la cortesia silenziosa di papà mi sorprese: se mai mamma avesse avuto in mente l'idea di fare qualcosa di simile, di sicuro me l'avrebbe fatto sapere venti ore prima e avrebbe preteso una sequela di ringraziamenti infinita.
Impalata accanto al faro posteriore del pick-up, mi sforzavo di ricacciare indietro l'ondata improvvisa di emozioni positive provocata dalle catene. Fu in quel momento che sentii un rumore strano.
Era un fischio acuto, una frenata, sempre più vicina e inquietante. Fu un attimo: alzai gli occhi, sbigottita. Vidi parecchie cose contemporaneamente. Non era un film, perciò niente rallentatore, ma per fortuna la vampata di adrenalina che mi si conficcò nel cervello, come l'ago enorme di una vecchia siringa, mi rese più veloce, accelerando l'attività del mio cervello per farmi trovare a recepire con chiarezza molti dettagli in un colpo solo.
Edward Cullen, a quattro auto di distanza da me, mi fissava terrorizzato. Il suo viso emergeva da un mare di altri volti, immobilizzati nella stessa maschera di terrore. Ma l'elemento più importante era il furgoncino blu scuro che sbandava, le ruote bloccate e stridenti, una trottola impazzita nel parcheggio ghiacciato. Stava per schiantarsi contro il retro del mio pick-up, di fronte al quale c'ero io.
Forse non avrei avuto neppure il tempo di chiudere gli occhi, forse non sarei riuscita neanche volendo a chiuderli, ma il mio corpo si mosse da solo, spinto anche dal cervello che urlava "VIA!".
Un istante prima che potessi sentire il fragore del furgoncino che si accartocciava sul cassone del pick-up, mi lanciai di lato, aiutandomi anche con le braccia per avere maggiore spinta. Mentre il furgoncino sbatteva contro il pick up, che a sua volta mi sbatteva contro un braccio (per fortuna non troppo forte) spingendomi ancora più lontano, vidi Edward Cullen frapporsi fra i due mezzi.
Lo avrebbero spiaccicato, pensai.
Scivolai, complice anche l'urto del furgoncino, e caddi di schiena contro il manto stradale, rimanendo completamente senza fiato: le spalle mi facevano male per lo sforzo mostruoso che avevano dovuto sopportare, improvviso, ma almeno ero viva. Il cuore mi batteva fortissimo, il fiato formava nuvolette nell'aria gelida, e il cielo grigio mi sembrava meraviglioso, per quei pochi e minuscoli istanti che potei scrutarlo.
Edward doveva essere morto cercando di salvarmi, anche se non aveva alcun senso al mondo che fosse riuscito ad avvicinarsi al luogo dell'incidente a quella velocità.
Ero sdraiata sull'asfalto, dietro l'auto scura accanto alla quale avevo parcheggiato. Non potevo scorgere altro, perché la corsa del furgoncino non era ancora finita: aveva strusciato girandosi contro la coda del mio mezzo, con una derapata, continuando a slittare in testacoda, e stava per investirmi di nuovo.
Rotolai dietro la macchina nera per usarla come scudo e mi alzai in piedi di scatto, nonostante il ghiaccio ostacolasse la fluidità dei miei movimenti, poi allungai una mano per afferrare i capelli di Edward Cullen che, contro ogni pronostico, era ancora vivo, in piedi e accanto a me, pronto a farsi mettere sotto dal furgoncino, con l'espressione più determinata che avessi mai visto sulla faccia di qualcuno che stava sfidando un automezzo a beccarlo in pieno.
«Buttati!» Urlai, ma prima ancora che potessi finire la parola strattonai per i capelli lo strano ragazzo e ci ritrovammo a terra. Il furgoncino, sbattendo contro un'altra macchina, finalmente si fermò.
Ansimavo fortissimo, mentre Edward tratteneva il respiro e mi fissava: non un filo di fiato usciva dalle sue labbra socchiuse, altrimenti avrebbe di certo creato nuvolette nell'aria gelida.
Per un interminabile istante il silenzio fu assoluto, poi iniziarono le urla. In quel pandemonio, sentivo gridare il mio nome dappertutto. Ma nitida, in mezzo al frastuono, vicina al mio orecchio, sentii la voce di Edward Cullen
«Bella, tutto a posto?».
Lo guardai negli occhi. Erano bellissimi, come oro fuso, ma non mi avrebbero impedito di dirgli quello che pensavo.
«Razza di deficiente!» Strillai «Potevi morire! Se non ti avessi tirato indietro saresti finito sotto! Ma che bisogno c'era di mettersi in mezzo?! Guarda che non sei fatto di metallo! Saresti morto!».
La mia voce suonava ridicola, di parecchie ottave più alta del normale, come se stessi per mettermi a piangere, anche se non ne avevo alcuna intenzione. I polmoni mi bruciavano e intorno alle mie narici e alle mie labbra si formavano nuvolette di condensa che mi facevano somigliare ad un piccolo drago scarmigliato.
«Attenta» Mi avvertì lui «Mi sai che hai preso una bella botta in testa».
In quel momento mi accorsi della dolorosa pulsazione sopra l'orecchio sinistro.
«Ahi» dissi, sorpresa.
«Come pensavo». Incredibilmente, sembrava che lui stesse trattenendo una risata.
Lo guardai, mortalmente seria, mentre mi massaggiavo la zona dolorante con pollice ed indice
«Come diavolo... hai fatto ad arrivare così in fretta?»
«Ero qui accanto a te, Bella» rispose lui, serio
«No, non lo eri. Eri là sotto» indicai il punto esatto in cui era «E poi eri qui» indicai il punto in cui lo avevo salvato «E se non fosse stato per me, saresti morto spiaccicato»
«Sono più duro di quanto pensi» rispose, con un sorrisetto.
Lo spintonai, bofonchiando «Deficiente, almeno ringrazia» e cercai di sedermi. Lui mi lasciò fare allontanandosi quanto poteva nell'angusto spazio fra l'auto e il furgone. Osservai la sua espressione preoccupata, innocente, e per l'ennesima volta fui disorientata dall'intensità dei suoi occhi dorati. Sembravano gli occhi di un cane da caccia e forse erano ugualmente teneri mentre mi scrutavano, cercando di capire quanto mi ero fatta male.
Infine ci trovarono, una folla di persone con le lacrime agli occhi, che urlavano verso di noi e si urlavano a vicenda in un gran caos che mi confondeva.
«Non muovetevi» Ci ingiunse qualcuno
«Tirate fuori Tyler dal furgone!» gridò qualcun altro.
Il movimento attorno a noi era frenetico. Cercai di alzarmi, ma la mano fredda di Edward mi tenne per una spalla e mi ricacciò giù
«Per adesso resta qui»
«Ma fa freddo!» mi lagnai. Fui sorpresa nel sentirlo sogghignare. Suonava sarcastico.
Mi arrabbiai e nonostante la botta e il freddo e lo shock scattai in piedi, divincolandomi dalla sua presa
«Senti, tu stavi laggiù. Eri accanto alla tua macchina».
Il suo volto si indurì «Invece no».
«Ti ho visto. Hai cercato di suicidarti buttandoti sotto il camioncino. Hai bisogno di aiuto».
Intorno a noi c'era il caos. Sentivo le voci più roche degli adulti giungere sul luogo dell'incidente e chiedere spiegazioni ad un paio di ragazzi che, volenterosi, gli fecero un resoconto dell'accaduto. Nonostante ciò, mi ostinai a non lasciare cadere il discorso: avevo ragione io e questo avrebbe potuto fare la differenza fra la sua vita e la sua morte. Edward forse era depresso e aveva cercato di farsi fuori in una vampata di gloria, fingendo che io avessi bisogno di aiuto, anche se non avevo idea di come avesse fatto ad arrivare in un tempo così breve. Era velocissimo? Come faceva?
«Invece no».
L'oro dei suoi occhi era fiammeggiante. «Per favore, Bella»
«Perché?».
«Fidati» Mi pregò lui, cercando di sopraffarmi con la sua voce dolce. Non potevo cedere.
Ora si sentivano anche le sirene.
«Prometti che mi spiegherai tutto, altrimenti ne parlerò con mio padre che ne parlerà con tuo padre»
«Promesso» concluse lui, esasperato
«E non fare l'esasperato» risposi io «Ti ho appena salvato la vita».
Ci vollero due infermieri e due insegnanti (Varner di trigonometria e Clapp di ginnastica) per spostare il furgoncino abbastanza da far passare le barelle fino a noi. Edward rifiutò con decisione di salirci, ma io allargai le braccia
«Ha preso una botta» dissi «Quando l'ho tirato indietro»
«Ho battuto solo con la spalla, tu con la testa» replicò lui, con aria da saputello
«Non è vero» scossi la testa «È molto confuso, ha preso un colpo più duro del mio».
Non era vero, ma non avevo intenzione di fare l'impressione della damina che si era fatta male sul luogo dell'incidente, non quando ero stata io a salvare le sue pallide chiappe.
Mi si avvicinarono per farmi indossare il collarino, ma io mi scansai
«Prima prendetevi cura di Edward, ve ne prego» li implorai «Non posso sopportare che non prestiate per prima le cure a lui»
«Sto bene» disse lui, stringendosi nelle spalle
«Beh, anch'io» lo imitai, stringendomi nelle spalle in modo identico al suo «O tutti e due o nessuno».
Uno degli infermieri, un uomo dalla pelle color corteccia di cedro, cercò di convincermi che era necessario indossare quel coso per evitare movimenti bruschi nel caso avessi subito traumi alle vertebre.
«Non ho subito traumi alle vertebre» Misi avanti le mani «Però posso dire che Edward invece si»
«Non è vero» disse scandalizzato il ragazzo «Non mentire»
«Guardate la sua faccia» lo puntai «È pallidissimo, terrorizzato, sotto shock. Il sangue deve essergli tutto affluito alla testa, ha delle occhiaie orribili».
Dovettero tutti ammettere che avevo ragione e cercarono di costringere lui, questa volta, a mettersi il collarino. Ah, gli piaceva fare il bello e dannato, eh? Peccato che sembrasse davvero malaticcio e che alla fine, per non dover litigare con gli infermieri e gli insegnanti, dovette farsi imbragare e caricare sull'ambulanza. Io mi sedetti davanti, al posto del passeggero, probabilmente solo perché ero la figlia dello sceriffo Cigna.
La situazione era pazzesca, in senso buono.
Prima che l'ambulanza partisse arrivò mio padre.
«Bella!» Urlò, preso dal panico, quando mi vide sull'ambulanza; per fortuna si tranquillizzò un poco quando vide che ero seduta e non sulla barella, dietro, con Edward.
«Sto benissimo, papà» Sospirai io «Niente di rotto».
Chiese conferma all'infermiere più vicino, che gli sorrise e disse
«La portiamo solo per un controllo. Quello che si è fatto male è il ragazzo che c'è dietro. Sua figlia gli ha salvato la vita, è stata davvero pronta. Dovrebbe essere fiero di lei».
Mio padre salì sull'ambulanza e mi strinse forte in un abbraccio. Eravamo entrambi un po' imbarazzati, ma le circostanze eroiche, dovevo concederglielo, meritavano un abbraccio. Stavo facendo quasi fatica a metabolizzarlo... ero un'eroina, avevo salvato la vita di un ragazzo. Era una grande responsabilità.
Vidi i fratelli di Edward che scrutavano la scena da lontano: alcuni sembravano infuriati, altri scuotevano il capo, ma nessuno di loro sembrava minimamente preoccupato per la salute del fratello. Erano strambi, ma non sapevo che fossero anche anaffettivi.
E poi c'era sempre la faccenda dell'Edward superveloce... che avesse dei veri superpoteri? O ero ammattita un po' a causa della botta in testa che avevo effettivamente preso, ma poi negato per fare un torto a Edward?
Per fortuna mi diedero del ghiaccio da applicare su un'eventuale botta in testa, così riuscii a fermare la crescita di un bernoccolo che altrimenti si sarebbe sollevato implacabile.
Ovviamente, l'ambulanza fu scortata dalla polizia durante il tragitto verso l'ospedale. Mentre scaricavano Edward mi dileguai oltre l'entrata dell'ospedale con le mie sole forze: ero certa che lui stesse digrignando i denti per la rabbia, ma gli avrei dimostrato di essere superiore alle semplici vendette allontanandomi senza godermelo.
Incontrai un'infermiera, che mi chiese senza troppi preamboli se ero la ragazza che aveva salvato Edward Cullen.
«Si» Dissi, annuendo contemporaneamente «Ma non è stato così grandioso come dicono. Ero solo lì e... niente, chiunque l'avrebbe fatto».
Mentivo. Mentivo mentivo mentivo: era stato effettivamente grandioso quando, con tutta la prontezza e la velocità che neanche pensavo di possedere avevo sfidato il ghiaccio scivoloso e afferrato Edward per la prima cosa che le mie dita avevano sfiorato (i suoi selvaggi, mai pettinati capelli) e lo avevano tirato indietro appena in tempo perché il furgoncino stridendo falciasse il ghiaccio nel punto in cui li si era trovato.
L'infermiera tracagnotta, che aveva capelli bruni e due grandi occhi color nocciola, mi misurò la pressione e la febbre, poi mi disse che ero a posto e che se volevo mi avrebbe accompagnata a vedere in che condizioni era il mio compagno di classe.
Camminammo nella lunga corsia del pronto soccorso, con tanti letti in fila separati da tendine color pastello.
Due infermieri sistemarono in un letto accanto a quello di Edward un ferito: riconobbi Tyler Crowley, del mio stesso corso di educazione civica, con una stretta fasciatura sporca di sangue che gli avvolgeva la testa. Stava cento volte peggio di me (che ero l'impettita eroina del giorno), ma mi fissava, ansioso.
«Bella, non sai quanto mi dispiace!»
«È tutto a posto, Tyler» lo rassicurai «Tu sembri davvero malridotto, invece. Sono così dispiaciuta che sia successo... le strade per ora sono un inferno, sarebbe capitato anche a me, se mio padre non avesse montato le catene alle ruote del mio pick-up».
Mentre parlavamo, un infermiere cominciò a sciogliergli il bendaggio, scoprendo una miriade di escoriazioni sulla fronte e sulla guancia sinistra.
«Ho avuto paura di ucciderti!» Disse lui, in tono lamentoso e spaventato «Andavo troppo veloce, e ho preso una lastra di ghiaccio...». Fece una smorfia di dolore quando l'infermiere iniziò a strofinargli la faccia con un batuffolo di cotone imbevuto di antisettico.
«Non preoccuparti, mi hai mancata»
«Come hai fatto a spostarti così in fretta? Ti ho visto e un istante dopo eri sparita...»
«Mi sono buttata» dissi «Lo so che sembra da pazzi, ma ho pensato a come... a come il mio gatto fa quando vuole saltare da una mensola all'altra. Ho usato anche le braccia per spingermi. Mi sono rannicchiata e poi... ho provato un po' a fare il gatto. Mi sono fatta male lo stesso, però sono viva» sorrisi, cercando di rassicurarlo «Piuttosto, non hai avuto paura di mettere sotto Cullen?»
«Cullen? Non l'ho visto... Dio, forse perché è successo tutto talmente in fretta. Lui sta bene?»
«Penso di si, anche se lo hanno portato qui in barella. L'ho tirato via prima che potesse finire sotto».
Tyler spalancò gli occhi, incredulo e ammirato
«L'hai salvato? Tu?»
«Davanti a tutta la scolaresca» ammisi «E credo che me ne vanterò per i prossimi duecento o trecento anni».
Edward, nel letto accanto, sbuffò. Apparentemente, Tyler era così fuori di sé per la paura da non aver neanche notato che Cullen era sdraiato nel lettino più vicino al suo, con le tendine alzate.
«C-Cullen?» Balbettò Tyler «S-scusa...»
«Non fa niente» rispose Edward, in tono finto-umile «Non mi sono fatto niente»
«Solo perché ti ho salvato» dissi, agitando l'indice verso di lui
«Oh chiedo perdono... chiedo perdono» si intromise di nuovo Tyler «Davvero, sono stato un idiota a correre in quel modo con il ghiaccio, io non dovevo, io ero...».
Fummo assillati dalle scuse di Tyler, nonché da un ingente numero di promesse di risarcimento. Non c'era verso: malgrado i nostri continui tentativi di convincerlo che stavo bene, lui si tormentava da solo. Alla fine, quando iniziammo ad ignorarlo, i suoi borbottii si affievolirono.
Edward si mise a sedere sul bordo del letto. Non portava il collarino, doveva esserselo tolto arbitrariamente non appena le infermiere lo avevano mollato un attimo. Com'era orgoglioso! Al limite dell'idiozia.
Mi guardò con un sorriso furbesco, tirando un po' indietro il collo, come una papera. Era così bello, mi chiesi come facesse ad essere anche così stupido e antipatico.
«Allora, qual'è il verdetto?» Chiese
«Non mi sono fatta un graffio» risposi «Ma non sono ancora pronta per tornare a casa. Non finché non saprò come stai tu»
«Ah, ti preoccupi per me?»
«Ovviamente. Molti esseri umani provano una cosa chiamata "empatia"» gli spiegai «Che gli permette di immedesimarsi nelle altre persone e molto spesso nel desiderare che queste non soffrano. Anche io, non essendo per nulla psicopatica, ho questa cosa che si chiama "empatia" di cui di sicuro non hai mai sentito parlare e...».
Volevo fargli una ramanzina, ma d'improvviso sbucò fuori, come dal nulla, un dottore. Rimasi a bocca aperta. Prima, durante l'incidente, non avevo visto certamente il mondo al rallentatore, ma mentre questo medico camminava lentamente verso di me, con il lungo camice bianco che svolazzava intorno alle sue cosce, ebbi un'improvvisa impressione di dilatazione temporale. Non avrei potuto mai più prendere in giro papà perché diceva che il dottor Cullen era bello, non avrei potuto prenderlo in giro neanche se fosse stato il suo amante segreto, accidenti!
Perché quello lì non poteva essere nessun altro che il bellissimo, fighissimo, incredibilissimo dottor Carlisle Cullen.
Era giovane, biondo, con i capelli pettinati all'indietro, e il suo pallore unito all'oro dei suoi capelli lo faceva sembrare una statua antica e splendente che ritraeva una qualche divinità. La sua faccia, mascolina e liscissima, aveva bei tratti regolari, con il naso dritto e le labbra mediamente piene, atteggiate ad un sorrisetto compassionevole e dolce. Aveva occhiaie marcate e l'aria stanca, due caratteristiche che su chiunque altro (compreso il suo figliuolo adottivo) sarebbero stati punti di demerito, ma a lui davano un'aria più vissuta, forte e gentile, da infaticabile lavoratore. Un maschio con la M grande. Un Maschio.
«E allora, signorina Swan» Disse il dottor Maschio, con un tono di voce decisamente attraente, come di sabbia bagnata al vento «Come stiamo?»
«Bene» risposi soltanto, battendo le palpebre.
Accese il pannello luminoso sul muro sopra la mia testa, osservando alcune radiografie.
«Sono di Edward?» Chiesi
«No» rispose lui, scuotendo la testa «Edward sta benissimo, per fortuna, e fra poco sarà libero di andare»
«Ah»
«Ti fa male la testa? Edward dice che hai preso un brutto colpo»
«Sto bene» dissi, di nuovo, lanciando un'occhiataccia verso Edward, che sogghignò.
Le dita fredde del dottore mi massaggiarono piano il cranio. Io sobbalzai, poi mi sciolsi. Lui se ne accorse
«Sensibile?» chiese
«No, davvero».
Avrei voluto urlare "ancora!" quando le mani del dottore si ritrassero dalla mia testa. Avevo un debole per i massaggi alla testa, specie se a farmeli era un dottore simpatico, gentile, che nel tempo libero sopportava i capricci di Edward Cullen e che era bello come un divo holliwoodiano.
«Bene, tuo padre è in sala d'attesa, puoi farti riaccompagnare a casa. Se hai capogiri o problemi di vista, però, torna subito»
«Posso andare a scuola?» chiesi, tanto per esserne sicura
«Forse per oggi dovresti stare tranquilla».
Feci un cenno verso Edward
«Lui, invece, che fa, può tornare?»
«Qualcuno dovrà pur diffondere la notizia che siamo sopravvissuti, no?» rispose il ragazzo, compiaciuto
«A dir la verità» lo corresse il dottor Cullen «Sembra che metà istituto sia in sala d'attesa. E che metà istituto sappia che tu hai salvato la vita di mio figlio».
Il sorriso di Edward scomparve come un polaretto su un marciapiede con quaranta gradi all'ombra. Oh no! Era uno di quei figli di papà che non vogliono far sapere a nessuno che una ragazza gli ha salvato le chiappette!
«Grazie» Disse il dottor Cullen, allungandomi una mano «Tengo molto a mio figlio. Ti sono molto grato»
«Carlisle...» disse Edward, con un tono metà supplicante e metà di minaccia.
Strinsi la mano del dottor Cullen, molto fiera di me
«Sono contenta di aver salvato suo figlio. Ad ogni modo, forse, si sarebbe salvato da solo se non ci fossi stata io ad occupare lo spazio dietro di lui» dissi, anche se non era vero: Edward sarebbe stato marmellata.
Cercai di uscire molto allegramente e sbarazzinamente dalla stanza, ma inciampai nel piede del letto di Edward e il dottor Cullen mi afferrò proprio un istante prima che il mio naso si spiaccicasse contro le piastrelle.
«Sto bene» Dissi, quando mi guardò preoccupato.
Era inutile informarlo che i miei problemi di equilibrio non avevano nulla a che fare con la botta in testa.
«Prendi dell'aspirina contro il dolore» Suggerì, mentre mi aiutava ad alzarmi
«Non fa così male. Non prendo farmaci a caso, mi scusi, dottore».
Il suo buonumore non parve scalfito
«A quanto pare sei stata davvero molto fortunata» disse, mentre firmava le mie carte con uno svolazzo.
Oh, le carte! Quasi quasi me le scordavo lì. Odiavo dover aspettare che qualcuno mi firmasse le carte prima di uscire da un qualunque posto.
Quando ebbe finito, il dottore si concentrò su Tyler, avvicinandosi al suo letto.
«Purtroppo, tu dovrai restare qui un po' più a lungo» Mormorò, facendo trasalire il ragazzo. Era chiaro che a lui, la bellezza di mister universo biondo faceva ancora più effetto che a me.
Appena Carlisle Cullen ebbe girato le spalle, mi accostai ad Edward, che si alzò in piedi con uno scatto elegante e fulmineo
«Hai un minuto? Ho bisogno di parlarti».
Lui fece un passo indietro, irrigidendo il volto come al solito. Lo faceva sempre: ogni volta che dicevo una cosa che non gli andava anche solo lontanissimamente a genio, la sua faccia diventava un pezzo di granito vagamente disgustato.
«Tuo padre ti aspetta» Disse tra i denti.
Io lanciai uno sguardo verso il dottor Cullen e Tyler.
«Vorrei parlare con te, da soli, se non è un problema» Incalzai. Non mi sarei lasciata abbindolare dai suoi ridicoli, assolutamente inefficaci, infantili metodi di manipolazione.
Allargò le braccia, poi mi voltò le spalle e si diresse con lunghe falcate dall'altra parte dello stanzone. Quasi mi toccava correre per tenere il suo passo, visto che stava praticamente scappando. Non appena girammo l'angolo che dava su un breve corridoio, si volse verso di me.
«Cosa vuoi?» chiese, con tono irritato. Lo sguardo era freddo.
Quell'aria ostile mi intimidiva, mio malgrado, perciò parlai con un po' meno decisione di quanto desiderassi
«Mi devi una spiegazione» gli ricordai «E non questa irritazione a caso da ragazzino bipolare»
«Io non ti devo proprio niente».
Arretrai davanti al risentimento che trapelava dalla sua voce
«L'hai promesso»
«Bella, hai battuto la testa, non sai quello che dici». Mi stava provocando.
A quel punto persi le staffe, gli lanciai un'occhiata spavalda e ringhiai
«La mia testa non ha un graffio. In compenso c'è qualcosa che non va nella tua. Secondo me sei depresso. O depresso e bipolare. Ed è terribile, ma hai bisogno di aiuto, aiuto vero. Se non mi spiegherai come stanno le cose, dirò a tutta la scuola che sei depresso»
«Cosa?!» fece lui, infuriato
«Esatto. E lo sai che mi ascoltano. Tutti mi ascoltano. Invece nessuno ascolta te»
«Io non sono depresso!»
«Non dirlo come se ti avessi insultato, razza di psicopatico. Voglio aiutarti»
«Non mi aiuti così!»
«Si che ti aiuto. O come minimo aiuto me stessa. Dammi la spiegazione che mi devi oppure tutti saranno carini e gentili con te tutti i giorni perché dirò a tutti che sei davvero molto malato, d'accordo?».
Lui indietreggiò al posto mio, questa volta, e mi lanciò un'occhiataccia
«Cosa vuoi da me, Bella?»
«Voglio la verità. Voglio sapere perché ti sto coprendo»
«Secondo te cos'è successo?» sbottò lui.
Non riuscii a trattenermi.
«Quello che so è che eri tutt'altro che vicino a me. Neanche Tyler ti ha visto, perciò non dirmi che ho battuto la testa. Ho una scolaresca a supportare la versione del mio gesto eroico. Eri lontanissimo e poi d'un tratto eri accanto a me... eri arrivato lì, ti ci eri fiondato, come se volessi morire. Ma l'hai fatto troppo velocemente, non ho mai visto niente del genere, io...».
Ero infuriata, talmente tanto che ero sul punto di piangere; serrai i denti per lo sforzo di trattenere le lacrime. Si, sono una buffoncella emotiva, ma non volevo che quel poveraccio provasse a farsi fuori così, volevo aiutarlo, io volevo...
Lui mi fissava, incredulo e rigido. Stava sulla difensiva.
«Pensi che io sia venuto fin lì per uccidermi?» Il suo tono di voce voleva mettere in dubbio che fossi sana di mente, ma non fece altro che insospettirmi di più. Sembrava una battuta recitata alla perfezione da un attore esperto.
Mi limitai ad annuire, a denti stretti.
«Non ci crederà nessuno, lo sai» Adesso pareva che volesse deridermi
«Vuoi mettermi alla prova?» lo stuzzicai, stringendo ancora i denti fra una parola e l'altra «Lo vuoi, vero?».
Lui parve spaventato. Spaventato e scioccato insieme, ma cercava di nasconderlo pessimamente. Altro che grande attore...
«Non lo dirò a nessuno» Controllai la rabbia e pronunciai ogni parola lentamente.
Lui parve più sorpreso, ma anche più tranquillo.
«E allora, che importa?»
«Importa a me» insistetti «Non lo dirò a nessuno, a patto che mi darai la risposta che merito. Non mi piace mentire; perciò, se lo faccio, deve esserci un buon motivo»
«Non puoi limitarti a lasciar perdere?»
«Non puoi limitarti a ringraziarmi e dirmi perché mai ho dovuto salvarti?».
Non mi davo per vinta: aspettavo, infuriata e impaziente.
«Immagino che tu non intenda lasciar perdere» Disse lui
«No»
«In tal caso... spero che tu sopporti di buon grado la delusione».
Ci guardavamo in cagnesco, muti. Parlai per prima, sforzandomi di mantenere la concentrazione.
«Perché?» Dissi semplicemente, con grande freddezza.
Lui esitò e per un istante su quel volto meraviglioso vidi un'inattesa vulnerabilità.
«Non lo so» Disse, a mezza voce.
Poi mi voltò le spalle e se ne andò.
Ero talmente arrabbiata che per qualche minuto non riuscii a muovermi.

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 aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente dal sito, continuate a leggere la storia da qui

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