sabato 20 maggio 2017

Quella giostra laggiù

Oggi vi proponiamo un racconto, facente parte del Cammino delle Leggende, che abbiamo scritto nel 2013 per un contest di ArteScritta, con il tema "dalle immagini alle parole", in cui dovevamo scrivere un racconto ispirandoci a questa immagine:


Ecco cosa ne è nato:

Quella giostra laggiù

«Vedi quella giostra laggiù?» Chiese Francesca, indicando una struttura lontana, che si ergeva in mezzo al cemento come una sorta di statua, un monolito in movimento con lucine disposte a file.
Il ragazzino, capelli neri sistemati con il gel e tredici anni di “scavezzacollagine” pura, annuì, gli occhi stretti in due fessure
«Si, certo» rispose, stringendosi un po' nelle spalle «Che cosa devo fare?».
Tutto era iniziato quando lei gli aveva generosamente sganciato trenta euro.
Il ragazzo l'aveva vista avvicinarsi, una giovane donna con i capelli castani tagliati corti, un po' spettinati, e aveva pensato che era strana, un sentimento che si era accresciuto quando lei gli aveva domandato di salire su un'attrazione, su una giostra, sotto il compenso di trenta euro in contanti e in anticipo, a patto di non fare domande sul perché lei glielo stesse chiedendo.
Ovviamente lui aveva accettato e lei aveva preso a spiegargli...
«Beh, quello che devi fare è facile: trova un compagno che ti aiuti e arraffa il premio sulla giostra. Poi portalo a me. Se riesci ad arraffarlo, beh, avrai altri dieci euro».
Sembrava facile ed è sempre meglio raccogliere le sfide facili. Il ragazzo annuì
«Ho un amico. Le prendiamo il premio, signorina» disse, gonfiando il petto
«Bene. Come ti chiami?»
«Francesco»
«Incredibile quanti “Franceschi” riesco ad incontrare... anche mio fratello si chiama così. Anche io mi chiamo Francesca».
Il ragazzino pensò che era davvero strano che la donna e suo fratello avessero lo stesso nome. Stava mentendo, doveva essere per forza così. Però era meglio non fare domande, se qualcuno ti sganciava dei soldi in cambio di un lavoretto facile, così si allontanò e raggiunse il suo amico Giuseppe, un ragazzetto smilzo, biondo, ricciolino.
«Ohè, Ciccio, che voleva quella?»
«Mi ha dato trenta euro» rispose euforico Francesco, sollevando le banconote e infilandosele poi subito dopo in tasca, come per proteggere il suo tesoro «Darà dieci euro anche a te se riusciamo a portarle il premio del calcinculo»
«Fai sul serio?»
«Non dovresti chiederlo a me, ma a quella lì. Comunque a me li ha dati...»
«Mizzica, andiamo, no?»
«Però ce la dobbiamo fare»
«E che ci vuole? Quella lì ha occhio... noi glielo prendiamo sicuro, quel coso»
«Lo so» Francesco prese a camminare verso la cabina del bigliettaio «Glielo prendiamo sicuro e ci guadagniamo pure»
«Secondo te, perché lo vuole?»
«Boh»
«E non ti interessa neanche un poco?»
«Mia sorella dice che la curiosità è per le femmine» rispose seccamente Francesco «Noi ragazzi, dai, pensiamo a fare la grana»
«Non credo che tua sorella abbia ragione...» iniziò a dire Giuseppe, ma ammutolì quando si ritrovarono di fronte alla cabina del bigliettaio, quel parallelepipedo che era l'unico ostacolo fra una qualunque giostra e un qualunque bambino.
La cabina era una struttura di legno e metallo, verniciata di rosso brillante e decorata sulle fiancate con disegni di pupazzetti che ricordavano solo vagamente quelli di cartoni animati esistenti, sempre ammesso che un pikachu possa essere verde o che esistesse un qualche robot bicefalo giallo e blu in una qualunque serie per bambini.
Il bigliettaio se ne stava con un gomito appoggiato al ripiano della cabina e il mento sul palmo della mano, osservando verso il basso con aria vagamente interessata. Aveva un po' di baffi, la barba, i capelli lunghissimi, neri come catrame, ricci, e strani occhi penetranti, di un colore che, pensò Francesco, doveva essere una sfumatura di castano così chiara da sembrare rossa nello strano gioco di luce riflessa dentro il gabbiotto.
«Quanti biglietti?» Domandò l'uomo, con voce divertita e vibrante
«Due» rispose il ragazzo, alzando due dita e porgendo contemporaneamente con l'altra mano venti euro.
L'uomo con i capelli lunghi non prese i soldi, ma spinse due biglietti rosa, decorati con un semplice rettangolo nero e qualche parola, verso i ragazzini
«Buona fortuna» sibilò, ingobbendosi un pò.
Francesco prese quello che gli veniva dato e poi mise ancora avanti la banconota. Il bigliettaio scosse la testa
«Pagherete dopo» disse, e sembrò sottintendere qualcosa, marcando il tono sulla parola “dopo”.
I due ragazzi si diressero alla giostra, un'installazione composta da un grosso corpo centrale, bianco e brillante come se fosse smaltato, e decorato nella parte più alta da quattro file di luci di colori diverse. Intorno al corpo centrale pendevano seggiolini colorati di rosso, blu, nero e giallo.
Non era una bella giostra, pensava Giuseppe, era solo una “cosona brutta”, mascherata da cosa allegra perchè aveva appena qualche luce e seggiolini colorati, ma non c'erano statue, né pupazzi, né decori. Era orribile.
Per Francesco, invece, la giostra era qualcosa di molto grazioso, di molto semplice, e soprattutto di divertente: era una sorta di tradizione, per lui e i suoi amici, cercare di catturare la roba che appendevano in cima alla giostra e si erano allenati duramente per avere quasi il cento percento delle probabilità di farcela.
C'era un tizio impomatato, panciuto, che controllava che tutti i bambini avessero in mano un biglietto. Per fortuna, Francesco e Giuseppe non avevano problemi: salirono, si sistemarono per bene con le gambe infilate sotto la sbarra d'acciaio dei seggiolini, e la giostra cominciò a girare. Girava troppo lentamente, pensarono, era una di quelle giostrine da quattro soldi per poppanti.
Poi il movimento accelerò, in modo quasi improvviso. I seggiolini cominciarono, per effetto della forza centrifuga, ad essere un po' più inclinati, spinti verso l'esterno.
Francesco alzò lo sguardo e lo vide, mentre passava rapidamente sotto di esso: il premio era un pupazzetto veramente orribile, tutto bianco e con una testona rotonda decorata da due bottoni blu che dovevano essere gli occhi e da un ciuffetto rudimentale di peli rossastri che somigliavano solo vagamente a dei capelli. Il pupazzetto era completamente nudo e né piedi né mani avevano dita, ma c'era una specie di pietra incastonata nella sua pancia.
Giuseppe parlò rapidamente
«Allora, quando sei pronto io vado...»
«Vai!» strillò Francesco, appena, durante il terzo giro, iniziarono ad avvicinarsi al pupazzo.
Le gambette di Giuseppe scattarono come due molle, colpendo la parte inferiore del seggiolino di Francesco e facendolo schizzare in aria, con le braccia protese, tutto il corpo proteso, nella sensazione di volare per un istante. Nel corpo di un ragazzino, quella era libertà pura, un istante dilatato nel tempo, un'ascesa come quella di un uccello, altissima, che sarebbe stata seguita da una caduta vertiginosa.
Se si fosse sporto un altro po', Francesco sarebbe sgusciato via dalla sbarra e avrebbe rischiato di essere catapultato fuori dal seggiolino, ma non fu così perchè le sue dita raggiunsero il brutto pupazzo bianco prima che accadesse l'irreparabile.
Con una velocità che avrebbe fatto salire il cuore in gola a chi non fosse stato abituato, il seggiolino ricadde e continuò a girare, sempre più rapidamente.
«Ce l'ho fatta!» Gridò Francesco, mostrando il premio al ragazzo dietro di lui, che sollevò entrambi i pollici in un gesto di apprezzamento, senza però dire nulla.
Quando entrambi scesero, l'uomo impomatato e panciuto disse loro che avevano vinto un altro giro, ma i bambini declinarono gentilmente l'offerta: loro non erano lì per il divertimento, ma per i soldi, che poi erano la loro personale idea di divertimento.
Francesco individuò subito la ragazza dai capelli corti in mezzo alla folla, perchè lei lo stava fissando e se ne stava lì, con le braccia incrociate e le gambe un po' divaricate. Forse era un po' folle, o forse era solo molto ricca, ma a lui non importava granchè, adesso.
«Eccolo qui» Disse, avvicinandosi a passi lunghi per quanto lo permettevano le sue corte gambette di preadolescente «Preso il pupazzo. E ora, signora, cioè, avevate detto che...»
«Dieci euro» lo precedette Francesca, tirando fuori il portafoglio da una tasca «Lo so. Ringrazia anche il tuo amico da parte mia».
Prima di darle il regalo, scambiandolo per la banconota, il ragazzino esitò per un istante per osservarlo meglio. La pietra che spuntava come una sorta di grottesco ombelico dalla pancia bianca del giocattolo era di colore blu, levigata, e sembrava vagamente luminosa. Forse, anzi probabilmente, aveva un qualche tipo di valore monetario, ma Francesco non era una persona che si tirava indietro dopo aver fatto un patto, così consegnò il pupazzo alla giovane donna.
Francesca lo prese senza affrettarsi, neanche lo guardò, come se non fosse importante.
«Buona giornata» Disse, facendo un cenno ai due bambini e allontanandosi poi in mezzo alla folla di gente senza voltarsi neppure una volta indietrò.
«Però» Commentò soltanto Giuseppe, sfregandosi un ginocchio che gli prudeva «Ce li ha dati davvero»
«Si»
«Si. Si e basta?»
«Si e basta» borbottò Francesco.
Gli sembrava tutto molto strano, ma voleva toglierselo dalla testa. Aveva la strana impressione di aver appena venduto uno zaffiro per trenta euro e una corsa gratis ad un calcinculo, il che non era esattamente quello che si può definire un grande affare, ma era certo meglio di niente.
«Ahò, a che pensi?» Gli domandò Giuseppe, prendendolo per il gomito
«Niente, niente»
«Andiamo a comprarci il gelato?»
«Non lo voglio, il gelato. Voglio cose da masticare»
«Ti prendi qualche pasta...»
«Non le voglio, le paste» sbottò Francesco «Voglio l'hot dog o la pizza»
«Che pizza e pizza? Si schiatta di caldo, muori con la pizza»
«E voglio morire, ma voglio la pizza»
«Vabbè, quando sei morto poi non ti lamentare da me, che sennò ti riammazzo, giuro».
I due iniziarono a ridere, poi si diressero verso il più vicino bar, ma furono fermati da un uomo, anzi, per essere più precisi, l'uomo che aveva regalato loro i biglietti.
«Bambini» Disse, avvicinandosi con un passo lungo e rapido, un sorriso ampio e brillante sotto i baffoni neri «Bambini...».
Francesco ricordò cosa aveva detto quell'uomo: “pagherete dopo”. O qualcosa del genere. Perciò ora voleva i suoi soldi, ma no, non poteva volerli, perchè loro avevano comunque vinto un giro gratis...
«Si, signore?» Domandò Giuseppe, parlando prima che Francesco avesse anche solo tempo di pensare che cosa rispondere
«Dov'è il pupazzo che avete preso?»
«Lo abbiamo dato ad una signorina che ce l'aveva chiesto. Ce lo ha pagato»
«E così lo avete dato via...» il sorriso di quell'uomo si fece in qualche modo pericoloso, si strinse appena, ma divenne più duro
«Si, signore»
«Non avreste dovuto. Non si vendono i propri premi»
«Senza offesa, ma era solo uno stupido pupazzo, signore»
«E ora dovrò trovare un modo per contendermi quello stupido pupazzo con lei. Certo, le ho promesso di giocare pulito, bambini, e ho giocato pulito: non ho interferito in nessun modo con la sfida. Vi ho persino aiutati. E avete vinto la sfida. Lei ha vinto la sfida. Ma ho promesso a lei, non a voi, di non interferire. E ora sono arrabbiato»
«Non capisco cosa intende, signore...»
«Intendo che voi avete preso qualcosa di mio, ma che ci sono delle regole e non potevo impedirvelo. Ma ora sono terribilmente arrabbiato con voi»
«Beh, signore, senza offesa di nuovo, però, sa, lei non ci aveva detto niente di tutto questo»
«Non mi interessa. Volete porre rimedio a quello che avete fatto?»
«Si, certo»
«No» disse Francesco, stringendo i denti «No, signore. Non abbiamo fatto nulla di male e non si deve immischiare. Lei non ci ha detto niente, non sapevamo niente, perciò abbiamo fatto tutto in regola»
«La legge non ammette ignoranza, bambino» il tono duro dell'uomo colpì il ragazzo come un pugno, facendogli letteralmente male, una scarica di dolore che partì dalle sue orecchie ed arrivò fino ai gomiti, intenso.
Francesco tremò, me non disse nulla, non si lamentò. Drizzò la schiena, sentì l'adrenalina scorrergli nelle vene, si voltò e fuggì, correndo più veloce possibile sulle sue corte gambe di tredicenne per allontanarsi da quell'uomo pazzo che voleva qualcosa da lui. Sentì alle sue spalle uno scalpiccio rapido e leggero e seppe che Giuseppe lo stava seguendo.
I due corsero finchè non si furono allontanati dal centro della città, nei pressi di una fontana alla quel potessero bere, stanchi.
«Chi cazzo era quello?» Domandò Giuseppe, aggrappato al tubo dell'acqua «Mi ha spaventato, ti giuro, mi ha spaventato»
«Boh» rispose Francesco, sedendosi per terra «Quello dei biglietti. Io non lo conosco, mai visto prima. Me la ricorderei quella faccia»
«Sembrava un drogato, aveva la parte sotto gli occhi scura e poi gli occhi rossi e i capelli lunghi...»
«L'ho visto pure io»
«Non dovrebbero fare lavorare quelli come lui»
«Bah»
«Era disgustoso. Puzzava come... come un pezzo di carne... come una cosa morta».
Di questo, Francesco non se n'era accorto, pensava che fosse qualcosa nell'aria, il negozio del macellaio, l'odore pesante della frittura delle bancarelle, qualcos'altro. Un uomo doveva essere davvero poco curato per avere quell'odore.
«Sono disgustoso?» Domandò una voce profonda, divertita.
Francesco e Giuseppe spalancarono gli occhi, scattando in piedi. L'uomo era comparso letteralmente dal nulla, si era tolto la giacca con un solo gesto fluido e ora ne mostrava l'interno, ricoperto di coltelli assicurati con legacci di differenti materiali e fibbie metalliche.
«Cosa volete?» piagnucolò Giuseppe «Faremo quello che volete... qualunque cosa...»
«Qualunque cosa?» il bigliettaio sorrise, piegando un po' la testa e infilandosi di nuovo la giacca, come se non fosse successo niente «Davvero qualunque?»
«Si, signore, si!»
«Bene» Vlad si tolse un paio di coltelli dalla giacca «Dovete uccidere un uomo per me»
«Uccidere un uomo?» Domandò Francesco, scioccato da quella richiesta «Perché non lo fa lei?»
«Guardami? Ti sembro uno che ucciderebbe un uomo?»
«Si, signore» rispose il ragazzino moro, senza pensarci
«Bene. Hai intuito, bambino. Ma come ho detto, ci sono delle regole e io non posso uccidere quest'uomo»
«Sta mentendo»
«Cosa?»
«Ho detto che sta mentendo. Sta dicendo una bugia, signore»
«Non mi piace che mi si dia del bugiardo» scattò il bigliettaio, sollevando il labbro superiore in una smorfia che mostrò i canini
«Che fai, Francesco?» piagnucolò Giuseppe, afferrando un braccio del suo compagno di giochi
«Che faccio?» ringhiò il moretto, socchiudendo gli occhi «Faccio quello che devo fare»
«Ti ucciderò, ragazzo. Ti ucciderò, lo sai questo, vero?»
«Si, signore. Lo so, signore».
Giuseppe, impietrito e con la bocca aperta, lasciò andare il braccio di Francesco. Non capiva, semplicemente non riusciva a concepire, che quello che stava succedendo fosse reale.
«Ma non ho colpe, signore» Disse il ragazzetto moro, avanzando di un passo «Ucciderete un innocente»
«Lo so» disse il bigliettaio, annuendo solennemente
«Aspettate! Fermo! Chiamerò la polizia!» urlò Giuseppe, pronto a voltarsi per scappare.
Quello che Francesco sentì fu un ringhio animalesco, che somigliava al ruggito di una tigre, ma affievolito, poi qualcosa gli schizzò la faccia. Con mano tremante, si toccò una guancia.
"Oh Mio Dio. Oh."
Le dita che si portò di fronte agli occhi erano arrossate sui polpastrelli, scarlatte di sangue.
Francesco non voleva guardare, non voleva sapere in quanti pezzi era stato spaccato il suo amico che, al contrario di lui, non sapeva di stare per morire. Una paura cieca, infinita, impossibile, gli divorò il cuore. Il bigliettaio, con i suoi occhi del colore delle fiamme morenti, si abbassò a guardarlo negli occhi. Aveva la faccia, il mento e la bocca, sporchi di sangue, sorrideva.
«Ucciderai per me?» Domandò.
Francesco non aveva altra scelta. Annuì lentamente, tremando. Poi svenne, cadendo fra le braccia già tese del mostro.
Il bigliettaio si erse in tutta la sua statura, non molta a dire il vero, e si avviò verso una zona d'ombra: odiava quel maledetto sole che gli bruciava la pelle. Non era più facile come un tempo essere un vampiro e trovare i propri seguaci, ma per lui... beh, lui era diverso. Un tempo, però, i bambini erano diversi. Ora erano diventati dei mostri peggiori di lui, solo con il tempo riuscivano a redimersi, diventando adulti sopprimevano il loro istinto, la loro propensione ad arraffare, a rubare, fare del male, uccidere.
«No» Disse qualcuno alle spalle del bigliettaio, una voce maschile da tenore «Lascia andare il bambino. Lo sai che vuoi me, non lui».
Il vampiro tirò su aria con il naso, anche se respirare non gli serviva a nulla, era solo un gesto umano, un gesto che lo calmava. Non si girò, parlò piano
«Voglio lui. Lo voglio nelle mie schiere, è... grazioso... non ho dei bambini nelle mie schiere da almeno un centinaio di anni»
«Hai sparpagliato l'altro ovunque, è disgustoso. Lo ritroveranno. Ti daranno la caccia»
«Non ho paura. Non ho mai paura. E non mi importa che sia disgustoso»
«Stai mentendo»
«Tu lo sai, vero. Sei un esperto di “persone che stanno mentendo”»
«Non mi sembra il momento» la voce dell'uomo sconosciuto si alzò di un paio di toni, divenne quasi isterica
«A me sembra il momento, invece. Questo è il momento giusto»
«Perchè non mi guardi in faccia?»
«Non mi piace, la tua faccia. E a te non piace la mia. Perchè dovrei voltarmi e guardarla? Perchè dovrei costringerti a vedere la mia, la mia faccia da assassino?».
Parve per un paio di istanti che l'altro uomo non avesse idea di cosa dire, di come rispondere. Ma rispose, lo fece a bassa voce, lo fece con rabbia, con intensità
«Come potrei odiarti, se non vedessi la tua faccia da assassino?».
Il vampiro sorrise, le sue guance si allargarono piano, i denti robusti in mostra. Poi il sorriso si richiuse, di colpo.
«Vuoi vedermi, vuoi odiarmi. Vuoi assaporare la tua rabbia di piccolo uomo tradito»
«Hai preso la mia vita» sussurrò l'altro
«Si, l'ho fatto. Ho preso la tua vita un lavoro dopo l'altro, ti ho allontanato gli amici, il denaro, l'amore»
«Perché?»
«Perché sei insignificante. Ecco perchè non mi giro a guardare la tua faccia. Questa è la verità: sei insignificante. Sei inutile per questo mondo, molti sono come te, non sei solo. Sei bestiame, io sono il tuo predatore. Ma non voglio ucciderti, perchè non ho fame e perchè so che sei insipido. Quelli come te lo sono sempre. Insipidi»
«Vorresti farmi piangere?»
«Si. Vorrei sentirti piangere»
«Metti giù quel bambino. Sei solo un pazzo. Uccidi me, lascia stare lui. So che sei frustrato, anche se non so per cosa»
«La tua voce è patetica» constatò il vampiro, divertito, irrigidendo un po' i muscoli delle spalle  
«Metti giù quel bambino»
«E so che prima o poi ti metterai a piangere»
«Mettilo giù. Lascialo per terra e vattene»
«So che cosa sei, so tutto di te, tutto della tua vita...»
«Quello è solo un bambino, lascialo stare e va via, non voltarti indietro»
«...Conosco ogni patetico lavoro che hai fatto, ogni ufficio sulle cui scrivanie pulite hai messo carte compilate, firmate, timbrate, ogni stupido mobile ikea che hai montato, ogni valigetta piena di esempi dimostrativi che hai trasportato di casa in casa. Impiegato, rappresentante, commesso. Conosco ogni patetico lavoretto che hai fatto»
«E allora, se sono così patetico, perchè proprio io?»
«Perchè avevi quel posto da bigliettaio che io volevo. Ecco perchè»
«No. Non è così. Tu hai preso tutti i miei lavori. Tutti. Arrivavi tu, splendido, eccentrico, con il tuo sguardo magnetico. Prendevi il mio posto. Mi hai distrutto la vita»
«Lo so. Ma è stato solo... solo il caso. Per qualche strano motivo, tu eri ovunque io volessi essere, avevi tutti i lavori che a me servivano ed eri abbastanza patetico da poter essere scacciato»
«Guardami in faccia, quando mi parli!»
«Sputi parole come una ragazzina ferita»
«Sei un mostro»
«Lo so. Amo esserlo, lo amo moltissimo»
«Che cosa vuoi in cambio della vita del bambino?».
Il vampiro si girò a guardare in faccia l'altro uomo. Era un ometto basso, normale, con una camicia abbottonata fino all'ultimo bottone, il collo coperto, pantaloni a vita alta e cintura di pelle bruna, occhiali rotondi da miope, inforcati su un naso appuntito. Capelli anni cinquanta, castani, quelli ben pettinati con la riga da un lato. Occhi lucidi. Pugni stretti. Una pistola sollevata verso di lui.
«Non puoi uccidermi con quella»
«Lo so. Non avrei aspettato, altrimenti»
«Giusto. Niente esitazione, colletto bianco».
Un proiettile colpì il vampiro nel mezzo della testa, il sangue colò lentamente, molto lentamente, a bagnare le sue sopracciglia nere come carbone. Il ferito sorrise, ignorando completamente il foro che aveva al centro della fronte
«Che bello, vero? Molto bello» mormorò «Il sangue è come rubino liquido...»
«Cosa vuoi, per lasciare libero il bambino?»
«Hai una sola possibilità. Una, non te ne do di più. Sai, è perchè mi piace giocare, come quel tale... Saw l'enigmista... Sono il tuo Jigsaw. Devi prendere il pupazzo di quella giostrina che c'è in piazza, il calcinculo, che nome ridicolo... non mi interessa come trovi un compagno per farti aiutare. Devi prenderlo senza pagarlo, devi acchiapparlo come hanno fatto questi due ragazzini: paghi il biglietto, sali su quei seggiolini, prendi il pupazzo facendoti prendere a calci nel didietro. Se ce la fai, al primo colpo, io ti lascio vivere e lascio vivere il bambino. In caso contrario... entrambi sarete miei. Una sola possibilità, un solo colpo. Accetti?»
«Accetto» rispose senza esitare l'uomo «Ma tu prenderai la pistola»
«Perchè?»
«Perchè io non ho idea di come farla sparire in modo convincente. E perchè tu non hai comunque bisogno di spararmi, per uccidermi»
«Logico».
Dieci minuti dopo, il terreno era pulito. I resti di Giuseppe, ragazzetto scavezzacollo che aveva girato su più giostre di qualunque altro ragazzino, che aveva mangiato gelati e pizze e hot dog, erano stati portati via, divorati, spolpati, ridotti ad un nulla, triturati, distrutti. Nessuno li avrebbe ritrovati mai, una famiglia sarebbe stata gettata nello sconforto, nell'ansia, nella paura.
Il vampiro e l'impiegato si ritrovarono di fronte alla giostra, poco dopo, fianco a fianco a guardare la struttura rotante che sembrava emergere dal cemento. Ora, all'impiegato, quella cosa sembrava un idolo decorato da lucine che esigeva un tributo di sangue umano.
«Un solo tentativo» Mormorò il vampiro, alzando un dito.
L'impiegato non disse nulla, non annuì neppure, chiuse un pugno solo. Non sapeva quante possibilità avesse di vincere, ma non dovevano essere molte.
La morte o la vita in una giostra.
«Dov'è il bambino?» Domandò l'impiegato, aggiustandosi il colletto
«Quale bambino?»
«Il ragazzo castano per cui stiamo facendo questo gioco»
«Ah, la posta in gioco... beh, il nostro premio è chiuso in un bel posto sicuro. Come in quei giochi a premi, in cui tutte le risposte sono sigillate in delle buste grosse e colorate»
«Voglio essere sicuro che lo libererai»
«Hai la mia parola, colletto bianco»
«Quanto vale, la tua parola?»
«Vale quattro volte più di qualunque garanzia tu mi possa offrire. Vale più della tua vita, più di tua madre, di tuo padre, più dei figli che potresti avere ma che non avrai mai. Sei un fallito. Vediamo se riesci ad azzeccarne una, nella tua vita».
L'impiegato si voltò di scatto e afferrò per la gola il vampiro, il quale non si aspettava minimamente una reazione del genere. La gente allarmata si fermò a guardarli, solo ad alcuni bambini, troppo attirarti dalle giostre, quei due non interessavano.
«Oh, ardito...» Disse ad alta voce il vampiro, con la voce strozzata «...Cosa vorresti fare, uccidermi?»
«Stammi a sentire, pezzo di carne morta, non sono quello che credi»
«Si che lo sei. E ti stai tirando indietro»
«Non lo sto facendo. Smettila. Non so quanto vale la tua parola, ma posso giurarti che se vinco e non mi ridai il bambino, io ti brucio».
Il vampiro sorrise. L'impiegato lo lasciò, si sistemò la camicia e si avvicinò al gabbiotto del bigliettaio. Un gabbiotto vuoto. Un gabbiotto pieno, con il vampiro che l'aveva già riempito e porgeva i biglietti con fare affabile
«Ecco a lei signore!»
«Può spararsi...»
«Non servirebbe a niente, signore. Senza offesa per la sua splendida idea».
Trovare un compagno. Trovarlo adesso. L'impiegato, con due soli pezzi di carta rosa in mano, si guardava intorno. Avrebbe offerto del denaro ad un ragazzo che avesse la forza necessaria per spingerlo fino alla stupida coda di peluche striata, come quella di un procione, che era il nuovo premio appeso... la odiava, la odiava come non aveva odiato mai nulla in vita sua, e la odiava perchè non era ancora nelle sue mani.
Il vampiro sorrideva, il gomito appoggiato sul davanzale della finestrella, i capelli che gli coprivano un occhio.
L'impiegato adocchiò un ragazzo, forse diciassettenne, spolverata di brufoli sul mento, capelli cortissimi, slanciato, braccia e gambe forti. Era lui, lui era l'unica possibilità vivente di salvare due vita umane altrimenti destinate a diventare qualcos'altro, qualcosa che avrebbe a sua volta distrutto altre vite.
L'impiegato si avvicinò a lui, lo pregò di aiutarlo con la scusa che il suo bambino voleva quel premio. Il ragazzo, Luciano si chiamava, acconsentì ridendo e si offrì di salire nel seggiolino davanti, imbarazzato dall'idea di spingere quel signore sconosciuto e ben vestito che gli aveva offerto un giro gratis. L'impiegato rifiutò categoricamente, si diresse verso la giostra e vi salì, cercando di stringersi come poteva nel seggiolino, rimproverandosi del grasso sui fianchi, rimproverandosi ogni stupida ciambella e salsiccia della sua vita.
Luciano, snello, forte e alto come un dio adolescente, praticamente saltò dentro la seduta della giostra e parve quasi fondersi con essa, come se fosse stata studiata da un esperto di ergonomica per adattarsi alla curva della sua schiena e alla lunghezza delle sue gambe, anche se erano quattro stupidi pezzi di plastica, legno e ferro scomodi.
Il giro cominciò.
«Un solo tentativo» Disse ad alta voce l'impiegato «Ti prego, fa che funzioni»
«Come, signore?»
«Abbiamo un solo tentativo» confessò l'uomo.
Luciano scosse la testa
«Come?».
La giostra iniziò ad accelerare. Passarono sotto il giocattolo una, due, tre volte. Il vampiro li guardava, gli occhi socchiusi, divertito dal fatto che tutto dipendesse da una cosa così stupida.
«Quando vuole, signore!» Esclamò Luciano «Prima di finire il giro, magari».
L'impiegato si riscosse, la fronte imperlata di sudore, le mani dolenti di tensione. Un solo tentativo. Il tempo si dilatò. Le luci scagliavano i loro lenti flash decorativi come lampi flemmatici di un Zeus senza più forze.
«Vai, ora!».
Luciano spinse il seggiolino di fronte a sé, più in alto che potè, sperando che quel tizio riuscisse a prendere il giocattolo, anche se in fondo, per lui, non era così importante.
L'impiegato, sentendo lo strappo dell'accelerazione, strinse i denti e allungò le braccia. L'istante durò troppo poco. Le sue dita non toccarono il giocattolo. Fallire fu come un dolore, solo più forte, più immediato, più paralizzante.

No.

Non aveva ancora fallito. Gli era sembrato di fallire, era stata la paura, l'illusione di avere braccia troppo corte, di non essere abbastanza pronto.
La codina di peluche era nella sua mano destra. Il seggiolino ripiombò pesantemente e l'impiegato, con gli occhi spalancati e il cuore a mille, se la strinse al petto. Non aveva mai amato così tanto un giocattolo inutile in tutta la sua vita.
Scesero dalla giostra. Il giro era durato come una vita intera.
Il vampiro arrivò al trotto e strappò la coda di peluche dalle mani dell'impiegato
«Sei stato bravo, Luciano» disse, rivolto al ragazzo, che chinò la testa e poi si allontano borbottando un “grazie signore” «E anche tu, colletto bianco»
«Non mi chiamo così»
«Riesci a uscire di lì?»
«Si»
«Ce l'hai proprio fatta»
«Dov'è il bambino?»
«Laggiù».
L'impiegato guardò nella direzione indicata dal vampiro. Francesco stava mangiando un gelato, anche se sembrava veramente spaventato.
«Siete liberi».
“Stupidi premi importanti appesi sulle giostre. Possiate bruciare tutti”.

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