giovedì 29 novembre 2018

Sunset 77 - Il falsario





«Torna presto, Belarda» Mi disse Jessica con entusiasmo, baciandomi su entrambe le guance. Avevo preso come abitudine farlo alla fine di ogni lezione per salutarla, e alla fine lei sembrava averla trovata una cosa divertente abbastanza da farlo a sua volta con me.
«A proposito» Sbottò allontanandosi un po' da me, pensierosa
«A proposito di cosa?»
«Del tuo nome. Il mio nome è molto più semplice da abbreviare. Io sono Jess, Angela è Angie o Ange, e tu? Bella hai detto che non ti piace, no?».
Mi strinsi nelle spalle «Infatti, non mi piace»
«Bela?»
«No, sembra Bela Lugosi. Mi può chiamare così solo Mike».
Mi lanciò uno sguardo di fuoco, ma me la cavai con un sorrisetto di scuse: stava solo scherzando. Ad ogni modo, rimediai con un'offerta di pace: «Mio padre mi chiama Bells. Puoi farlo anche tu. È molto...»
«Natalizio» mi sorrise Jessica, graziandomi con un bel sorriso «Mi piace. Bells. Se non me lo dicevi, finiva che ti chiamavo Larda»
«No, Larda no, ti prego»
«Allora a dopo, Bells!». Soddisfatta della sua nuova scoperta, mi strinse in un abbraccio e lasciò che io tornassi al mio pick-up solo dopo che le ebbi picchiettato su una spalla.
La salutai per la terza volta da dentro l'abitacolo, poi mi allontanai, ricapitolando tutte le cose che avevo in programma di fare. C'erano tante cose a cui pensare! Dove avrei trovato il tempo per mettermi sulle tracce di J. Jenks, e perché Alice me ne aveva parlato?
Adesso dovevo andare a La Push, ed intanto chiamare papà per capire cosa voleva fare.
Poggiai il cellulare sull'altro sedile anteriore con il vivavoce per poter avere entrambe le mani libere, tanto non stavo andando veloce. Dopo avere accettato la mia chiamata, Carlo tacque talmente a lungo da farmi temere che uno dei nostri due cellulari si fosse misteriosamente rotto.
Ma poi borbottò «Top secret, puah!» e io capii che stava parlando con qualcun altro che era presente.
«Papà!» Urlai verso il mio cellulare, tenendo gli occhi fissi sulla stradale
«Bells!» mi rispose, allegramente
«Mi fai pagare un sacco di soldi se ti chiamo e non mi rispondi»
«Eh, hai ragione. Dovevo staccare e richiamare. Ho i minuti. Va bene, si, ora arrivo»
«Va bene, ma dove vai? Ma c'è qualcun altro con te, vero papà?».
Lui rise, un po' imbarazzato «Si, c'è Sue. È così gentile da prepararmi il pranzo, visto che starai fuori tutto il giorno oggi. La mia cucina le fa orrore, proprio come a te quando eri appena arrivata»
«A me fa ancora orrore, solo che ora non lo dico perché tanto cucino io. Tant'è che una donna sposata ha sentito il bisogno di cucinare per te, oltre che per la sua famiglia»
«È il mio fascino»
«È sicuramente il tuo fascino» confermai, annuendo anche se non poteva vedermi. Se Sue non fosse già stata felicemente sposata, avrei fatto un gran tifo perché si mettessero assieme: erano così dannatamente carini assieme! Erano amici da più di vent'anni, si conoscevano a vicenda come le proprie tasche e, da quando l'avevo conosciuta come si deve da grande, avevo preso in grande simpatia Sue.
Dato che invece era felicemente sposata, non mi restava che fare un tifo pacato, e fare finta di non starlo facendo. Volevo vedere papà felice, innamorato di qualcuna che gli volesse bene davvero, perché se lo meritava. Ma anche che fossero amici mi andava bene, mi sarei potuta accontentare.
«Va bene, piccola. Vai da Jake?».
Anche se Carlo non sapeva niente dell'allenamento dei licantropi, non gli era stato difficile notare il pattern con cui gestivo le mie giornate. Perlomeno, sapeva che passavo la mattina dai Quileute e\o da Jessica molto spesso.
«Probabile» Ammisi, considerando che Jacob non si sarebbe perso di sua volontà una mattina con me, ma senza succhiasangue intorno. Gli avrei chiesto di accompagnarmi da J. Jenks, spiegandogli la situazione... dopotutto era imprudente andare completamente da sola. Chi mai lo avrebbe fatto?
E poi avevo scelto oggi apposta, dopo due giorni dall'aver ricevuto l'informazione, perché sapevo che era il “giorno libero” di Jake. Anche i licantropi avevano bisogno di pause dall'allenamento intensivo che stavano conducendo, o il loro fisico semplicemente non avrebbe retto più.
«Forse allora dovrei invitare anche Billy» Ponderò Carlo «Ma... hmm. Un'altra volta, magari».
Nonostante le mie riflessioni, prestavo abbastanza attenzione a quello che diceva papà da notare la strana esitazione nella sua voce quando nominò Billy. Era perché voleva rimanere da solo con Sue o aveva avuto problemi con Billy? Eppure un paio di giorni fa andavano d'accordissimo.
«Tutto okay?»
«Ah, si certo, Bells. Perché?»
«Intendo, tutto okay con Billy?».
Stavolta la risposta tardò un po' di più ad arrivare «... Si. Niente di che. Perché?».
Carlo e Billy erano adulti: se avevano dei problemi fra loro, li potevano benissimo risolvere da soli. Io ero già assillata da molte altre incombenze ben più importanti.
«Parla con Billy. Ti voglio bene pa'. A fra poco» Gli dissi e riagganciai.
Quando arrivai a casa dei Black, Billy mi salutò bruscamente per poi rintanarsi nuovamente in casa ed evitarmi. Ah, questi adulti.
«Belarda! Come va la Ferrari?» Mi disse a mo' di saluto Jacob.
Il più giovane dei Black, invece, non deludeva mai. Mi venne incontro per abbracciarmi; era caldo caldo, complice anche il fatto che era più semplice per me sentire il suo calore corporeo quando non indossava la maglietta.
«Da' troppo nell'occhio» Risposi, strizzata nel suo abbraccio «Fa rumori di bestia feroce ed è un pick-up. Ma si può aggiustare, vero?»
«Hmm, forse non c'è molto da fare»
«Mi sa che dovremo andare a piedi allora. Dì un po', ma tu ormai le magliette non le metti più?».
Jacob mi rivolse un sorriso radioso. «Risparmiamo, mio padre non mi compra più i vestiti da quando ci sono stati degli... uhm, incidenti con le trasformazioni. Hai visto che fisico, eh? Hai visto?».
Tra tutto l'allenamento che faceva e il modo in cui il calore e la crescita accelerata a cui era sottoposto, il suo fisico si era davvero tonificato ed asciugato, mostrando una tartaruga da pubblicità. Il colore naturale della sua pelle dava giusto quel pizzico in più per farlo sembrare ancora più invidiabile.
«Ah, allora è così, svergognato? Vuoi fare vedere a tutti il tuo pancino, per questo non ti vesti più?»
«Dai, Belarda! Sono messo bene, ammettilo!»
«Lo ammetto, lo ammetto. Ma se ti metti una maglietta, vieni con me che ti porto in un posto».
Lui mi guardò incuriosito, ma finalmente obbedì. Lo attesi seduta sul muso del mio fido pick-up, guardandomi attorno. Vidi Billy Black guardarmi storto da una finestra, e poi richiudere la tapparella in fretta, non appena si accorse che lo avevo individuato. Qualunque problema avessero Carlo e Billy, dovevano proprio risolverlo.
«Eccomi!» Esclamò Jacob di ritorno. Si era messo una maglietta grigia e semplice, pulita, con su la stampa dell'impronta di un lupo in nero.
«Che carino» Mi complimentai, scivolando giù dal muso del pick-up
«Ti prego, non mettermi in condizione di dovermi trasformare. Questa è l'ultima maglia buona che ho. Il resto sono tutte brutte o in lavatrice».
Alzai le mani. «Io farò del mio meglio, ma non ti prometto niente».
Lui si strinse nelle spalle, e si infilò dentro lo Chevy. Per un attimo mi chiesi se ci sarebbe entrato, ma alla fine ci accomodammo entrambi senza problemi.
«Allora, come stai?» Gli chiesi mentre uscivo dal vialetto
«Come credi che stia?» chiese Jacob sarcastico «Sono stufo di tutti quei succhiasangue puzzolenti». Vide la mia espressione e parlò prima ancora che potessi rispondergli «Si, lo so che dovremmo collaborare, però, di' pure quello che vuoi, ma io continuo a pensare che Dracula Uno e Dracula Due facciano proprio senso».
Sorrisi. Neanch'io andavo matta per i due ospiti rumeni. «E chi ha detto niente? Non posso darti torto».
Lui fece una smorfia «Seth non fa che pensare ai succhiasangue quando siamo trasformati. Continua a bombardarci di domande e curiosità sui vampiri, come se fosse una specie di hobby per lui. Uno di quegli hobby incomprensibili, tipo allevare zanzare. E sembra anche che lui piaccia alle zanzare! Ieri gli ha chiesto di quella pelle strana, ai due rumeni, e dato che gli hanno risposto non faceva altro che pensarci».
Ero quasi felice che glielo avesse chiesto: ne ero curiosa anch'io. «E allora? Si sono offesi?»
«No, no. Tutt'al più un po'... colpiti. Addolorati»
«E perché hanno quella pelle strana?»
«Dicono che sono rimasti seduti troppo tempo. A “contemplare la loro divinità”, credo che abbiano detto così, a crogiolarsi sugli allori. Non dovevano neanche muoversi per avere quello che volevano: prede, diplomatici, persone che volevano conquistarsi i loro favori, erano loro a raggiungerli» Jacob sembrava pensieroso «Così non si sono neanche accorti di stare cambiando. Di starsi... pietrificando, quasi. Poi i Volturi hanno bruciato i loro castelli, e allora sono stati costretti a muoversi e hanno smesso di trasformarsi in pietra. Credo che sia una cosa da vampiri antichi, perché nei ricordi di Seth Dracula Uno diceva che i Volturi hanno gli occhi pieni di “porcherie polverose”»
«Porcherie polverose? Ha detto così?»
«Si! Non me lo aspettavo. Parla tutto...»
«Forbito? Aulico?»
«Si, quello. Altisonante, sai. Non mi aspettavo che dicesse “porcherie polverose”. O che i Volturi ce le avessero negli occhi. Chissà che schifo, quando li vedremo. Non mi hai ancora detto dove stiamo andando» osservò Jacob, rilassato «Poi devo tornare, per l'allenamento».
«Stiamo andando a fare un'indagine, in un certo senso».
Il tono della mia voce attirò la sua attenzione.
«Devi combinare qualcosa di pericoloso?»
«Jake, hai presente quanto sei bravo a controllare i pensieri in presenza di Edward?».
Da un tipo schietto ed estroverso come lui non mi sarei aspettata un'abilità del genere, ma a quanto pare aveva una mente molto ordinata. Non era una cosa da licantropi, purtroppo per il benessere mentale del branco, ma solo da Jake.
Lui alzò un folto sopracciglio scuro: «Ah sì?».
Annuii, spostando lo sguardo sulla strada con tanta concentrazione da far pensare che l'avrei incenerita. Jacob aspettò che aggiungessi qualcos'altro, e poi sporse il labbro inferiore mentre rifletteva sul poco che gli avevo detto.
Si era messo a piovere, una pioggerella fitta e gelida che diminuiva notevolmente la visibilità stradale. Faceva freddo, anche se non abbastanza perché potesse nevicare entro giornata.
Sospirai. «Si». Lui mi guardò quasi sobbalzando, forse non si aspettava che gli avrei dato altre informazioni.
«E su cosa andiamo ad indagare?»
«Un indirizzo ed un nome: J. Jenks. Non ho scoperto molto da sola, tranne che è un avvocato con un sito web ben fatto. Per qualche motivo me li ha lasciati Alice...» vidi la sua espressione, e capendo di averlo messo in difficoltà specificai «La succhiasangue che vede il futuro. Erano scritti sul frontespizio di uno dei miei libri, il Mercante di Venezia, con la raccomandazione di distruggerli. Voleva che questa informazione arrivasse solo a me, per qualche motivo»
«Allora perché me lo stai dicendo?»
«Perché c'è qualcosa di strano, e io mi fido di te. L'indirizzo che mi ha dato con il nome, J. Jenks, non è quello segnato sul suo sito web per la sua attività. Sembra che Alice avesse un grande disegno per tutta questa storia, leggendo nel futuro, quindi è giusto che io controlli credo, ma non voglio andare del tutto allo sbando. E tu sei uno con i piedi a terra e che sa tenere a freno i pensieri, quindi sei la persona giusta, non credi?».
Lui mi guardò di sottecchi, con un sorrisetto. Era lusingato dalla fiducia che avevo riposto in lui, e probabilmente divertito dal fatto che solo noi due sapessimo di quest'informazione: era come giocare alle spie. Non vidi traccia di preoccupazione sul suo volto.
«Fico» Disse «Quindi investighiamo sull'avvocato?»
«Sarebbe quella l'idea»
«Fico» ripeté lui con convinzione, guardando davanti a sé.
Le strade erano abbastanza viscide da convincermi a rallentare un poco. Volevo portare a termine la missione, risolvere il mistero in modo da potermi dedicare al compito cruciale di apprendere. Apprendere a proteggerne alcuni e ad ucciderne altri.
Ma se, e ripeto se, avessi partececipato alla battaglia – il pensiero mi colpì, perché per qualche motivo non lo avevo ancora formulato – avrei potuto combattere i vampiri insieme ad Undertaker?
Intanto stavo perfezionando sempre di più lo scudo. Kate non sentiva più il bisogno di motivarmi: non mi era difficile trovare motivi per arrabbiarmi, ora che conoscevo il trucco, perciò mi esercito soprattutto con Zafrina. Mi sentivo l'Incredibile Hulk.
Ero contenta della mia estensione: riuscivo a coprire una zona di quasi tre metri per quasi un minuto, anche se farlo mi sfiancava. Ieri mattina aveva cercato di scoprire se riuscivo a separare lo scudo dalla mia mente. Non capivo l'utilità di quella prova, ma Zafrina pensava che mi avrebbe resa più forte, un po' come allenare anche i muscoli addominali e della schiena invece delle sole braccia. Alla fine si è capaci di sollevare pesi maggiori quando tutti i muscoli sono più forti.
Beh, io i pesi li facevo, ma lo scudo non si era mosso di un solo millimetro dalla mia mente, garantendomi immunità totale dal fiume amazzonico che Zafrina aveva cercato di mostrarmi.
Avevo il GPS sul telefono e non ebbi molte difficoltà a localizzare l'indirizzo che in rete non esisteva, quello di J. Jenks. Avevo salvato l'indirizzo nelle bozze dei messaggi, perché sapevo benissimo che da sola non lo avrei mai ricordato. Non mi sentivo molto sicura a girare con informazioni potenzialmente sensibili in quel modo, ma non avevo molta scelta.
Se non ci fosse stato niente, il passo successivo sarebbe stato cercare Jason Jenks all'altro indirizzo, quello che mi aveva dato Alice.
Dire che non era un bel quartiere sarebbe stato un eufemismo. L'automobile più anonima fra tutte quelle possedute dai Cullen avrebbe comunque dato nell'occhio in quella via. Il mio signor Chevy si integrava meglio, anche se era comunque un signor Chevy.
«Queste» Disse solenne Jacob «Sono macchine buone solo per i pezzi di ricambio».
Chiusi le sicure e ricacciai l'impulso forte di scappare sgommando il più velocemente possibile. Cercai di immaginarmi Alice in quel posto, però non ci riuscii senza aggiungerle una serie di capi d'abbigliamento che la identificassero come una criminale. Come un passamontagna, che probabilmente le avrebbe ammaccato i capelli facendone uscire appena le punte curve, e magari un paio di occhiali da sole. Alla fine l'Alice nella mia mente subì abbastanza modifiche per apparire nel vicolo che poteva essere qualunque creatura vagamente a forma di Alice, ed ammisi a me stessa che semplicemente non ce la vedevo lì.
I palazzi – tutti di tre piani, tutti stretti, tutti leggermente inclinati come se la pioggia battente li avesse piegati – erano soprattutto vecchie case divise in appartamenti multipli. Difficile stabilire di quale colore fosse in origine la vernice scrostata: tutto si era sbiadito ad una sfumatura di grigio che poteva essere stato qualunque cosa, fastidiosa nella sua ambiguità. Era come guardare attraverso un filtro in bianco e nero un po' distorto e cercare di capire a cosa corrispondesse quel tono di grigio senza trovare nessuna risposta decente, ma sarei stata propensa per il verde.
Alcuni edifici erano occupati da negozi al piano terra: un bar lercio con le vetrine dipinte di nero, un negozio di forniture per sensitivi con mani fosforescenti e carte dei tarocchi che brillavano intermittenti sulla porta, un tatuatore e un asilo con la vetrina tenuta insieme dal nastro isolante. Non potevo credere che qualcuno mandasse davvero i suoi figli lì, a meno che non fosse il baby parking dei figli del tatuatore e del rifornitore di veggenti. Nei locali non c'erano lampadine, anche se fuori il tempo era brutto a sufficienza perché un po' di luce avrebbe fatto davvero comodo, per vedere un accidente. Sentivo borbottare piano qualche voce distante: sembrava un televisore a volume indecentemente alto, anche se non ero certa da quale edificio provenisse.
Insomma, uno sfacelo.
In giro c'era un po' di gente. E quando dico un po', intendo davvero pochi: due persone che arrancavano sotto la pioggia in direzioni opposte e un'altra seduta alla bassa veranda di uno studio legale da due soldi, tutto sbarrato con assi: leggeva un giornale e fischiettava. Quel suono era troppo allegro per l'ambiente, sembrava un espediente di Tarantino.
Ero talmente sconcertata dal tizio che fischiettava spensierato da non collegare sulle prime che l'edificio abbandonato dietro di lui era il punto preciso in cui avrebbe dovuto trovarsi l'indirizzo che stavo cercando. Sul palazzo in rovina non c'erano numeri civici, ma il tatuatore lì di fianco era a soli due numeri di differenza. A meno che non ci fosse la base dell'Ordine della Fenice da qualche parte, il posto era quello.
Mi accostai al marciapiede e rimasi lì col motore al minimo per un po'.
«Belarda... ma che posti frequenti?»
«Che posti frequenta Alice» sbuffai «Hanno delle scelte di amici, tutti i Cullen... Beh, ora che siamo in ballo balliamo no?». Metafora infelice, dato che facevo schifo a ballare.
«È tipo il quartiere più malfamato in cui io abbia mai messo piede» Jacob si guardava attorno affascinato «Sul serio. Se mio padre sapesse che sono qui mi prenderebbe a colpi di battipanni»
«Meno male che non lo sa» mi guardai intorno eloquente «Non da l'impressione di essere una situazione straordinaria anche senza che tu venga preso a colpi di battipanni»
«Secondo te dovremmo aggirarlo?» mi indicò il tizio che fischiettava con un cenno della testa
«Può darsi. Ma credo che abbia a che fare qualcosa con quel, ehm, quello studio legale»
«Non sono sicuro, eh. Sembra molto che si stia facendo i cavoli suoi. E se è un criminale?».
Rimanemmo qualche secondo a contemplare la situazione, con i ruggiti del mio pick-up come sottofondo. Almeno non sembravamo gente ricca, non avevamo un'alta probabilità di essere attaccati per essere derubati.
«Ehi, signora» Mi chiamò il tizio che fischiettava.
Io? Io ero signora? Guardai il mio amico, come a chiedere spiegazione.
Dopo un attimo di esitazione Jacob abbassò il finestrino dal suo lato per lasciare che sentissimo meglio quello che diceva l'uomo. Il tizio mise da parte il giornale e restai sorpresa, ora che vedevo i suoi abiti. Sotto lo spolverino lungo e stracciato, era vestito un po' troppo bene. La sua camicia rosso scuro aveva un aspetto serico e lucente: forse seta. I capelli neri e ricci erano arruffati e in disordine, ma la pelle scura era liscia e perfetta, i denti bianchi e dritti, e i mocassini di pelle ai suoi piedi erano lucidi e per nulla consunti. Una contraddizione allo spolverino.
«Mi sa che non è il massimo lasciare lì la macchina, signora» Disse «Potrebbe non ritrovarla quando torna»
«Grazie dell'informazione» Risposi «E dove sarebbe meglio parcheggiarla?».
Lui sembrava non avere previsto una domanda del genere, perché si strinse nelle spalle senza darmi altra risposta. Dopo aver controllato attorno nella speranza di notare se ci fossero stati dei brutti ceffi pronti a fregarmi il pick-up appena avessi messo il naso fuori dall'abitacolo, spensi il motore. Non avevo intenzione di allontanarmi più di tanto, se tutto andava bene.
Io e Jake ci scambiammo uno sguardo d'intesa, poi entrambi scendemmo dall'auto insieme
Forse il mio amico che fischiettava poteva darmi le risposte di cui avevo bisogno in modo più pratico che non scassinando quella casa o sgattaiolando per i vicoli bui. Aprii il mio grande ombrello grigio, anche se lo passai subito a Jacob ringraziandolo. Lui era più alto di me, sarebbe stato più comodo per entrambi così.
Il tipo socchiuse gli occhi nel vedere le nostre sagome avvicinarsi, cercando di distinguerci oltre la cortina di pioggia, poi li sgranò.
«Sto cercando una persona» Cominciai titubante
«Io sono una persona» disse sorridendo «Cosa posso fare per te, bellezza?».
Bellezza? Signora?
Non alzai lo sguardo a vedere che espressione avesse fatto Jacob, ma qualunque cosa fosse apparsa sul suo volto sembrò preoccupare Fischiolante, che continuava a gettargli occhiatine e aveva ridotto di parecchio il proprio sorriso. Giusto per sicurezza.
«Per caso sei J. Jenks?» chiesi.
«Oh» disse lui e la sua espressione passò dall'attesa alla comprensione. Si alzò in piedi e mi studiò con gli occhi socchiusi «Perchè cerchi J.?»
«Questi sono affari miei» dissi, con decisione, ma cercando di non apparire sgarbata. Volevo sembrare risoluta, ma non una che si cerca dei guai. E poi non avevo la minima idea del perché cercassi Jenks. «Ma tu sei J.?»
«No».
Restammo così per un paio di minuti. Osservai una goccia formarsi velocemente sul bordo dell'ombrello grigio, raggomitolarsi e lanciarsi verso il basso, lucente e piena di sfumature come una perla.
«Non sembri una dei suoi soliti clienti» Disse l'uomo. Non si rivolse mai a Jake, anche se non ero sicura del perché.
«Si, probabilmente sono insolita» Confessai. Ero una studentessa probabilmente piuttosto anonima a vedersi, con una felpa grigia ed un amico alto. Niente a che spartire con i clienti che immaginavo potessero decidere di frequentare un avvocato per lavoretti a nero: criminali con scritto “mamma” in un cuoricino trafitto sul braccio, altri avvocati, killer pazzi, quel genere di persone. «Ma devo davvero vederlo al più presto»
«Non so cosa posso fare» ammise lui a sua volta
«Perché non mi dici come ti chiami?».
Sorrise, sarcastico. «Max»
«Piacere, Max. E adesso perché non mi spieghi cosa intendi con quei soliti?». Avevo la mia idea, ma era meglio mettere le cose in chiaro.
Il sorriso si trasformò in una smorfia, e temetti di avere sbagliato strada. «Beh, i clienti soliti di J. non ti assomigliano per niente. La gente come te non viene nell'ufficio qui in centro. Normalmente si va dritti nel suo ufficio di lusso nel grattacielo».
Diedi un'occhiata allo smartphone veloce, e recitai l'altro indirizzo che avevo, recitando l'elenco di numeri in tono interrogativo.
«Si, è lì» Rispose di nuovo sospettoso «Perché non ci sei andata direttamente?»
«Mi hanno dato questo indirizzo. Era una fonte... molto affidabile». No, non lo era. Ma non era il caso di dirgli che probabilmente era una che sarebbe stata bene nel negozio con le manine intermittenti accanto.
Max fece un'espressione contrita. «Senti, signora... Questo lavoro mi serve. J. Mi paga piuttosto bene per starmene qua a fare poco o niente tutto il giorno». Schietto, il ragazzo. «Voglio aiutarti, davvero, però... E naturalmente parlo da un punto di vista del tutto ipotetico, giusto? O in via ufficiosa, o come preferisci, ma se lo metto in contatto con qualcuno che può farlo finire nei pasticci, io ho chiuso. Capisci il mio problema, vero?».
Ci riflettei un attimo, aggrottando le sopracciglia. Dubitavo che a Seattle sapessero che ero la figlia di un poliziotto, quindi doveva essere per forza un discorso ipotetico. «Forse mi potreste fare parlare con lui. Sono certa che J. conosce la ragazza che mi ha dato questo indirizzo».
Max rimuginò su quell'informazione per un attimo. Gli sorrisi timidamente, più che altro perché non sapevo che altro fare. «Senti un po' cosa ho pensato di fare: adesso chiamo J. e gli possiamo descrivere questa ragazza. E poi decide lui».
Annuii. Ero abbastanza certa che si conoscessero, anche se non potevo esserne sicurissima. Ma nel caso mi avessero fatto più domande, com'ero collegata ad Alice, la situazione si sarebbe fatta molto più complicata...
«Di cognome faccio Cullen» Dissi a Max, e mi chiesi se non avessi esagerato.
Cominciavo ad arrabbiarmi con Alice. Dovevo proprio andare così alla cieca? Così come aveva scritto l'indirizzo sul mio libro da collezione, a questo punto avrebbe potuto inserire anche qualche informazione in più...
«Cullen, ho capito».
Jacob mi lanciò un'occhiata confusa, perfetto nel suo ruolo di guardia del corpo silenziosa. Io gli sorrisi, come a rassicurarlo che sapevo quello che stavo facendo. Lo osservai mentre componeva il numero. Aveva un cellulare vecchiotto, di quelli con i tasti fisici e lo schermo piccolissimo su cui c'erano le scrittine sgranate nere.
«Ehi, J. , sono Max. So che devo chiamarti a questo numero solo in caso di emergenza...».
Fu interrotto, ed io iniziai a sudare freddo. Ero un'emergenza? Certo che no. Si prendeva troppe libertà con quel numero? Speravo.
«Beh, non proprio. C'è una ragazza che vuole vederti...». Pausa. «Non l'ho seguita perché lei non mi sembra affatto normale...».
Chi doveva seguire? Alzai lo sguardo a cercare quello di Jacob come una sorta di rassicurazione. Ma lui sembrava smarrito e vagamente pronto a prendere a pugni qualcuno, così, quando mi restituii lo sguardo, lo indurii per farmi vedere come una che sapeva esattamente quello che stava facendo e gli sorrisi.
«No... No... fammi parlare, va bene? Dice che conosci sua sorella o qualcosa del genere. È...» mi squadrò dalla testa ai piedi con uno sguardo elogiativo che mi confuse «Beh, molto carina, e giovane, ecco com'è». Sorrisi, più ansiosa che contenta dei complimenti, e lui mi fece l'occhiolino, poi proseguì. «Pallida come un lenzuolo, capelli castano scuro lunghi oltre le spalle, ha l'aria di aver bisogno di una bella dormita... ah, e c'è un ragazzo con lei, alto alto e muscoloso. Ti ricorda qualcuno?».
Lui attese qualche secondo al telefono, e noi con lui.
«Si, va bene, mi piacciono le ragazze carine, e allora? Che male c'è?» Sbottò Max all'improvviso «Mi dispiace di averti disturbato, bello. Lasciamo perdere».
Feci un gesto per attirare la sua attenzione: «Il nome» bisbigliai.
«Ah, giusto. Aspetta» Disse Max «Dice che si chiama... il nome non lo so, ma il cognome è Cullen. Ti ricorda qualcosa?».
Per un attimo calò un silenzio tombale, poi la voce all'altro lato della cornetta di botto si mise a gridare, usando una serie di vocaboli degni di un'area di servizio per camionisti, ed a voce così alta che trapelarono fino a noi. Jacob ridacchiò sotto i baffi e Max cambiò completamente espressione: l'aria scherzosa sparì del tutto e le labbra impallidirono.
«Non te l'ho detto perché non me l'hai chiesto!» Gli rispose Max urlando, in preda al panico.
Ci fu un'altra pausa, durante la quale J. si ricompose.
Disse qualcos'altro, ma aveva abbassato di nuovo il tono e stavolta non lo udimmo. «Te l'avevo detto, no?». Max aspettò un minuto mentre subiva un'altra scarica di insulti ed istruzioni gridati a gran voce, poi mi guardò con espressione quasi spaventata. «Ma il giovedì incontri solo i clienti del centro... Va bene, va bene! Mi ci metto subito».
Chiuse il cellulare.
«Vuole vedermi?» Chiesi allegra.
Max mi guardò in cagnesco «Potevi dirmi che eri una cliente con la precedenza»
«Non sapevo di esserlo»
«Credevo fossi uno sbirro» mi confessò «Cioè, non è che lo sembri. Ma ti comporti in modo strano».
Feci spallucce, ma una parte di me si sentì orgogliosa di essere accomunata ad una poliziotta.
«Sei del cartello dei narcos?» Tirò ad indovinare lui
«Chi, io?» chiesi
«Si. O il tuo ragazzo, o chi ti pare» ed indicò Jacob, anche stavolta senza rivolgersi direttamente a lui
«No, mi dispiace. La droga non esalta me e nemmeno il mio ragazzo. Se la conosci la eviti, eccetera eccetera, hai presente?».
Max imprecò sottovoce «Fidanzata, eh. Mi sa che non ho proprio nessuna chance»
«Sarei minorenne, Max»
«Sei della mafia?»
«Nooo!»
«Traffico di diamanti?»
«Smettila! È questa la gente con cui hai a che fare di solito, Max? Forse è il caso che ti trovi un altro lavoro».
Dovevo ammettere che un pochino ino mi stavo divertendo.
«Devi essere dentro a qualcosa di grosso. E di pericoloso» Disse fra sé
«Non proprio» risposi, ma suonò sbagliato anche alle mie orecchie. Era una grossa, grossa bugia.
«Dicono tutti così. Ma a chi servono i documenti, se no? Chi può permettersi di pagare i prezzi a cui li vende J.? Forse questa è la domanda giusta, ma comunque non sono affari miei».
Apprezzai la discrezione di Max. Mi diede un ulteriore indirizzo, del tutto nuovo, con indicazioni sommarie, poi, con uno sguardo sospettoso e amareggiato, mi osservò mentre mi allontanavo.
Jacob scrollò l'ombrello fuori dall'auto prima di richiuderlo per bene ed incastrarlo tra il suo sedile e la portiera. Riaccesi l'auto, che prese vita con un ruggito.
Io e Jacob non ci parlammo finché Max non fu fuori dal nostro campo visivo, poi Jacob esclamò:
«Sei stata fortissima!»
«Che ho fatto?»
«Non so, gli hai parlato in un modo particolare. Come se fosse tuo amico o qualcosa del genere. Te lo sei fatto buono e ti sei fatta dare il numero, e poi lo hai manipolato con la storia dei Cullen. Sembravi davvero uno sbir... una poliziotta, io invece non sapevo che dire, pensavo che lo avrei dovuto minacciare da un momento all'altro, fare la parte del duro»
«Tu hai fatto la parte del duro. Sono sicura che non mi avrebbe neanche presa in considerazione se non ci fossi stato tu»
«Si, ma se fossi stato da solo saremmo rimasti tutti a guardarci in faccia, non avevo idea di come gestire la cosa. Sai, sei portata, per le forze dell'ordine. Che lavoro vorresti fare, Belarda?».
Risi sotto i baffi.
«Ci sono tante possibilità che sto considerando. Entrare nelle forze dell'ordine è una di queste» Ammisi, sorridendogli «Allora, che dici... ci dovremmo andare a questo nuovo indirizzo? Non sembra proprio un posticino rispettabile, tra trafficanti di diamanti e mafiosi»
«Beh... no». Lui era d'accordo con me, ma con una sorta di amarezza aggiunse: «Ma non possiamo tirarci indietro ora, non credi? La succhiasangue ti ha lasciato questo indizio per qualche motivo. Magari hai una prenotazione o qualcosa del genere»
«Se ci sono cose da compare, Alice ha scordato che siamo poveri come la polvere in confronto a loro. Non possiamo permetterci lavoretti costosi ed illegali, né capisco a che potrebbero mai servirci»
«Quindi... ci andiamo?».
Ci pensai. Alla fine annuii. «Ci andiamo».
A quel punto ero pronta ad aspettarmi qualsiasi cosa: già immaginavo un covo ad alta tecnologia come quello dei cattivi di James Bond. E quindi pensai che Max doveva avermi dato l'indirizzo sbagliato per mettermi alla prova. O forse il covo era sotterraneo, sotto un banalissimo centro commerciale, annidato sul fianco della collina boscosa in un bel quartiere residenziale.
Parcheggiai nella prima piazzola libera e alzai lo sguardo verso un cartello molto elegante con la scritta “JASON SCOTT, PROCURATORE LEGALE”.
«Scott? Non era Jenks?» Chiese Jacob
«Beh, sarà Jenks per i trafficanti di diamanti» replicai, smontando dall'auto.
All'interno l'ufficio era beige con tonalità verde sedano, inoffensivo e niente affatto minaccioso. Vidi Jacob annusare l'aria con la coda dell'occhio, ma era evidente che ritenne gli odori dentro la stanza irrilevanti, o quantomeno non nocivi, e si rilassò. Nel muro era installato un acquario e dietro alla scrivania sedeva una segretaria di bell'aspetto, con i capelli di un biondo molto intenso raccolti una crocchia alta, che indossava una camicia bianca pulita e aveva un paio di occhiali dalla montatura scura appollaiati sul naso dritto.
«Salve» Mi salutò «Cosa posso fare per lei?». Aveva una voce del tutto priva di accento, molto piacevole. Quando vide Jacob ammendò prontamente con un: «Cosa posso fare per voi?»
«Uhh» Disse Jacob
«Dobbiamo vedere il signor Scott» mi avvicinai, con le braccia intrecciate davanti a me
«Avete un appuntamento?»
«Non proprio».
Sfoderò un sorriso affettato «Allora potrebbe volerci un bel po'. Perché non vi sedete, intanto che...».
April!” Strillò perentoria una voce maschile dal telefono sulla sua scrivania. Non mi piacque sin da subito: aveva una note arrogante ed una qualità poco pulita, stridula, tenorile. “Fra poco deve arrivare una certa signora Cullen”.
Sorrisi ed indicai la mia persona.
La faccia entrare subito da me. Ha capito? Non importa se m'interrompe”. Caspiterina, ero diventata un pezzo grosso.
Nella sua voce sentivo altre sfumature oltre all'impazienza. Stress. Nervosismo.
«È proprio qui» Disse la povera April, appena lui la lasciò parlare
Come? La faccia entrare! Cosa sta aspettando?”.
«Subito, signor Scott!». Si alzò in piedi, agitando le mani mentre mi faceva strada lungo un breve corridoio e mi offriva caffè, tè o qualsiasi altra cosa desiderassi.
«Prego» Disse, e ci fece entrare in un ufficio da dirigente, con tanto di scrivania in legno massiccio e diplomi alle pareti.
Io passai ingobbendomi per un attimo, mentre Jake entrò a testa alta, facendo sembrare la stanza leggermente più piccola.
«Si chiuda la porta alle spalle» Ordinò la stridula voce tenorile.
Studiai l'uomo dietro la scrivania, mentre April si ritirava in fretta. Era basso e stempiato, sui cinquantacinque anni e panciuto. Portava una cravatta di seta rossa con una camicia a righe bianche e azzurre; c'era un blazer blu appeso allo schienale della poltrona. E poi tremava, era così pallido da aver assunto un malsano colorito giallastro, con la fronte imperlata di sudore: m'immaginai la sua ulcera che ribolliva sotto il salvagente di lardo.
«Sembra l'incrocio tra Paul Heyman daltonico ed un chihuahua obeso, tutto in un solo essere» Mi sussurrò Jake all'orecchio in tono ammirato, e repressi malamente una risata.
Paul Heyman era un manager della WWE, che in effetti aveva una somiglianza, piuttosto vaga a voler essere onesti, con il signor Jenks o Scott che dir si volesse, ma a differenza sua Heyman era roseo e non sembrava malaticcio.
Non sono certa di cosa si aspettasse, ma nello stupore che attraversò i suoi lineamenti lessi che io e Jake non eravamo affatto ciò che Jason Scott si aspettava di vedere. In effetti, Max non aveva mentito quando mi aveva descritto come pallida e desiderosa di una buona dormita, ma supponevo che la mia somiglianza con la marmorea bellezza dei Cullen finisse lì. E poi c'era Jake.
Comunque si ricompose in fretta e si alzò malfermo dalla sedia. Mi porse la mano sopra la scrivania.
«Signora Cullen?» Disse, interrogativo.
Io annuii e gli andai incontro. Lui ne parve rassicurato. «Signora Cullen» Ripeté «È davvero un piacere».
Gli andai incontro e gli strinsi la mano rapidamente, una volta sola. Rabbrividì leggermente al contatto della mia pelle fredda, ma non parve particolarmente sorpreso.
Non sapevo se avesse una vaga concezione di cosa fossero i vampiri o avesse delle aspettative in particolare verso i Cullen, e se quella per lui costituisse una prova, ma in realtà avevo le mani congelate perché ero in ansia e fuori c'era davvero un tempaccio. Se avessi stretto la mano ad un vampiro vero ero certa che l'avrei trovato comunque più freddo di me.
«Signor Jenks. O preferisce che la chiami Scott?» Chiesi facendomi di un passo indietro perché anche Jake potesse stringergli la mano.
Jenks fece un'altra smorfia: la stretta di Jacob doveva essere bollente dopo la mia, ed avevo l'impressione che gli avesse stritolato le dita grassocce. Jacob non si presentò e mi si affiancò, ma Jason non parve trovarlo affatto strano.
«Che ne dice se lei mi chiama Bella e io la chiamo J.?» proposi. Decisi di svelargli il mio nome, anche se era solo il nomignolo che mi davano i Cullen, nella speranza che Alice gli avesse accennato a me.
«Come vecchi amici» Accettò lui, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di seta. Mi fece cenno di sedermi e fece altrettanto «Devo proprio chiederglielo: sto facendo conoscenza, finalmente, con l'adorabile moglie del signor Jasper?».
Soppesai l'informazione per un secondo. E così quell'uomo conosceva Jasper, non Alice. Lo conosceva, e aveva anche l'aria di temerlo.
«Uuh, con la cognata, a dire il vero».
Increspò le labbra, come se cercasse disperatamente un senso a tutta la faccenda, proprio come lo cercavo io. Cognata era un termine di parentela piuttosto ambiguo, almeno speravo. Ero la cognata di Jasper o di Alice? Di Rosalie, Emmett? Ero ignorante con i nomi delle parentele? Non poteva saperlo, il mistero era lì.
«E il suo amico?» Chiese, accennando a Jacob
«Lui è qui per scortarmi. È un buon... amico. Non è vero, Jacob?» mi voltai a guardarlo, indugiando sulla parola “amico” come che se avesse sottinteso qualcosa di diverso, e più pericoloso. Lui annuì, serio.
«È piuttosto giovane»
«È piuttosto abile» assicurai, asciutta. Aggiunsi un sorriso stretto.
«Il signor Jasper sta bene, immagino?» Chiese Jenks, cauto
«Grazie per avere chiesto. Al momento si è preso una lunga, lunga vacanza».
L'affermazione sembrò chiarire un po' la confusione di J. , che annuì fra sé e giunse le mani «Per l'appunto. Avrebbe dovuto venire nel mio ufficio principale. Le segretarie l'avrebbero condotta direttamente da me, facendole evitare canali meno ospitali».
Annuii e basta. Chissà perché Alice mi aveva dato quell'indirizzo nel ghetto.
«Beh, comunque, ora è qui. Cosa posso fare per lei?».
Esitai solo un secondo. «Documenti» Dissi, cercando di avere la voce di una che sapeva il fatto suo. Jacob fu bravo: lo sbigottimento gli apparì in faccia per solamente un attimo prima di sparire.
«Ma certo» Accettò subito J. «Parliamo di certificati di nascita, di morte, patenti, passaporti, tessere sanitarie...?».
Inspirai profondamente e provai un sorriso per prendere tempo.
Poi il sorriso svanì. Alice mi aveva mandata qui per un motivo ed ero sicura che la risposta fosse proprio lì davanti ai miei occhi. Certificati di nascita o morte, passaporti, patenti... tutte cose che potevano servire a condurre una vita, una vita nuova.
L'ultimo dono che mi faceva. L'unica cosa di cui era certa che avrei avuto bisogno.
La sola eventualità per cui potessi aver bisogno di un falsario era quella di una fuga. E l'unica eventualità che mi avrebbe costretta alla fuga era la nostra sconfitta.
Non avevo mai sentito nessuno che parlasse di un fallimento nelle previsioni di Alice: cercai di discriminare in base a quale criterio Alice aveva agito in quel modo. Mi sedetti su una delle poltrone comode ed insipide dello studio del signor Scott, ignorando per un attimo il tono preoccupato con cui chiamò il mio – o quello che credeva fosse il mio – nome.
Se lei aveva preso in considerazione che io avessi qualche possibilità di scappare, Demetri, il segugio dei Volturi, era morto definitivamente o sarebbe morto durante lo scontro finale. Perché se avessimo perso Aro non si sarebbe mai lasciato sfuggire la possibilità di frugare un po' nella testa di Edward, magari integrarlo nella sua guardia... ed avrebbe saputo di me, dell'umana di troppo, e sarei sicuramente divenuta un inconveniente sgradevole di cui sbarazzarsi, con una morte o l'altra. Vampira o cadavere. Non-morta per sempre o morta per sempre.
Ma se Demetri fosse morto, non sarebbe stato rilevante se avessero saputo di me o meno: semplicemente, non avrebbero saputo dove cercare. Ma allora perché non cercare di fare scappare gli altri?
Realizzai che, con tutta probabilità, Demetri sarebbe morto solo se gli altri avessero combattuto: vite perse in cambio della mia. E di quella di Alice: era fuggita senza temere di essere inseguita, dopotutto, la scomparsa di Demetri beneficiava parecchio della sua presenza.
Alzai gli occhi su Jacob. Sarebbe morto? Il mio sole personale, ora disponibile anche in versione pelosa, era solo un ragazzo, dolce e caldo. Non poteva finire così, non doveva finire così. E Seth? Avremmo perso tutte le Quileute, lasciando solo Sarah in un letto d'ospedale? Il pensiero di sapere in anticipo che avrebbero potuto cadere in battaglia tutte era agghiacciante. E anche i Quileute, che conoscevo di meno delle Ragazze del Tramonto, ma che mi avevano sempre fatta sentire a casa. Undertaker, il mio eroe d'infanzia, che da umano aveva deciso di unirsi alla causa. Era così ingiusto, così... Persino tutti i vampiri di Denali sarebbero stati spazzati via, resi polvere?
Mi sentivo il cuore pesante come una pietra nel petto: un peso che mi annientava. Tutte le mie speranze stavano dissipandosi come nebbia al sole, la testa mi pulsava.
Come sarei potuta fuggire e basta? Cosa avrei detto a Carlo? Umano ed indifeso, avrei dovuto portare via anche lui?
Ma qualcosa... non mi tornava. Schizzai fisicamente in piedi con la forza della mia epifania.
Parte della bravura di Alice Cullen nel capire il futuro, realizzai, non dipendeva solo dalla sua capacità di leggere il futuro in sé, ma di capire le persone. Alice Cullen poteva leggere le decisioni che qualcuno avrebbe attuato nel futuro, ma era impossibile che tutti avessero già deciso le mosse da fare in battaglia, e avessero già deciso arbitrariamente chi era morto e chi no. Lei non vedeva il futuro in modo assoluto: non era stata in grado di capire il mio giochetto con il primo segugio vampiro, e non era ancora al corrente di ciò che era accaduto a Jasper. Lei conosceva le intenzioni delle persone, calcolava qual era il risultato più probabile, et voilà, predizione fatta. Accurata, ma non certa.
Il futuro poteva essere cambiato. Nulla era scritto!
Alice mi aveva dato la possibilità che credevo mi mancasse: quella di scappare. Non dover combattere, andare via. Strinsi i pugni, osservando il viso di Jacob. Abbandonarli.
O rimanere e combattere, per quanto potesse combattere una piccola umana senza poteri, che stava scoprendo di non essere affatto senza poteri, e di essere molto più grande di quanto avesse immaginato. Ma sempre, fieramente, umana.
C'era la possibilità che io facessi andare tutto esattamente come aveva previsto lei, se avessi agito esattamente come lei si aspettava: fuggendo senza voltarmi indietro.
Ero davanti alla scelta più coraggiosa e folle che avrei mai potuto fare nella mia vita, e dall'altro lato il possibile rimpianto peggiore della mia vita. Ma li avevo entrambi adesso, e riflettei bene su entrambe, prendendomi il tempo che mi serviva, perché ero io a decidere il mio destino.
Ero io la variabile impazzita.
E dovevo davvero essere impazzita, perché, sorridendo al signor Jenks, scossi la testa.
«Non fa nulla, Jay. Faccia finta di non avermi vista oggi. Se avrò bisogno di lei, la contatteremo io o il signor Jasper. Grazie del tempo che ci ha dedicato, e ci dispiace di avergliene rubato un po'».
Mi guardò con aria sofferente «Oh. Ha cambiato idea»
«Mi dispiace. So già che non mi sto comportando come lei si aspettava»
«Sono abituato a non avere aspettative quando si tratta della famiglia Cullen». Fece l'ennesima smorfia, ma si ricompose rapidamente con un piccolo sospiro, che serviva a nascondere l'irritazione
«Perfetto. Grazie ancora, J.».
Mi alzai e gli strinsi di nuovo la mano. Stavolta non batté ciglio, sembrava avere già una nuova preoccupazione per la testa.
Anche Jacob gli strinse la mano, ed entrambi uscimmo dall'edificio. Avrei voluto salutare April dato che era stata molto cortese con noi, ma non la vidi dietro la scrivania ripassando.
«Scusa, che è successo alla fine?» Mi chiese Jacob, appena fummo al sicuro nell'abitacolo del pick-up «Sembrava che tu avessi avuto i flashback del Vietnam e poi non hai voluto più saperne. Che è successo?».
Ridacchiai, mettendo in moto, e mi sporsi per arruffargli i capelli.
«Posso?» Chiesi, un secondo prima di toccarli
«Prego». Passai una mano tra le ciocche nere. Forse era una mia impressione, ma sembravano più morbidi da quando era un licantropo. O forse era solo che avevano iniziato a ricrescere.
«Alice è stata... gentile» Esordii «In questo caso, ad indicarmi questo signor Jenks-Scott. Ma non è da me scappare in Messico con documenti falsi di punto in bianco».
Jacob arricciò il naso «Non so se ti ci vedo. O se non ti ci vedo»
«Cosa, in Messico? Sono sicura che ci starei una favola con il sombrero»
«Naah, a fare le fughe illegali. A volte sei così... una dura. A volte proprio no». Lo ricompensai dell'analisi psicologica approfondita con una linguaccia.
«Fidati, non è da me» Sorrisi «Forse c'è davvero un po' di poliziotto in me»
«Geni Cigna» scherzò Jake «Quindi è davvero tutto a posto, Belarda?»
«Tranquillo, Jacob. È solo che non vendeva niente che fossi interessata a comprare».
Insieme ci lasciammo alle spalle J. Jenks, e tornammo verso la apparentemente tranquilla cittadina di Forks.

A casa passai un pennarello indelebile sul frontespizio della mia copia de Il Mercante di Venezia, e cancellai gli appunti sul telefono. Alice era pazza più di quello che sembrava se pensava che avrei bruciato i miei libri così.

martedì 27 novembre 2018

Sunset 76 - Leggi questo messaggio, poi distruggilo




Ancora calda dopo il bagno rilassante che mi ero fatta prima di andare a dormire, scesi in pigiama le scale. Era gratificante non puzzare più di sudore: evviva i prodotti per l'igiene alla fragola!
Camminai in punta di piedi, con Dracula che zampettava sui gradini, naturalmente silenzioso.
La casa era buia salvo per il salotto, che era illuminato dalla luce della televisione sintonizzata su un canale sportivo. In quel momento non c'era nessun programma in onda, solo la pubblicità di proteine che, da come la mettevano loro, ti avrebbero fatto diventare le braccia grosse quanto due piccoli rinoceronti non appena avessi alzato un peso da due chili.
Cercai e trovai papà che sonnecchiava mezzo addormentato sul divano, scivolato un po' di lato, con Lillo acciambellato in braccio e profondamente addormentato. Sorrisi e gli sfiorai una spalle, mentre Dracula si strusciava tra le mie caviglie, per poi salire con un balzo agile e silenzioso sul divano.
«Pa'?»
«Hnn». Lui aprì un occhio
«È tardi. Forse è meglio che cominci ad andare a dormire di sopra?». In realtà era un'affermazione, ma la formulai come una domanda per incitare il suo cervello ad uscire dal dormiveglia per capire qual era la risposta. «Vai? O vuoi rimanere qui? Però qui fa freddo»
«No no» biascicò, prima di sbadigliare, e mi regalò un sorriso assonnato «È ora, hai ragione. Grazie Bells. Che diligente che sei»
«Grazie papà. Anche tu sei diligente»
«Io non faccio niente tutto il giorno»
«Tu fai più pulizie di me, e ci guadagni il cibo. Io faccio solo la lavatrice e cucino. Mi hai persino riordinato la libreria».
Lui negò nel mezzo di uno sbadiglio: «Gno»
«Come no?»
«Sarai stata tu e poi ti sei scordata. Succede. Mica la gente ti entra in casa per ordinarti le cose, solo per rubarle». Una scintilla di intuizione balenò nella mia mente, anche se ancora non riuscivo a capir bene di cosa si trattasse. Perlomeno, papà sembrava decisamente più articolato.
«Ti posso lasciare o ti riaddormenti?»
«No, vai, vai». Papà si stiracchiò verso l'alto, cercando di muovere le braccia ma non la parte inferiore del corpo per non svegliare Lillo di soprassalto.
Risalii al piano di sopra, squittendo per richiamare l'attenzione di Dracula e farlo salire con me. Lui si girò; al buio sembrava una sagoma di nero solido con due occhioni, e la punta dei dentoni bianchi, e francamente era una delle cose più adorabili su cui avessi posati gli occhi.
No, la più adorabile.
La sagoma di papà si rilassò nuovamente e annaspò per il telecomando sui cuscini, mentre Dracula mi si affiancò con un «Mruu» sommesso e mi superò, arrivando in stanza prima di me.
La mia camera era illuminata dalla luce lunare: ormai avevo smesso di preoccuparmi di possibili vampiri appiccicati ai vetri. Li conoscevo tutti, e avevano tutti affari più pressanti di cui preoccuparsi che non fossero stalkerarmi. Certo, se ci fosse stato Garrett alla mia finestra avrei avuto una paura del diavolo, ma adesso preferivo godermi la luce bluastra della notte piuttosto che preoccuparmi.
Probabilmente lui era a farsi taserare a morte o qualcosa del genere.
Dracula si acciambellò sul letto e mi guardò, gli occhi rossi espressivi. Adoravo come la sua pelliccia sembrasse inargentata di notte, e come invece si tingesse di marrone-rossiccio sotto il sole intenso. Era una peculiarità delle pellicce scure. Mi chiesi se fosse lo stesso anche per Sam Uley.
Mi misi davanti alla collezione di libri di Shakespeare incriminata, osservandoli con occhio critico. Un'altra scintilla di intuizione sprizzò quando vidi che il nuovo ordine in realtà non seguiva un ordine: non era alfabetico, né cronologico, né di popolarità. Il primo libro era Il Mercante di Venezia, l'ultimo Romeo e Giulietta.
Un'altra scintilla di ispirazione, ma ancora non capivo. Passai il dito sul dorso blu del primo libro. E finalmente capii, mentre il mio dito era sulla “Ve” dorata di Venezia. Ne ero sicura!
Il mio caro papà si sbagliava. C'era gente che ti entrava in casa, apparentemente, per riordinare le cose anziché prendersele. E forse anche per lasciare degli indizi.
Alice avrebbe potuto scrivere il messaggio su un masso, o sul tronco di un albero, se non aveva carta o penna a disposizione. Avrebbe potuto rubare un blocchetto di post-it da una qualunque delle case lungo la strada. Perché proprio un libro? Perché proprio il Mercante di Venezia? Perché il mio Mercante di Venezia? Quando l'aveva strappata, quella pagina, e che diamine di comportamento villano era?
Sentivo che voleva dirmi qualcosa, ma perché proprio quest'opera? Non mi veniva il nesso con la nostra situazione, non capivo cosa volesse dirmi. Ma se aveva usato come carta uno dei miei libri, che in casa mia sarebbe potuto essere sfogliato soltanto dalla sua proprietario, aveva voluto mandare un messaggio indirizzato a me solamente; avevo uno scudo per cui neppure Edward avrebbe potuto carpirmi alcuna informazione dalla mente, qualunque cosa avesse voluto comunicarmi era al sicuro con me. Insomma, se avesse voluto mandarlo ad Edward avrebbe preso uno dei suoi libri, no?
Sfilai Il Mercante di Venezia e lo aprii al frontespizio, alla luce della luna.
Accanto allo strappo pulito della pagina mancante, sotto la dicitura “Il Mercante di Venezia di William Shakespeare”, trovai un appunto vergato a mano:
Poi distruggilo.
Seguivano un nome, J. Jenks, ed un indirizzo di Seattle. Portai il libro con me mentre mi sedevo di fronte al mio lentissimo computer, e lo collocai accanto alla tastiera. Ci passai sopra le mani, mentre il monitor si illuminava, avviandosi lentamente. Tamburellai le dita silenziosamente sul ripiano di legno della scrivania e ripassai ai testi.
Ci volle un'infinità perché il computer riuscisse a caricare i risultati della mia ricerca, ed aggrottai le sopracciglia.
Nessun J. Jenks, però c'era un Jason Jenks. Avvocato.
Dracula mi balzò in braccio e lo accarezzai lungo tutta la schiena morbida di pelo fitto e soffice, attendendo che caricasse il link su cui avevo cliccato, e il micio mi ripagò con sonore fusa.
Il sito dello studio di Jason Jenks era ben fatto, ma l'indirizzo sulla homepage era sbagliato, o quantomeno diverso da quello che mi aveva dato Alice. A Seattle, si, ma con un codice postale diverso da quanto mi risultava. Presi nota del numero di telefono e cercai a cosa corrispondesse l'indirizzo, approfittando delle lunghe pause per coccolare Dracula, ma non trovai nulla: come se non esistesse. Diedi un'ultima passata sui tasti, a cancellare tutto...
Non volevo che in qualche modo mi rimanesse in cronologia un avvocato collegato ad un indirizzo che non esisteva. A questo proposito, Alice mi aveva chiesto di distruggere il messaggio che mi aveva lasciato, ma io non ci pensavo proprio a distruggere il mio libro. Per di più, non mi sarei mai ricordata nulla se avessi cancellato tutto.
Mi ripromisi di passare un pennarello nero sul frontespizio appena avessi finito.
Ma poi appena avessi finito cosa? Ci sarei davvero andata, da un avvocato losco che mi aveva consigliato Alice? Continuava a non avere senso. Un avvocato, il Mercante di Venezia, la fuga di Alice. Da cosa erano unite tutte queste cose? Cosa voleva Alice da me?
Spensi il computer e mi infilai sotto le coperte, con Dracula acciambellato sui piedi. Non sapevo se sarei dovuta andare all'indirizzo, se avessi dovuto raccontarlo a qualcuno...
La curiosità aveva quasi vinto, quando, troppo spossata, accantonai ogni cospirazione e mi addormentai.
Alla fine avevamo radunato diciassette testimoni: gli irlandesi Siobhan, Liam e Maggie; gli egizi Amuni, Kebi, Benjamin e Tia; le amazzoni Zafrina e Senna; i rumeni Vladimir e Stefan; e i nomadi Charlotte e Peter, Garrett, Alistair, gli immemorabili Mary e Randall, oltre agli otto membri dei Cullen. Tanya, Kate, Eleazar e Carmen insistevano perché le considerassimo tali.
A parte i Volturi, si trattava probabilmente della più grande adunata amichevole di vampiri adulti nella storia degli immortali.
Stavamo cominciando a nutrire speranza, determinazione.
Gli ultimi due rumeni superstiti, tutti concentrati sull'acre risentimento per coloro che avevano rovesciato il loro impero millecinquecento anni prima, se la presero con molta calma. Non mi toccarono né parvero particolarmente interessati a me, mentre sembravano misteriosamente deliziati dalla nostra alleanza con i licantropi. Mi guardavano esercitare il mio scudo con Zafrina e Kate, osservavano Edward rispondere a domande silenziose, vedevano Benjamin scatenare geyser nel fiume e folate di vento dall'aria immobile con la sola forza del pensiero, e ad entrambi brillavano gli occhi per la violenta speranza che i Volturi avessero finalmente trovato pane per i loro denti.
Non speravamo tutti le stesse cose, ma speravamo tutti.



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