«Torna presto, Belarda» Mi disse
Jessica con entusiasmo, baciandomi su entrambe le guance. Avevo preso
come abitudine farlo alla fine di ogni lezione per salutarla, e alla
fine lei sembrava averla trovata una cosa divertente abbastanza da farlo
a sua volta con me.
«A proposito» Sbottò allontanandosi un po' da me, pensierosa
«A proposito di cosa?»
«Del
tuo nome. Il mio nome è molto più semplice da abbreviare. Io sono Jess,
Angela è Angie o Ange, e tu? Bella hai detto che non ti piace, no?».
Mi strinsi nelle spalle «Infatti, non mi piace»
«Bela?»
«No, sembra Bela Lugosi. Mi può chiamare così solo Mike».
Mi
lanciò uno sguardo di fuoco, ma me la cavai con un sorrisetto di scuse:
stava solo scherzando. Ad ogni modo, rimediai con un'offerta di pace:
«Mio padre mi chiama Bells. Puoi farlo anche tu. È molto...»
«Natalizio»
mi sorrise Jessica, graziandomi con un bel sorriso «Mi piace. Bells. Se
non me lo dicevi, finiva che ti chiamavo Larda»
«No, Larda no, ti prego»
«Allora
a dopo, Bells!». Soddisfatta della sua nuova scoperta, mi strinse in un
abbraccio e lasciò che io tornassi al mio pick-up solo dopo che le ebbi
picchiettato su una spalla.
La salutai per la
terza volta da dentro l'abitacolo, poi mi allontanai, ricapitolando
tutte le cose che avevo in programma di fare. C'erano tante cose a cui
pensare! Dove avrei trovato il tempo per mettermi sulle tracce di J.
Jenks, e perché Alice me ne aveva parlato?
Adesso dovevo andare a La Push, ed intanto chiamare papà per capire cosa voleva fare.
Poggiai
il cellulare sull'altro sedile anteriore con il vivavoce per poter
avere entrambe le mani libere, tanto non stavo andando veloce. Dopo
avere accettato la mia chiamata, Carlo tacque talmente a lungo da farmi
temere che uno dei nostri due cellulari si fosse misteriosamente rotto.
Ma poi borbottò «Top secret, puah!» e io capii che stava parlando con qualcun altro che era presente.
«Papà!» Urlai verso il mio cellulare, tenendo gli occhi fissi sulla stradale
«Bells!» mi rispose, allegramente
«Mi fai pagare un sacco di soldi se ti chiamo e non mi rispondi»
«Eh, hai ragione. Dovevo staccare e richiamare. Ho i minuti. Va bene, si, ora arrivo»
«Va bene, ma dove vai? Ma c'è qualcun altro con te, vero papà?».
Lui
rise, un po' imbarazzato «Si, c'è Sue. È così gentile da prepararmi il
pranzo, visto che starai fuori tutto il giorno oggi. La mia cucina le fa
orrore, proprio come a te quando eri appena arrivata»
«A
me fa ancora orrore, solo che ora non lo dico perché tanto cucino io.
Tant'è che una donna sposata ha sentito il bisogno di cucinare per te,
oltre che per la sua famiglia»
«È il mio fascino»
«È
sicuramente il tuo fascino» confermai, annuendo anche se non poteva
vedermi. Se Sue non fosse già stata felicemente sposata, avrei fatto un
gran tifo perché si mettessero assieme: erano così dannatamente carini
assieme! Erano amici da più di vent'anni, si conoscevano a vicenda come
le proprie tasche e, da quando l'avevo conosciuta come si deve da
grande, avevo preso in grande simpatia Sue.
Dato che
invece era felicemente sposata, non mi restava che fare un tifo pacato, e
fare finta di non starlo facendo. Volevo vedere papà felice, innamorato
di qualcuna che gli volesse bene davvero, perché se lo meritava. Ma
anche che fossero amici mi andava bene, mi sarei potuta accontentare.
«Va bene, piccola. Vai da Jake?».
Anche
se Carlo non sapeva niente dell'allenamento dei licantropi, non gli era
stato difficile notare il pattern con cui gestivo le mie giornate.
Perlomeno, sapeva che passavo la mattina dai Quileute e\o da Jessica
molto spesso.
«Probabile» Ammisi, considerando che
Jacob non si sarebbe perso di sua volontà una mattina con me, ma senza
succhiasangue intorno. Gli avrei chiesto di accompagnarmi da J. Jenks,
spiegandogli la situazione... dopotutto era imprudente andare
completamente da sola. Chi mai lo avrebbe fatto?
E
poi avevo scelto oggi apposta, dopo due giorni dall'aver ricevuto
l'informazione, perché sapevo che era il “giorno libero” di Jake. Anche i
licantropi avevano bisogno di pause dall'allenamento intensivo che
stavano conducendo, o il loro fisico semplicemente non avrebbe retto
più.
«Forse allora dovrei invitare anche Billy» Ponderò Carlo «Ma... hmm. Un'altra volta, magari».
Nonostante
le mie riflessioni, prestavo abbastanza attenzione a quello che diceva
papà da notare la strana esitazione nella sua voce quando nominò Billy.
Era perché voleva rimanere da solo con Sue o aveva avuto problemi con
Billy? Eppure un paio di giorni fa andavano d'accordissimo.
«Tutto okay?»
«Ah, si certo, Bells. Perché?»
«Intendo, tutto okay con Billy?».
Stavolta la risposta tardò un po' di più ad arrivare «... Si. Niente di che. Perché?».
Carlo
e Billy erano adulti: se avevano dei problemi fra loro, li potevano
benissimo risolvere da soli. Io ero già assillata da molte altre
incombenze ben più importanti.
«Parla con Billy. Ti voglio bene pa'. A fra poco» Gli dissi e riagganciai.
Quando
arrivai a casa dei Black, Billy mi salutò bruscamente per poi
rintanarsi nuovamente in casa ed evitarmi. Ah, questi adulti.
«Belarda! Come va la Ferrari?» Mi disse a mo' di saluto Jacob.
Il
più giovane dei Black, invece, non deludeva mai. Mi venne incontro per
abbracciarmi; era caldo caldo, complice anche il fatto che era più
semplice per me sentire il suo calore corporeo quando non indossava la
maglietta.
«Da' troppo nell'occhio» Risposi,
strizzata nel suo abbraccio «Fa rumori di bestia feroce ed è un pick-up.
Ma si può aggiustare, vero?»
«Hmm, forse non c'è molto da fare»
«Mi sa che dovremo andare a piedi allora. Dì un po', ma tu ormai le magliette non le metti più?».
Jacob
mi rivolse un sorriso radioso. «Risparmiamo, mio padre non mi compra
più i vestiti da quando ci sono stati degli... uhm, incidenti con le
trasformazioni. Hai visto che fisico, eh? Hai visto?».
Tra
tutto l'allenamento che faceva e il modo in cui il calore e la crescita
accelerata a cui era sottoposto, il suo fisico si era davvero
tonificato ed asciugato, mostrando una tartaruga da pubblicità. Il
colore naturale della sua pelle dava giusto quel pizzico in più per
farlo sembrare ancora più invidiabile.
«Ah, allora è così, svergognato? Vuoi fare vedere a tutti il tuo pancino, per questo non ti vesti più?»
«Dai, Belarda! Sono messo bene, ammettilo!»
«Lo ammetto, lo ammetto. Ma se ti metti una maglietta, vieni con me che ti porto in un posto».
Lui
mi guardò incuriosito, ma finalmente obbedì. Lo attesi seduta sul muso
del mio fido pick-up, guardandomi attorno. Vidi Billy Black guardarmi
storto da una finestra, e poi richiudere la tapparella in fretta, non
appena si accorse che lo avevo individuato. Qualunque problema avessero
Carlo e Billy, dovevano proprio risolverlo.
«Eccomi!»
Esclamò Jacob di ritorno. Si era messo una maglietta grigia e semplice,
pulita, con su la stampa dell'impronta di un lupo in nero.
«Che carino» Mi complimentai, scivolando giù dal muso del pick-up
«Ti
prego, non mettermi in condizione di dovermi trasformare. Questa è
l'ultima maglia buona che ho. Il resto sono tutte brutte o in
lavatrice».
Alzai le mani. «Io farò del mio meglio, ma non ti prometto niente».
Lui
si strinse nelle spalle, e si infilò dentro lo Chevy. Per un attimo mi
chiesi se ci sarebbe entrato, ma alla fine ci accomodammo entrambi senza
problemi.
«Allora, come stai?» Gli chiesi mentre uscivo dal vialetto
«Come
credi che stia?» chiese Jacob sarcastico «Sono stufo di tutti quei
succhiasangue puzzolenti». Vide la mia espressione e parlò prima ancora
che potessi rispondergli «Si, lo so che dovremmo collaborare, però, di'
pure quello che vuoi, ma io continuo a pensare che Dracula Uno e Dracula
Due facciano proprio senso».
Sorrisi. Neanch'io andavo matta per i due ospiti rumeni. «E chi ha detto niente? Non posso darti torto».
Lui
fece una smorfia «Seth non fa che pensare ai succhiasangue quando siamo
trasformati. Continua a bombardarci di domande e curiosità sui vampiri,
come se fosse una specie di hobby per lui. Uno di quegli hobby
incomprensibili, tipo allevare zanzare. E sembra anche che lui piaccia alle
zanzare! Ieri gli ha chiesto di quella pelle strana, ai due rumeni, e
dato che gli hanno risposto non faceva altro che pensarci».
Ero quasi felice che glielo avesse chiesto: ne ero curiosa anch'io. «E allora? Si sono offesi?»
«No, no. Tutt'al più un po'... colpiti. Addolorati»
«E perché hanno quella pelle strana?»
«Dicono
che sono rimasti seduti troppo tempo. A “contemplare la loro divinità”,
credo che abbiano detto così, a crogiolarsi sugli allori. Non dovevano
neanche muoversi per avere quello che volevano: prede, diplomatici,
persone che volevano conquistarsi i loro favori, erano loro a
raggiungerli» Jacob sembrava pensieroso «Così non si sono neanche
accorti di stare cambiando. Di starsi... pietrificando, quasi. Poi i
Volturi hanno bruciato i loro castelli, e allora sono stati costretti a
muoversi e hanno smesso di trasformarsi in pietra. Credo che sia una
cosa da vampiri antichi, perché nei ricordi di Seth Dracula Uno diceva
che i Volturi hanno gli occhi pieni di “porcherie polverose”»
«Porcherie polverose? Ha detto così?»
«Si! Non me lo aspettavo. Parla tutto...»
«Forbito? Aulico?»
«Si,
quello. Altisonante, sai. Non mi aspettavo che dicesse “porcherie
polverose”. O che i Volturi ce le avessero negli occhi. Chissà che
schifo, quando li vedremo. Non mi hai ancora detto dove stiamo andando»
osservò Jacob, rilassato «Poi devo tornare, per l'allenamento».
«Stiamo andando a fare un'indagine, in un certo senso».
Il tono della mia voce attirò la sua attenzione.
«Devi combinare qualcosa di pericoloso?»
«Jake, hai presente quanto sei bravo a controllare i pensieri in presenza di Edward?».
Da
un tipo schietto ed estroverso come lui non mi sarei aspettata
un'abilità del genere, ma a quanto pare aveva una mente molto ordinata.
Non era una cosa da licantropi, purtroppo per il benessere mentale del
branco, ma solo da Jake.
Lui alzò un folto sopracciglio scuro: «Ah sì?».
Annuii,
spostando lo sguardo sulla strada con tanta concentrazione da far
pensare che l'avrei incenerita. Jacob aspettò che aggiungessi
qualcos'altro, e poi sporse il labbro inferiore mentre rifletteva sul
poco che gli avevo detto.
Si era messo a piovere, una
pioggerella fitta e gelida che diminuiva notevolmente la visibilità
stradale. Faceva freddo, anche se non abbastanza perché potesse nevicare
entro giornata.
Sospirai. «Si». Lui mi guardò quasi sobbalzando, forse non si aspettava che gli avrei dato altre informazioni.
«E su cosa andiamo ad indagare?»
«Un
indirizzo ed un nome: J. Jenks. Non ho scoperto molto da sola, tranne
che è un avvocato con un sito web ben fatto. Per qualche motivo me li ha
lasciati Alice...» vidi la sua espressione, e capendo di averlo messo
in difficoltà specificai «La succhiasangue che vede il futuro. Erano
scritti sul frontespizio di uno dei miei libri, il Mercante di Venezia,
con la raccomandazione di distruggerli. Voleva che questa informazione
arrivasse solo a me, per qualche motivo»
«Allora perché me lo stai dicendo?»
«Perché
c'è qualcosa di strano, e io mi fido di te. L'indirizzo che mi ha dato
con il nome, J. Jenks, non è quello segnato sul suo sito web per la sua
attività. Sembra che Alice avesse un grande disegno per tutta questa
storia, leggendo nel futuro, quindi è giusto che io controlli credo, ma
non voglio andare del tutto allo sbando. E tu sei uno con i piedi a
terra e che sa tenere a freno i pensieri, quindi sei la persona giusta,
non credi?».
Lui mi guardò di sottecchi, con un
sorrisetto. Era lusingato dalla fiducia che avevo riposto in lui, e
probabilmente divertito dal fatto che solo noi due sapessimo di
quest'informazione: era come giocare alle spie. Non vidi traccia di
preoccupazione sul suo volto.
«Fico» Disse «Quindi investighiamo sull'avvocato?»
«Sarebbe quella l'idea»
«Fico» ripeté lui con convinzione, guardando davanti a sé.
Le
strade erano abbastanza viscide da convincermi a rallentare un poco.
Volevo portare a termine la missione, risolvere il mistero in modo da
potermi dedicare al compito cruciale di apprendere. Apprendere a
proteggerne alcuni e ad ucciderne altri.
Ma se, e
ripeto se, avessi partececipato alla battaglia – il pensiero mi colpì,
perché per qualche motivo non lo avevo ancora formulato – avrei potuto
combattere i vampiri insieme ad Undertaker?
Intanto
stavo perfezionando sempre di più lo scudo. Kate non sentiva più il
bisogno di motivarmi: non mi era difficile trovare motivi per
arrabbiarmi, ora che conoscevo il trucco, perciò mi esercito soprattutto
con Zafrina. Mi sentivo l'Incredibile Hulk.
Ero
contenta della mia estensione: riuscivo a coprire una zona di quasi tre
metri per quasi un minuto, anche se farlo mi sfiancava. Ieri mattina
aveva cercato di scoprire se riuscivo a separare lo scudo dalla mia
mente. Non capivo l'utilità di quella prova, ma Zafrina pensava che mi
avrebbe resa più forte, un po' come allenare anche i muscoli addominali e
della schiena invece delle sole braccia. Alla fine si è capaci di
sollevare pesi maggiori quando tutti i muscoli sono più forti.
Beh,
io i pesi li facevo, ma lo scudo non si era mosso di un solo millimetro
dalla mia mente, garantendomi immunità totale dal fiume amazzonico che
Zafrina aveva cercato di mostrarmi.
Avevo il GPS sul
telefono e non ebbi molte difficoltà a localizzare l'indirizzo che in
rete non esisteva, quello di J. Jenks. Avevo salvato l'indirizzo nelle
bozze dei messaggi, perché sapevo benissimo che da sola non lo avrei mai
ricordato. Non mi sentivo molto sicura a girare con informazioni
potenzialmente sensibili in quel modo, ma non avevo molta scelta.
Se
non ci fosse stato niente, il passo successivo sarebbe stato cercare
Jason Jenks all'altro indirizzo, quello che mi aveva dato Alice.
Dire
che non era un bel quartiere sarebbe stato un eufemismo. L'automobile
più anonima fra tutte quelle possedute dai Cullen avrebbe comunque dato
nell'occhio in quella via. Il mio signor Chevy si integrava meglio,
anche se era comunque un signor Chevy.
«Queste» Disse solenne Jacob «Sono macchine buone solo per i pezzi di ricambio».
Chiusi
le sicure e ricacciai l'impulso forte di scappare sgommando il più
velocemente possibile. Cercai di immaginarmi Alice in quel posto, però
non ci riuscii senza aggiungerle una serie di capi d'abbigliamento che
la identificassero come una criminale. Come un passamontagna, che
probabilmente le avrebbe ammaccato i capelli facendone uscire appena le
punte curve, e magari un paio di occhiali da sole. Alla fine l'Alice
nella mia mente subì abbastanza modifiche per apparire nel vicolo che
poteva essere qualunque creatura vagamente a forma di Alice, ed ammisi a
me stessa che semplicemente non ce la vedevo lì.
I
palazzi – tutti di tre piani, tutti stretti, tutti leggermente inclinati
come se la pioggia battente li avesse piegati – erano soprattutto
vecchie case divise in appartamenti multipli. Difficile stabilire di
quale colore fosse in origine la vernice scrostata: tutto si era
sbiadito ad una sfumatura di grigio che poteva essere stato qualunque
cosa, fastidiosa nella sua ambiguità. Era come guardare attraverso un
filtro in bianco e nero un po' distorto e cercare di capire a cosa
corrispondesse quel tono di grigio senza trovare nessuna risposta
decente, ma sarei stata propensa per il verde.
Alcuni
edifici erano occupati da negozi al piano terra: un bar lercio con le
vetrine dipinte di nero, un negozio di forniture per sensitivi con mani
fosforescenti e carte dei tarocchi che brillavano intermittenti sulla
porta, un tatuatore e un asilo con la vetrina tenuta insieme dal nastro
isolante. Non potevo credere che qualcuno mandasse davvero i suoi figli
lì, a meno che non fosse il baby parking dei figli del tatuatore e
del rifornitore di veggenti. Nei locali non c'erano lampadine, anche se
fuori il tempo era brutto a sufficienza perché un po' di luce avrebbe
fatto davvero comodo, per vedere un accidente. Sentivo borbottare piano
qualche voce distante: sembrava un televisore a volume indecentemente
alto, anche se non ero certa da quale edificio provenisse.
Insomma, uno sfacelo.
In
giro c'era un po' di gente. E quando dico un po', intendo davvero
pochi: due persone che arrancavano sotto la pioggia in direzioni opposte
e un'altra seduta alla bassa veranda di uno studio legale da due soldi,
tutto sbarrato con assi: leggeva un giornale e fischiettava. Quel suono
era troppo allegro per l'ambiente, sembrava un espediente di Tarantino.
Ero
talmente sconcertata dal tizio che fischiettava spensierato da non
collegare sulle prime che l'edificio abbandonato dietro di lui era il
punto preciso in cui avrebbe dovuto trovarsi l'indirizzo che stavo
cercando. Sul palazzo in rovina non c'erano numeri civici, ma il
tatuatore lì di fianco era a soli due numeri di differenza. A meno che
non ci fosse la base dell'Ordine della Fenice da qualche parte, il posto
era quello.
Mi accostai al marciapiede e rimasi lì col motore al minimo per un po'.
«Belarda... ma che posti frequenti?»
«Che
posti frequenta Alice» sbuffai «Hanno delle scelte di amici, tutti i
Cullen... Beh, ora che siamo in ballo balliamo no?». Metafora infelice,
dato che facevo schifo a ballare.
«È tipo il
quartiere più malfamato in cui io abbia mai messo piede» Jacob si
guardava attorno affascinato «Sul serio. Se mio padre sapesse che sono
qui mi prenderebbe a colpi di battipanni»
«Meno male
che non lo sa» mi guardai intorno eloquente «Non da l'impressione di
essere una situazione straordinaria anche senza che tu venga preso a
colpi di battipanni»
«Secondo te dovremmo aggirarlo?» mi indicò il tizio che fischiettava con un cenno della testa
«Può darsi. Ma credo che abbia a che fare qualcosa con quel, ehm, quello studio legale»
«Non sono sicuro, eh. Sembra molto che si stia facendo i cavoli suoi. E se è un criminale?».
Rimanemmo
qualche secondo a contemplare la situazione, con i ruggiti del mio
pick-up come sottofondo. Almeno non sembravamo gente ricca, non avevamo
un'alta probabilità di essere attaccati per essere derubati.
«Ehi, signora» Mi chiamò il tizio che fischiettava.
Io? Io ero signora? Guardai il mio amico, come a chiedere spiegazione.
Dopo
un attimo di esitazione Jacob abbassò il finestrino dal suo lato per
lasciare che sentissimo meglio quello che diceva l'uomo. Il tizio mise
da parte il giornale e restai sorpresa, ora che vedevo i suoi abiti.
Sotto lo spolverino lungo e stracciato, era vestito un po' troppo bene.
La sua camicia rosso scuro aveva un aspetto serico e lucente: forse
seta. I capelli neri e ricci erano arruffati e in disordine, ma la pelle
scura era liscia e perfetta, i denti bianchi e dritti, e i mocassini di
pelle ai suoi piedi erano lucidi e per nulla consunti. Una
contraddizione allo spolverino.
«Mi sa che non è il massimo lasciare lì la macchina, signora» Disse «Potrebbe non ritrovarla quando torna»
«Grazie dell'informazione» Risposi «E dove sarebbe meglio parcheggiarla?».
Lui
sembrava non avere previsto una domanda del genere, perché si strinse
nelle spalle senza darmi altra risposta. Dopo aver controllato attorno
nella speranza di notare se ci fossero stati dei brutti ceffi pronti a
fregarmi il pick-up appena avessi messo il naso fuori dall'abitacolo,
spensi il motore. Non avevo intenzione di allontanarmi più di tanto, se
tutto andava bene.
Io e Jake ci scambiammo uno sguardo d'intesa, poi entrambi scendemmo dall'auto insieme
Forse
il mio amico che fischiettava poteva darmi le risposte di cui avevo
bisogno in modo più pratico che non scassinando quella casa o
sgattaiolando per i vicoli bui. Aprii il mio grande ombrello grigio,
anche se lo passai subito a Jacob ringraziandolo. Lui era più alto di
me, sarebbe stato più comodo per entrambi così.
Il
tipo socchiuse gli occhi nel vedere le nostre sagome avvicinarsi,
cercando di distinguerci oltre la cortina di pioggia, poi li sgranò.
«Sto cercando una persona» Cominciai titubante
«Io sono una persona» disse sorridendo «Cosa posso fare per te, bellezza?».
Bellezza? Signora?
Non
alzai lo sguardo a vedere che espressione avesse fatto Jacob, ma
qualunque cosa fosse apparsa sul suo volto sembrò preoccupare
Fischiolante, che continuava a gettargli occhiatine e aveva ridotto di
parecchio il proprio sorriso. Giusto per sicurezza.
«Per caso sei J. Jenks?» chiesi.
«Oh»
disse lui e la sua espressione passò dall'attesa alla comprensione. Si
alzò in piedi e mi studiò con gli occhi socchiusi «Perchè cerchi J.?»
«Questi
sono affari miei» dissi, con decisione, ma cercando di non apparire
sgarbata. Volevo sembrare risoluta, ma non una che si cerca dei guai. E
poi non avevo la minima idea del perché cercassi Jenks. «Ma tu sei J.?»
«No».
Restammo
così per un paio di minuti. Osservai una goccia formarsi velocemente
sul bordo dell'ombrello grigio, raggomitolarsi e lanciarsi verso il
basso, lucente e piena di sfumature come una perla.
«Non sembri una dei suoi soliti clienti» Disse l'uomo. Non si rivolse mai a Jake, anche se non ero sicura del perché.
«Si,
probabilmente sono insolita» Confessai. Ero una studentessa
probabilmente piuttosto anonima a vedersi, con una felpa grigia ed un
amico alto. Niente a che spartire con i clienti che immaginavo potessero
decidere di frequentare un avvocato per lavoretti a nero: criminali con
scritto “mamma” in un cuoricino trafitto sul braccio, altri avvocati,
killer pazzi, quel genere di persone. «Ma devo davvero vederlo al più
presto»
«Non so cosa posso fare» ammise lui a sua volta
«Perché non mi dici come ti chiami?».
Sorrise, sarcastico. «Max»
«Piacere, Max. E adesso perché non mi spieghi cosa intendi con quei soliti?». Avevo la mia idea, ma era meglio mettere le cose in chiaro.
Il sorriso si trasformò in una smorfia, e temetti di avere sbagliato
strada. «Beh, i clienti soliti di J. non ti assomigliano per niente. La
gente come te non viene nell'ufficio qui in centro. Normalmente si va
dritti nel suo ufficio di lusso nel grattacielo».
Diedi un'occhiata allo smartphone veloce, e recitai l'altro indirizzo
che avevo, recitando l'elenco di numeri in tono interrogativo.
«Si, è lì» Rispose di nuovo sospettoso «Perché non ci sei andata direttamente?»
«Mi
hanno dato questo indirizzo. Era una fonte... molto affidabile». No,
non lo era. Ma non era il caso di dirgli che probabilmente era una che
sarebbe stata bene nel negozio con le manine intermittenti accanto.
Max
fece un'espressione contrita. «Senti, signora... Questo lavoro mi
serve. J. Mi paga piuttosto bene per starmene qua a fare poco o niente
tutto il giorno». Schietto, il ragazzo. «Voglio aiutarti, davvero,
però... E naturalmente parlo da un punto di vista del tutto ipotetico,
giusto? O in via ufficiosa, o come preferisci, ma se lo metto in
contatto con qualcuno che può farlo finire nei pasticci, io ho chiuso.
Capisci il mio problema, vero?».
Ci riflettei un
attimo, aggrottando le sopracciglia. Dubitavo che a Seattle sapessero
che ero la figlia di un poliziotto, quindi doveva essere per forza un
discorso ipotetico. «Forse mi potreste fare parlare con lui. Sono certa
che J. conosce la ragazza che mi ha dato questo indirizzo».
Max
rimuginò su quell'informazione per un attimo. Gli sorrisi timidamente,
più che altro perché non sapevo che altro fare. «Senti un po' cosa ho
pensato di fare: adesso chiamo J. e gli possiamo descrivere questa
ragazza. E poi decide lui».
Annuii. Ero abbastanza
certa che si conoscessero, anche se non potevo esserne sicurissima. Ma
nel caso mi avessero fatto più domande, com'ero collegata ad Alice, la
situazione si sarebbe fatta molto più complicata...
«Di cognome faccio Cullen» Dissi a Max, e mi chiesi se non avessi esagerato.
Cominciavo
ad arrabbiarmi con Alice. Dovevo proprio andare così alla cieca? Così
come aveva scritto l'indirizzo sul mio libro da collezione, a questo
punto avrebbe potuto inserire anche qualche informazione in più...
«Cullen, ho capito».
Jacob
mi lanciò un'occhiata confusa, perfetto nel suo ruolo di guardia del
corpo silenziosa. Io gli sorrisi, come a rassicurarlo che sapevo quello
che stavo facendo. Lo osservai mentre componeva il numero. Aveva un
cellulare vecchiotto, di quelli con i tasti fisici e lo schermo
piccolissimo su cui c'erano le scrittine sgranate nere.
«Ehi, J. , sono Max. So che devo chiamarti a questo numero solo in caso di emergenza...».
Fu
interrotto, ed io iniziai a sudare freddo. Ero un'emergenza? Certo che
no. Si prendeva troppe libertà con quel numero? Speravo.
«Beh, non proprio. C'è una ragazza che vuole vederti...». Pausa. «Non l'ho seguita perché lei non mi sembra affatto normale...».
Chi
doveva seguire? Alzai lo sguardo a cercare quello di Jacob come una
sorta di rassicurazione. Ma lui sembrava smarrito e vagamente pronto a
prendere a pugni qualcuno, così, quando mi restituii lo sguardo, lo
indurii per farmi vedere come una che sapeva esattamente quello che
stava facendo e gli sorrisi.
«No... No... fammi
parlare, va bene? Dice che conosci sua sorella o qualcosa del genere.
È...» mi squadrò dalla testa ai piedi con uno sguardo elogiativo che mi
confuse «Beh, molto carina, e giovane, ecco com'è». Sorrisi, più ansiosa
che contenta dei complimenti, e lui mi fece l'occhiolino, poi proseguì.
«Pallida come un lenzuolo, capelli castano scuro lunghi oltre le
spalle, ha l'aria di aver bisogno di una bella dormita... ah, e c'è un
ragazzo con lei, alto alto e muscoloso. Ti ricorda qualcuno?».
Lui attese qualche secondo al telefono, e noi con lui.
«Si,
va bene, mi piacciono le ragazze carine, e allora? Che male c'è?»
Sbottò Max all'improvviso «Mi dispiace di averti disturbato, bello.
Lasciamo perdere».
Feci un gesto per attirare la sua attenzione: «Il nome» bisbigliai.
«Ah, giusto. Aspetta» Disse Max «Dice che si chiama... il nome non lo so, ma il cognome è Cullen. Ti ricorda qualcosa?».
Per
un attimo calò un silenzio tombale, poi la voce all'altro lato della
cornetta di botto si mise a gridare, usando una serie di vocaboli degni
di un'area di servizio per camionisti, ed a voce così alta che
trapelarono fino a noi. Jacob ridacchiò sotto i baffi e Max cambiò
completamente espressione: l'aria scherzosa sparì del tutto e le labbra
impallidirono.
«Non te l'ho detto perché non me l'hai chiesto!» Gli rispose Max urlando, in preda al panico.
Ci fu un'altra pausa, durante la quale J. si ricompose.
Disse
qualcos'altro, ma aveva abbassato di nuovo il tono e stavolta non lo
udimmo. «Te l'avevo detto, no?». Max aspettò un minuto mentre subiva
un'altra scarica di insulti ed istruzioni gridati a gran voce, poi mi
guardò con espressione quasi spaventata. «Ma il giovedì incontri solo i
clienti del centro... Va bene, va bene! Mi ci metto subito».
Chiuse il cellulare.
«Vuole vedermi?» Chiesi allegra.
Max mi guardò in cagnesco «Potevi dirmi che eri una cliente con la precedenza»
«Non sapevo di esserlo»
«Credevo fossi uno sbirro» mi confessò «Cioè, non è che lo sembri. Ma ti comporti in modo strano».
Feci spallucce, ma una parte di me si sentì orgogliosa di essere accomunata ad una poliziotta.
«Sei del cartello dei narcos?» Tirò ad indovinare lui
«Chi, io?» chiesi
«Si. O il tuo ragazzo, o chi ti pare» ed indicò Jacob, anche stavolta senza rivolgersi direttamente a lui
«No, mi dispiace. La droga non esalta me e nemmeno il mio ragazzo. Se la conosci la eviti, eccetera eccetera, hai presente?».
Max imprecò sottovoce «Fidanzata, eh. Mi sa che non ho proprio nessuna chance»
«Sarei minorenne, Max»
«Sei della mafia?»
«Nooo!»
«Traffico di diamanti?»
«Smettila! È questa la gente con cui hai a che fare di solito, Max? Forse è il caso che ti trovi un altro lavoro».
Dovevo ammettere che un pochino ino mi stavo divertendo.
«Devi essere dentro a qualcosa di grosso. E di pericoloso» Disse fra sé
«Non proprio» risposi, ma suonò sbagliato anche alle mie orecchie. Era una grossa, grossa bugia.
«Dicono
tutti così. Ma a chi servono i documenti, se no? Chi può permettersi di
pagare i prezzi a cui li vende J.? Forse questa è la domanda giusta, ma
comunque non sono affari miei».
Apprezzai la
discrezione di Max. Mi diede un ulteriore indirizzo, del tutto nuovo,
con indicazioni sommarie, poi, con uno sguardo sospettoso e amareggiato,
mi osservò mentre mi allontanavo.
Jacob scrollò
l'ombrello fuori dall'auto prima di richiuderlo per bene ed incastrarlo
tra il suo sedile e la portiera. Riaccesi l'auto, che prese vita con un
ruggito.
Io e Jacob non ci parlammo finché Max non fu fuori dal nostro campo visivo, poi Jacob esclamò:
«Sei stata fortissima!»
«Che ho fatto?»
«Non
so, gli hai parlato in un modo particolare. Come se fosse tuo amico o
qualcosa del genere. Te lo sei fatto buono e ti sei fatta dare il
numero, e poi lo hai manipolato con la storia dei Cullen. Sembravi
davvero uno sbir... una poliziotta, io invece non sapevo che dire,
pensavo che lo avrei dovuto minacciare da un momento all'altro, fare la
parte del duro»
«Tu hai fatto la parte del duro. Sono sicura che non mi avrebbe neanche presa in considerazione se non ci fossi stato tu»
«Si,
ma se fossi stato da solo saremmo rimasti tutti a guardarci in faccia,
non avevo idea di come gestire la cosa. Sai, sei portata, per le forze
dell'ordine. Che lavoro vorresti fare, Belarda?».
Risi sotto i baffi.
«Ci
sono tante possibilità che sto considerando. Entrare nelle forze
dell'ordine è una di queste» Ammisi, sorridendogli «Allora, che dici...
ci dovremmo andare a questo nuovo indirizzo? Non sembra proprio un
posticino rispettabile, tra trafficanti di diamanti e mafiosi»
«Beh...
no». Lui era d'accordo con me, ma con una sorta di amarezza aggiunse:
«Ma non possiamo tirarci indietro ora, non credi? La succhiasangue ti ha
lasciato questo indizio per qualche motivo. Magari hai una prenotazione
o qualcosa del genere»
«Se ci sono cose da compare,
Alice ha scordato che siamo poveri come la polvere in confronto a loro.
Non possiamo permetterci lavoretti costosi ed illegali, né capisco a che
potrebbero mai servirci»
«Quindi... ci andiamo?».
Ci pensai. Alla fine annuii. «Ci andiamo».
A
quel punto ero pronta ad aspettarmi qualsiasi cosa: già immaginavo un
covo ad alta tecnologia come quello dei cattivi di James Bond. E quindi
pensai che Max doveva avermi dato l'indirizzo sbagliato per mettermi
alla prova. O forse il covo era sotterraneo, sotto un banalissimo centro
commerciale, annidato sul fianco della collina boscosa in un bel
quartiere residenziale.
Parcheggiai nella prima
piazzola libera e alzai lo sguardo verso un cartello molto elegante con
la scritta “JASON SCOTT, PROCURATORE LEGALE”.
«Scott? Non era Jenks?» Chiese Jacob
«Beh, sarà Jenks per i trafficanti di diamanti» replicai, smontando dall'auto.
All'interno
l'ufficio era beige con tonalità verde sedano, inoffensivo e niente
affatto minaccioso. Vidi Jacob annusare l'aria con la coda dell'occhio,
ma era evidente che ritenne gli odori dentro la stanza irrilevanti, o
quantomeno non nocivi, e si rilassò. Nel muro era installato un acquario
e dietro alla scrivania sedeva una segretaria di bell'aspetto, con i
capelli di un biondo molto intenso raccolti una crocchia alta, che
indossava una camicia bianca pulita e aveva un paio di occhiali dalla
montatura scura appollaiati sul naso dritto.
«Salve»
Mi salutò «Cosa posso fare per lei?». Aveva una voce del tutto priva di
accento, molto piacevole. Quando vide Jacob ammendò prontamente con un:
«Cosa posso fare per voi?»
«Uhh» Disse Jacob
«Dobbiamo vedere il signor Scott» mi avvicinai, con le braccia intrecciate davanti a me
«Avete un appuntamento?»
«Non proprio».
Sfoderò un sorriso affettato «Allora potrebbe volerci un bel po'. Perché non vi sedete, intanto che...».
“April!” Strillò
perentoria una voce maschile dal telefono sulla sua scrivania. Non mi
piacque sin da subito: aveva una note arrogante ed una qualità poco
pulita, stridula, tenorile. “Fra poco deve arrivare una certa signora Cullen”.
Sorrisi ed indicai la mia persona.
“La faccia entrare subito da me. Ha capito? Non importa se m'interrompe”. Caspiterina, ero diventata un pezzo grosso.
Nella sua voce sentivo altre sfumature oltre all'impazienza. Stress. Nervosismo.
«È proprio qui» Disse la povera April, appena lui la lasciò parlare
“Come? La faccia entrare! Cosa sta aspettando?”.
«Subito,
signor Scott!». Si alzò in piedi, agitando le mani mentre mi faceva
strada lungo un breve corridoio e mi offriva caffè, tè o qualsiasi altra
cosa desiderassi.
«Prego» Disse, e ci fece entrare in un ufficio da dirigente, con tanto di scrivania in legno massiccio e diplomi alle pareti.
Io passai ingobbendomi per un attimo, mentre Jake entrò a testa alta, facendo sembrare la stanza leggermente più piccola.
«Si chiuda la porta alle spalle» Ordinò la stridula voce tenorile.
Studiai
l'uomo dietro la scrivania, mentre April si ritirava in fretta. Era
basso e stempiato, sui cinquantacinque anni e panciuto. Portava una
cravatta di seta rossa con una camicia a righe bianche e azzurre; c'era
un blazer blu appeso allo schienale della poltrona. E poi tremava, era
così pallido da aver assunto un malsano colorito giallastro, con la
fronte imperlata di sudore: m'immaginai la sua ulcera che ribolliva
sotto il salvagente di lardo.
«Sembra l'incrocio tra
Paul Heyman daltonico ed un chihuahua obeso, tutto in un solo essere» Mi
sussurrò Jake all'orecchio in tono ammirato, e repressi malamente una
risata.
Paul Heyman era un manager della WWE, che in
effetti aveva una somiglianza, piuttosto vaga a voler essere onesti, con
il signor Jenks o Scott che dir si volesse, ma a differenza sua Heyman
era roseo e non sembrava malaticcio.
Non sono certa
di cosa si aspettasse, ma nello stupore che attraversò i suoi
lineamenti lessi che io e Jake non eravamo affatto ciò che Jason Scott
si aspettava di vedere. In effetti, Max non aveva mentito quando mi
aveva descritto come pallida e desiderosa di una buona dormita, ma
supponevo che la mia somiglianza con la marmorea bellezza dei Cullen
finisse lì. E poi c'era Jake.
Comunque si ricompose in fretta e si alzò malfermo dalla sedia. Mi porse la mano sopra la scrivania.
«Signora Cullen?» Disse, interrogativo.
Io annuii e gli andai incontro. Lui ne parve rassicurato. «Signora Cullen» Ripeté «È davvero un piacere».
Gli
andai incontro e gli strinsi la mano rapidamente, una volta sola.
Rabbrividì leggermente al contatto della mia pelle fredda, ma non parve
particolarmente sorpreso.
Non sapevo se avesse una
vaga concezione di cosa fossero i vampiri o avesse delle aspettative in
particolare verso i Cullen, e se quella per lui costituisse una prova,
ma in realtà avevo le mani congelate perché ero in ansia e fuori c'era
davvero un tempaccio. Se avessi stretto la mano ad un vampiro vero ero
certa che l'avrei trovato comunque più freddo di me.
«Signor
Jenks. O preferisce che la chiami Scott?» Chiesi facendomi di un passo
indietro perché anche Jake potesse stringergli la mano.
Jenks
fece un'altra smorfia: la stretta di Jacob doveva essere bollente dopo
la mia, ed avevo l'impressione che gli avesse stritolato le dita
grassocce. Jacob non si presentò e mi si affiancò, ma Jason non parve
trovarlo affatto strano.
«Che ne dice se lei mi
chiama Bella e io la chiamo J.?» proposi. Decisi di svelargli il mio
nome, anche se era solo il nomignolo che mi davano i Cullen, nella
speranza che Alice gli avesse accennato a me.
«Come
vecchi amici» Accettò lui, tamponandosi la fronte con un fazzoletto di
seta. Mi fece cenno di sedermi e fece altrettanto «Devo proprio
chiederglielo: sto facendo conoscenza, finalmente, con l'adorabile
moglie del signor Jasper?».
Soppesai l'informazione
per un secondo. E così quell'uomo conosceva Jasper, non Alice. Lo
conosceva, e aveva anche l'aria di temerlo.
«Uuh, con la cognata, a dire il vero».
Increspò
le labbra, come se cercasse disperatamente un senso a tutta la
faccenda, proprio come lo cercavo io. Cognata era un termine di
parentela piuttosto ambiguo, almeno speravo. Ero la cognata di Jasper o
di Alice? Di Rosalie, Emmett? Ero ignorante con i nomi delle parentele?
Non poteva saperlo, il mistero era lì.
«E il suo amico?» Chiese, accennando a Jacob
«Lui
è qui per scortarmi. È un buon... amico. Non è vero, Jacob?» mi voltai a
guardarlo, indugiando sulla parola “amico” come che se avesse
sottinteso qualcosa di diverso, e più pericoloso. Lui annuì, serio.
«È piuttosto giovane»
«È piuttosto abile» assicurai, asciutta. Aggiunsi un sorriso stretto.
«Il signor Jasper sta bene, immagino?» Chiese Jenks, cauto
«Grazie per avere chiesto. Al momento si è preso una lunga, lunga vacanza».
L'affermazione
sembrò chiarire un po' la confusione di J. , che annuì fra sé e giunse
le mani «Per l'appunto. Avrebbe dovuto venire nel mio ufficio
principale. Le segretarie l'avrebbero condotta direttamente da me,
facendole evitare canali meno ospitali».
Annuii e basta. Chissà perché Alice mi aveva dato quell'indirizzo nel ghetto.
«Beh, comunque, ora è qui. Cosa posso fare per lei?».
Esitai
solo un secondo. «Documenti» Dissi, cercando di avere la voce di una
che sapeva il fatto suo. Jacob fu bravo: lo sbigottimento gli apparì in
faccia per solamente un attimo prima di sparire.
«Ma certo» Accettò subito J. «Parliamo di certificati di nascita, di morte, patenti, passaporti, tessere sanitarie...?».
Inspirai profondamente e provai un sorriso per prendere tempo.
Poi
il sorriso svanì. Alice mi aveva mandata qui per un motivo ed ero
sicura che la risposta fosse proprio lì davanti ai miei occhi.
Certificati di nascita o morte, passaporti, patenti... tutte cose che
potevano servire a condurre una vita, una vita nuova.
L'ultimo dono che mi faceva. L'unica cosa di cui era certa che avrei avuto bisogno.
La
sola eventualità per cui potessi aver bisogno di un falsario era quella
di una fuga. E l'unica eventualità che mi avrebbe costretta alla fuga
era la nostra sconfitta.
Non avevo mai sentito
nessuno che parlasse di un fallimento nelle previsioni di Alice: cercai
di discriminare in base a quale criterio Alice aveva agito in quel modo.
Mi sedetti su una delle poltrone comode ed insipide dello studio del
signor Scott, ignorando per un attimo il tono preoccupato con cui chiamò
il mio – o quello che credeva fosse il mio – nome.
Se
lei aveva preso in considerazione che io avessi qualche possibilità di
scappare, Demetri, il segugio dei Volturi, era morto definitivamente o
sarebbe morto durante lo scontro finale. Perché se avessimo perso Aro
non si sarebbe mai lasciato sfuggire la possibilità di frugare un po'
nella testa di Edward, magari integrarlo nella sua guardia... ed avrebbe
saputo di me, dell'umana di troppo, e sarei sicuramente divenuta un
inconveniente sgradevole di cui sbarazzarsi, con una morte o l'altra.
Vampira o cadavere. Non-morta per sempre o morta per sempre.
Ma
se Demetri fosse morto, non sarebbe stato rilevante se avessero saputo
di me o meno: semplicemente, non avrebbero saputo dove cercare. Ma
allora perché non cercare di fare scappare gli altri?
Realizzai
che, con tutta probabilità, Demetri sarebbe morto solo se gli altri
avessero combattuto: vite perse in cambio della mia. E di quella di
Alice: era fuggita senza temere di essere inseguita, dopotutto, la
scomparsa di Demetri beneficiava parecchio della sua presenza.
Alzai
gli occhi su Jacob. Sarebbe morto? Il mio sole personale, ora
disponibile anche in versione pelosa, era solo un ragazzo, dolce e
caldo. Non poteva finire così, non doveva finire così. E Seth? Avremmo
perso tutte le Quileute, lasciando solo Sarah in un letto d'ospedale? Il
pensiero di sapere in anticipo che avrebbero potuto cadere in battaglia
tutte era agghiacciante. E anche i Quileute, che conoscevo di meno
delle Ragazze del Tramonto, ma che mi avevano sempre fatta sentire a
casa. Undertaker, il mio eroe d'infanzia, che da umano aveva deciso di
unirsi alla causa. Era così ingiusto, così... Persino tutti i vampiri di
Denali sarebbero stati spazzati via, resi polvere?
Mi
sentivo il cuore pesante come una pietra nel petto: un peso che mi
annientava. Tutte le mie speranze stavano dissipandosi come nebbia al
sole, la testa mi pulsava.
Come sarei potuta fuggire e basta? Cosa avrei detto a Carlo? Umano ed indifeso, avrei dovuto portare via anche lui?
Ma qualcosa... non mi tornava. Schizzai fisicamente in piedi con la forza della mia epifania.
Parte
della bravura di Alice Cullen nel capire il futuro, realizzai, non
dipendeva solo dalla sua capacità di leggere il futuro in sé, ma di
capire le persone. Alice Cullen poteva leggere le decisioni che qualcuno
avrebbe attuato nel futuro, ma era impossibile che tutti avessero già
deciso le mosse da fare in battaglia, e avessero già deciso
arbitrariamente chi era morto e chi no. Lei non vedeva il futuro in modo
assoluto: non era stata in grado di capire il mio giochetto con il
primo segugio vampiro, e non era ancora al corrente di ciò che era
accaduto a Jasper. Lei conosceva le intenzioni delle persone, calcolava
qual era il risultato più probabile, et voilà, predizione fatta.
Accurata, ma non certa.
Il futuro poteva essere cambiato. Nulla era scritto!
Alice
mi aveva dato la possibilità che credevo mi mancasse: quella di
scappare. Non dover combattere, andare via. Strinsi i pugni, osservando
il viso di Jacob. Abbandonarli.
O rimanere e
combattere, per quanto potesse combattere una piccola umana senza
poteri, che stava scoprendo di non essere affatto senza poteri, e di
essere molto più grande di quanto avesse immaginato. Ma sempre,
fieramente, umana.
C'era la possibilità che io
facessi andare tutto esattamente come aveva previsto lei, se avessi
agito esattamente come lei si aspettava: fuggendo senza voltarmi
indietro.
Ero davanti alla scelta più coraggiosa e
folle che avrei mai potuto fare nella mia vita, e dall'altro lato il
possibile rimpianto peggiore della mia vita. Ma li avevo entrambi
adesso, e riflettei bene su entrambe, prendendomi il tempo che mi
serviva, perché ero io a decidere il mio destino.
Ero io la variabile impazzita.
E dovevo davvero essere impazzita, perché, sorridendo al signor Jenks, scossi la testa.
«Non
fa nulla, Jay. Faccia finta di non avermi vista oggi. Se avrò bisogno
di lei, la contatteremo io o il signor Jasper. Grazie del tempo che ci
ha dedicato, e ci dispiace di avergliene rubato un po'».
Mi guardò con aria sofferente «Oh. Ha cambiato idea»
«Mi dispiace. So già che non mi sto comportando come lei si aspettava»
«Sono
abituato a non avere aspettative quando si tratta della famiglia
Cullen». Fece l'ennesima smorfia, ma si ricompose rapidamente con un
piccolo sospiro, che serviva a nascondere l'irritazione
«Perfetto. Grazie ancora, J.».
Mi alzai e gli strinsi di nuovo la mano. Stavolta non batté ciglio, sembrava avere già una nuova preoccupazione per la testa.
Anche
Jacob gli strinse la mano, ed entrambi uscimmo dall'edificio. Avrei
voluto salutare April dato che era stata molto cortese con noi, ma non
la vidi dietro la scrivania ripassando.
«Scusa, che è
successo alla fine?» Mi chiese Jacob, appena fummo al sicuro
nell'abitacolo del pick-up «Sembrava che tu avessi avuto i flashback del
Vietnam e poi non hai voluto più saperne. Che è successo?».
Ridacchiai, mettendo in moto, e mi sporsi per arruffargli i capelli.
«Posso?» Chiesi, un secondo prima di toccarli
«Prego».
Passai una mano tra le ciocche nere. Forse era una mia impressione, ma
sembravano più morbidi da quando era un licantropo. O forse era solo che
avevano iniziato a ricrescere.
«Alice è stata...
gentile» Esordii «In questo caso, ad indicarmi questo signor
Jenks-Scott. Ma non è da me scappare in Messico con documenti falsi di
punto in bianco».
Jacob arricciò il naso «Non so se ti ci vedo. O se non ti ci vedo»
«Cosa, in Messico? Sono sicura che ci starei una favola con il sombrero»
«Naah,
a fare le fughe illegali. A volte sei così... una dura. A volte proprio
no». Lo ricompensai dell'analisi psicologica approfondita con una
linguaccia.
«Fidati, non è da me» Sorrisi «Forse c'è davvero un po' di poliziotto in me»
«Geni Cigna» scherzò Jake «Quindi è davvero tutto a posto, Belarda?»
«Tranquillo, Jacob. È solo che non vendeva niente che fossi interessata a comprare».
Insieme ci lasciammo alle spalle J. Jenks, e tornammo verso la apparentemente tranquilla cittadina di Forks.
A casa passai un pennarello indelebile sul frontespizio della mia copia de Il Mercante di Venezia, e
cancellai gli appunti sul telefono. Alice era pazza più di quello che
sembrava se pensava che avrei bruciato i miei libri così.
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