+ Spettro +
Doveva essere morta; non c'era altra spiegazione.
Non trovava modo di capire altrimenti quella che era diventata la sua esistenza.
D'altronde, non era certamente colpa sua. Erano gli altri che le avevano dato addosso, dato addosso sin da quando... non riusciva a ricordare, ma di certo erano gli altri ad averla perseguitata fino ad oggi. E oggi era il giorno in cui si era definitivamente resa conto che qualcosa non andava, e che non era una serie di sfortunate coincidenze passeggere.
Era abituata ad essere ascoltata, assecondata, ad avere sempre ragione.
Era abituata a gridare come un'aquila, a fare la minacciosa se non veniva obbedita, gettando minacce incomplete come confetti ad un matrimonio e, se dopo estenuanti ore di litigio, non era riuscita ad ottenere ciò che anelava, decideva di rigirare piano la frittata e vestire in tutta fretta i panni della vittima, sciogliersi allora improvvisamente in un pianto disperato accusando il litigante. Strillava con voce alterata e piena di lacrime, accusava lui e tutta la sua famiglia, insultava i nonni, contestava le scelte di intere generazioni. Dopo aver enumerato i mille motivi per cui era una disgraziata – e solo lei poteva fare il collegamento tra il fatto che il marito non le avesse comprato uno specchio nuovo, per dare più luce alla cucina, al fatto che lo zio di lui fosse stato sicuramente un maledetto pentito senza Dio – , passava al vittimismo più deprimente e totale e gridava di volersi ammazzare, di aver fatto male ad averlo sposato, ad aver avuto bambini, e che ora desiderava solo ammalarsi di cancro e andarsene dolorosamente.
Se perfino adesso la tecnica non funzionava, le lacrime cessavano come per magia e tornava ad urlare, furibonda.
Ma qualcosa era andato storto nell'ultima settimana.
Le figlie non rispondevano più alle sue insinuazioni e agli insulti. La guardavano solo con disprezzo aperto, senza dire nulla. La ignoravano, e tornavano a parlare tra loro.
Quando la vedevano, si allontanavano.
La cosa la fece infuriare: lei era la loro madre, aveva dato loro la vita a costo di incredibili sacrifici, era stata in ospedale per dare vita a quelle due disgustose ingrate!
“Come t'ho fatto, ti disfo”. Era una delle sue massime più usate, ma se aveva funzionato quando erano piccole, insieme alle botte quando, secondo lei, avevano proprio esagerato – ad esempio, alla più piccola era capitato di recente di versare dell'acqua sul suo cotto di principe, se l'era cercata – ora che non avevano più sette anni sembrava sortire un effetto minore.
Da lì le aveva insultate in tutti i modi più osceni, urlando in modo che si sentisse bene anche intorno. Il marito le aveva detto di lasciarle stare; era diventato lui il bersaglio principale. Le figlie se ne erano andate, senza dire nulla né dall'inizio né alla fine, come se lei non fosse esistita.
Suo marito l'aveva colpita.
Non l'aveva mai colpita prima.
Non sembrava arrabbiato, solo incredibilmente stanco. Poi l'aveva completamente ignorata.
Era fuggita fuori a denunciare il fatto a tutte le sue amiche per indignarsi insieme, in lacrime, pigolando come un pulcino, pronta a tornare a urlare il proprio sdegno.
In verità, “amiche” era un termine piuttosto generico. Chiunque le avesse mai solo rivolto la parola, anche solo un “mi scusi, che ora è?” aveva secondo lei manifestato la chiara intenzione di parlare proprio con lei, quindi di stringere amicizia. Se era un uomo, probabilmente si era innamorato.
Ma avevano sempre tutti qualcosa che non andava, e avere tante amiche significava avere tante occasioni di poter parlare liberamente dei difetti delle altre senza essere sentite, per poi battere la lingua su qualcuno con cui aveva chiacchierato solo pochi istanti prima.
Erano tutte troppo brutte, troppo grasse. Di certo, erano tutte stupidissime.
All'estraneo che gli parlava di queste sue amiche, però, esponeva solo alcune dei loro lati: “la mia amica è laureata con centodieci e lode; hai visto che fisico che ha...?”. I loro traguardi erano suoi traguardi, che aveva potuto annoverarle tra le sue conoscenze.
Certo era che, comunque, lei era stata la migliore della classe. Quell'amica la invidiava di certo, nel segreto e nell'intimità della sua casa, desiderava essere lei. Era anche molto più magra di quell'amica, e di certo più forte: lei era allenata, sapete.
Le sue amiche non le avevano rivolto la parola. Avevano tutte continuato per la loro strada, senza neppure degnarla di uno sguardo.
Lei sgranò gli occhi, stupita. Le seguì, e loro continuarono ad ignorarla, anche quando le tirò per le braccia. Si voltavano verso di lei, tranquille, e sembravano attraversarla con lo sguardo appena appena irritato, come se a trattenerle fosse stato un ramoscello impigliato nella borsetta.
Poi accadde qualcosa di strano.
Tirò una sua amica, la più giovane, la nuova acquisita. Al tocco brusco della sua mano, il braccio scattò con un tremolio incontrollato contro il corpo; il suo sguardo era incrinato in un'espressione di totale disgusto, la bocca dagli angoli profondamente all'ingiù, gli occhi socchiusi. Deglutì, poi sembrò rilassarsi.
Il suo sguardo la attraversò come se fosse fatta d'acqua, e il braccio penzolò di lato, finalmente rilassato. La donna era tornata ad essere invisibile.
Calde lacrime, spontanee, le bagnarono le ciglia. Si premette le mani sulla bocca e scappò.
Al ritorno, la casa era chiusa. Non servì suonare il campanello: la porta chiusa era e chiusa rimase.
Ecco perché di certo era morta.
Non aveva dubbi: suo marito l'aveva uccisa. L'aveva sempre detto che era un pazzo squilibrato, tutta la sua famiglia era di pazzi squilibrati, come lo erano i suoi genitori e le figlie fatte insieme.
Si sedette sul marciapiede e guardò di sottecchi i passanti.
Urlò a squarciagola quando un cane le si avvicinò, ma il cane le indirizzò un'occhiata veloce e proseguì per la sua strada come se non avesse mai avuto intenzione di fermarsi da lei.
Era invisibile.
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Era un paese molto piccolo, ma incredibilmente grazioso a suo parere. Alcune case erano minute e piene di dettagli come delicate miniature, altre erano abitate, eppure avevano la porta rotta e sempre aperta e i mattoni mai coperti da alcun tipo di colore, in un rurale accogliente.
Le strade erano asfaltate in modo irregolare, come se gli operai avessero scordato quante mani di asfalto passare lì e quante ne avevano già fatte là.
I bambini parlavano in dialetto strettissimo e incomprensibile, e lo indicavano apertamente.
Si, doveva ammetterlo, probabilmente si vedeva a prima vista che era uno straniero. Ma i bambini, a volte in due sullo stesso sellino di bicicletta in un modo che gli faceva rizzare i capelli dalla preoccupazione, lo divertivano. Gli piacevano i bambini.
Un cane gli si avvicinò e guardò in su. Aveva occhi castani e luccicanti come crema alle nocciole, e gli angoli della bocca contornata di nero erano all'insù, la bocca spalancata in un sorriso allegro.
La mano dell'uomo scese molto piano sulla testa dell'animale; lui non si scostò, anzi, ci si strusciò contro con entusiasmo che lo fece ridere.
«Beh, almeno a te piaccio» Sussurrò dolcemente lo straniero, guardandosi intorno per controllare che non saltasse fuori da qualche vicolo un padrone arrabbiato e\o sospettoso «Devi essere l'unico».
L'uomo non aveva amici. Tempo fa ne aveva avuto qualcuno, ma sembrava che non avesse mai davvero funzionato. Era come se, agli occhi degli altri, fosse stato morto.
Il cane scodinzolò e lo accompagnò silenziosamente all'hotel, trotterellando un po' avanti a lui. L'uomo gli offrì del pane dalla propria borsa, e il cane lo mangiò agitando la coda. Lo guardò un po' speranzoso dopo che lo ebbe finito, poi si limitò a seguirlo.
L'uomo si guardò attorno, insicuro. Non sapeva come orientarsi, dove andare. Era perso.
«Il cane è suo?» Chiese una ragazzina, in piedi di lato allo scaffale
«Il cane?» disse lui, sorpreso. Dopo due settimane, era riuscito ad ottenere di occuparsi della biblioteca. Di certo non era un salario che gli consentiva di spendere e spandere (come un po', in cuor suo, avrebbe voluto fare), ma gli consentiva di occuparsi di beni preziosi di carta e pensieri, di aiutare giovani menti a formarsi scegliendo le storie che li avrebbero forgiati e vecchi lettori a trovare nuove storie per i loro occhi stanchi.
«Quello fuori dalla porta» Disse la ragazzina, soppesando “Mucchio d'ossa” di Stephen King e girandolo per leggerne la trama «La segue sempre, ovunque vada. È suo?»
«Non lo so» ammise l'uomo, sincero. Il suo accento spiccava tantissimo: aveva viaggiato molto – sembrava che nessuna delle sue case avrebbe mai potuto essere casa sua – e ormai aveva assunto un modo di pronunciare le parole che gridava “straniero” ovunque andasse.
«Capita spessissimo anche a me» La ragazzina si avvicinò con il libro stretto in mano «Se ci sai fare, a volte ti seguono. A me capita che mi si fermino fino a casa, ma ormai lo sanno che da lì non si può più passare... ma non è di nessuno. Lei lo vuole?».
Lui inclinò un po' la testa. «Si» Disse infine, divertito.
«Lei ha un bellissimo cane».
La ragazzina aveva una sorella, quasi coetanea; le vedeva spessissimo lì in biblioteca, accompagnate dal padre. Aveva imparato a giudicare le persone, e sapeva che la descrizione in breve di quell'uomo era: un uomo buono.
Li invitò a cena.
Ne aveva invitati tanti, ma per la prima volta loro accettarono. Lui cucinò come meglio poteva, e loro si sperticarono in complimenti e insieme si scambiarono le ricette e parlarono di libri.
Il padre si intrometteva spesso nelle conversazioni tra lui e le figlie, per chiarire una loro particolare abilità, dal disegnare al fare il fischio della quaglia: ne parlava con premura e affetto, come un uomo che lucida delle perle per farne risaltare la lucentezza agli occhi degli altri.
La volta dopo, fu la famigliola ad invitarlo. Lo presentarono ad altri, in occasione di altre cene. Conobbe donne e uomini; alcuni gli furono indifferenti, altri gli rimasero nel cuore, e con sua sorpresa, lui rimase nel loro.
Adottò il randagio, che chiamò Sniper, e seppe dalla famigliola una storia.
Una volta avevano una madre. Ora non l'avevano più, eppure lei non era morta.
Era stata infantile, stupida, prepotente, superstiziosa, credeva che tutto gli fosse dovuto. I suoi metodi erano umiliazioni e violenza. Li ridicolizzava, e se qualcosa non era suo, beh, non valeva la pena che esistesse. Aveva cercato di mettere giù la testa delle figlie, di prendere in giro il marito. Aveva sparlato delle amiche, illuso uomini, riso di chi le era accanto.
Era quella che poteva essere definita “una donna cattiva”.
La gente intorno le aveva dato molte possibilità di redimersi, troppe; nessuna era stata colta. E siccome il problema era che lei era ancora viva, ma non la si poteva uccidere, tutti l'avrebbero semplicemente considerata morta.
Le figlie le avevano voltato quella testa che lei aveva cercato di abbassare, il marito l'aveva presa in giro e poi lasciata a sé stessa, le amiche avevano sparlato di lei e le avevano mostrato le spalle, gli uomini l'avevano disprezzata.
«Che fine ha fatto?» Aveva chiesto lo straniero.
Si poteva ancora vedere ogni tanto girare per il paese. Aveva lo sguardo perso, le guance più incavate: pareva quasi che su di lei fosse stato gettato un incantesimo dai compaesani – morta ti consideriamo e morta sarai. Sembrava uno spettro.
Si cambiò argomento. Mangiarono i cannoli siciliani, risero insieme, parlarono.
Sniper scodinzolava sotto il tavolo, la gente parlava con lui, come fosse uno di loro, e lo era.
Sorrise. Aveva di nuovo una vita.
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Erano passati mesi. Non aveva più parlato con nessuno, tranne con pochi tentativi disperati che di tanto le risalivano con prepotenza dalla gola riarsa: «Per piacere, per piacere! Non lasciatemi così! Non LASCIATEMI!».
Ma era inutile. Tanto era morta, era morta, era maledettamente morta.
Ma non era colpa sua, non era possibile. Era morta. Era l'unica spiegazione.
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