L'odore dell'Acciaio
Illustrazione di Afterlaughs. Jean-Carl e Vlad. |
Abbassò finalmente le mani, rilassando appena i tendini, facendo si che
la pelle si tendesse meno sulle nocche sbiancate. C'era qualcosa ancora
incrostato sotto le sue unghie, ma non riusciva a capire se fosse terra o
sangue. Non che questo dettaglio avesse più alcuna importanza...
Non sapeva dire quanto avesse lottato, quanto a lungo e con quanta forza avesse scavato. Era arrivato il momento, per lui, di andare fino in fondo.
Un tempo il nome del ragazzo era stato Jean-Carl e anche lui era stato come gli altri, normale, annoiato, felice come può esserlo un ragazzino, in quel modo sempre un po' sufficiente, un po' insoddisfatto. Aveva avuto una ragazza da amare, una volta, ma loro se l'erano portata via per sempre.
Aveva avuto una vita, una famiglia, dei fratelli.
Loro si erano portato via tutto, lasciandolo come aperto, squartato, in mezzo a quella disperazione, ad imputridire, come una carogna, alla ricerca di uno scopo.
Loro non aveva messo in conto che Jean-Carl potesse trovare un senso in tutto questo, una felicità estratta con le unghie dalle macerie di una vita distrutta, uno zaino pesante da mettersi sulle spalle e armi da infilare nella cintura, non avevano messo in conto che lui potesse imparare ad amare di più la vita, da quando la morte gli aveva sfiorato la fronte.
Il ragazzo, ora, non era più Jean-Carl, perchè aveva imparato a sue spese che avere un'identità era pericoloso e limitante. Era solo il ragazzo.
Prese un profondo respiro che gli riempì i polmoni, dilatandoli fino a fargli male. Il profumo della menta e del mentastro, che crescevano mescolati al trifoglio nel campo, gli stuzzicarono le narici piacevolmente dopo il greve odore della terra umida.
Farsi seppellire vivo non era stata una scelta facile, ma era l'unico modo che aveva avuto per sopravvivere mentre i suoi nemici scorrazzavano liberi in superficie. In effetti, a pensarci bene, non era stata neppure una vera scelta: aveva trovato una vecchia bara sforacchiata e capiente, ormai era diventato facile beccarne qualcuna nelle case di quelli come loro, e ci si era nascosto a scopo mimetico. Solo qualche decina di minuti più tardi si era sentito sollevare da terra e per poco non aveva urlato, pensando di essere stato scoperto; si era sentito trasportare, sballottato in giro, e si era sforzato di rimanere in silenzio assoluto, di calmarsi, respirare piano, di non irrigidirsi. Avevano seppellito la bara e il ragazzo era rimasto in silenzio ad ascoltare ogni manciata di terra che si infrangeva contro il legno, ogni risata, ogni battuta, dei necrofori che lo stavano seppellendo, per fortuna senza troppa cura. Era una tortura, che si insinuava sempre più a fondo nel suo cervello: la sensazione nera di essere in trappola, di sapere che lo spazio intorno al suo corpo si stava restringendo sempre di più.
Immaginate voi di essere laggiù, di sapere che non potete emettere un solo suono, di sapere che lentamente, un po' alla volta, la terra vi sta ricoprendo, sta schiacciando la fragile cassa di legno in cui vi trovate. Non ne uscirete mai più, pensate, morirete laggiù, annaspando alla ricerca di aria come insetti chiusi in una bottiglia, dibattendovi come pesci tirati fuori da un fiume, artigliando il coperchio sopra di voi nella vana speranza di smuoverlo. Non c'è morte più orribile, più consapevole, più vana.
Questi, e molti altri pensieri, si affollavano nella testa del ragazzo, ma egli non vi diede ascolto: si disse che la terra, a giudicare dal numero di volte in cui le vanghe avevano lavorato a quella sepoltura, non doveva essere poi molta sopra di lui, che l'aria era abbondante e che il coperchio della bara era leggero. Non si perse d'animo, il ragazzo, e attese silenzioso di poter compiere la sua vendetta, sorridendo ad occhi chiusi nel grembo oscuro della terra, prendendo come una benedizione quella prematura sepoltura che lo aveva celato agli occhi dei nemici.
“Forse sono pazzo” Pensò, ma fu solo per un istante.
Sentiva ancora le voci della gente che stava in superficie, dunque il momento di tentare una risalita non era ancora arrivato.
Passarono ore, intense e buie, ore contate secondo dopo secondo, un ticchettare, uno snocciolare di istanti che parve eterno, più lungo della nascita e della morte di un uomo. Ma il ragazzo era tenace e sorrideva. E finalmente scese il silenzio.
Fu allora che il ragazzo tentò di uscire e vi riuscì, senza sapere neppure lui come aveva fatto, ma ritrovandosi con le mani sanguinanti, sporco dalla testa ai piedi di terra umida e con schegge di legno fra i vestiti e la pelle.
E ora, finalmente, era libero e un mattino chiaro e radioso gli illuminava il volto.
Il ragazzo si controllò i coltelli alla cintura: erano sette, un numero magico e fortunato, affilati per giorni su pietre di fiume e assicurati con improvvisati legacci di cuoio e spago. Li aveva intinti tutti nell'acqua santa, anche se non credeva davvero che servisse a qualcosa, e subito dopo li aveva asciugati con cura perchè la ruggine non si formasse sul loro lucente, freddo, perfetto metallo argenteo. Li aveva curati come se fossero i suoi figli e quelli lo avrebbero servito fedelmente, assecondando i movimenti delle sue mani, intagliando e penetrando, disegnando il più perfetto dei lavori artistici: la vendetta.
Qualcosa si mosse alle spalle del ragazzo.
«Tu devi essere Jean-Carl Corsaro, non è così?» Gli chiese una voce calma, profonda, con un accento leggero dell'est europeo. C'era qualcosa di remoto in quel tono, come se provenisse da una registrazione.
Il ragazzo si voltò di colpo e mise mano all'impugnatura del più grosso dei suoi coltelli
«Tu...» disse soltanto, poi strinse le labbra fino a ridurle ad una linea dritta.
L'uomo che ora fronteggiava era alto poco meno di lui e aveva le spalle ampie, un torace da sollevatore di pesi, chiuso in una stretta camicia bianca aperta sul petto, e una cascata di capelli neri e ricci che gli scorreva lungo la schiena. Il suo volto era crudelmente atteggiato ad un sorriso aperto, che mostrava denti saldi e canini grossi e affilati, il labbro superiore ombreggiato da un paio di baffi folti, un naso avido, affilato e voluminoso, e occhi grandi, dalle iridi scarlatte, terrificanti, innaturali in quella faccia così comunemente umana, così imperfetta.
«Io» disse quell'uomo, incrociando le braccia «Si, proprio io, mio caro e giovanissimo amico... cosa vuoi fare, con quel coltello? Non è neppure d'argento. Non ha il manico di frassino. Quello è solo acciaio, semplice, vile acciaio. Piantamelo in petto, dai, ficcamelo qui sul cuore e vedrai cosa succede...».
Acciaio. Il ragazzo guardò oltre le spalle della creatura dagli occhi rossi e ne vide tanto, tantissimo... acciaio ovunque. L'erba, la menta, il mentastro che egli aveva fiutato erano solo l'illusione di un prato immenso, erano solo uno spazio verde, disseminato di croci, che conviveva con un cantiere di dimensioni pazzesche.
Pali in cemento si sollevavano, come le torri oscure di un romanzo fantasy, a reggere cavi spessi e tesi da un lato all'altro della struttura; impalcature abbandonate, tubi di un grigio brillante, attrezzi di ogni sorta, dalla vanga al martello pneumatico, giacevano disseminati. Tutto era fermo e si stagliava contro un cielo di un azzurro profondissimo e così terribilmente sbagliato a confronto di quello spettacolo artificioso.
«Cos'è?» Domandò il ragazzo. La sua voce era arrochita dalla stanchezza, dal caldo, dal fumo.
L'uomo dagli occhi rossi si guardò alle spalle solo per un istante, così rapidamente che parve un robot.
«Oh, quello?» disse poi, sollevando le sopracciglia e distendendo i lineamenti «Diventerà solo un castello. Un castello moderno, s'intende... non c'è più lo stile di una volta, il maledetto acciaio si sta divorando il mondo»
«Vuoi uccidermi?»
«Perché dovrei volerti uccidere?»
«Perché è quello che fa la tua gente. Quello che fanno i vampiri»
«Tu credi che io sia un vampiro»
«Non sono stupido» Jean-Carl sputò per terra, poi indietreggiò di mezzo passo «Non funzionerà, con me»
«Lo so. Hai già ammazzato molti di noi. Sei un assassino molto bravo»
«Grazie. Ma non sono un assassino e non ho ucciso nessuno. Erano già morti»
«Peccato che non ci siamo mai conosciuti prima... sei uno che va, tu, uno che va forte»
«Chi sei?» chiese il ragazzo, ignorando il significato della frase del vampiro
«Che strano» l'uomo con gli occhi rossi, il vampiro, assunse un'aria perplessa «Mi sarei immaginato, conoscendo la fama che aleggia intorno a te, che tu mi domandassi “cosa sei, mostro?”, oppure “perchè non stai bruciando al sole?”. Chi sei? Beh, è una domanda così civile... e non so come risponderti»
«Dimmi il tuo nome, mi basta»
«Vlad»
«Vlad?»
«Si»
«Un nome così... così da vampiro...» il ragazzo estrasse il coltellaccio da caccia dal suo fodero, ma lo tenne basso, allineato alla coscia «Lo trovo stupido»
«Ti sbagli. Non è un nome da vampiro, è al contrario»
«Cosa?» le sopracciglia scure e sottili del ragazzo si aggrottarono «Cosa significa?»
«Non è che Vlad è un nome da vampiro. Al contrario: vampiro è un nome da Vlad».
Jean-Carl non capì cosa volesse dire. Non gli interessava capirlo, voleva solo perdere tempo. Sapeva che quello di Vlad era un bluff, che l'acciaio poteva benissimo uccidere un vampiro, straccargli via la testa dal collo. Dopo bastava bruciarli e, oh, come bruciavano!
Vlad si avvicinò a lui, senza fretta, con movimenti troppo ferali per essere umani: sembrava che in ogni suo passo si scatenasse la forza di un leone arrabbiato, che usasse gruppi muscolari che non dovrebbero essere attivati solo per camminare. Jean-Carl aveva guardato spesso i vampiri spostarsi, ma dovette ammettere che non aveva mai visto qualcosa del genere. Non aveva neppure mai visto uno di loro che camminasse alla luce del sole.
«Sono più antico di tutti loro, il sole brucia solo un pò» Spiegò Vlad, come se gli avesse letto in mente. Probabilmente l'aveva fatto davvero, se era così vecchio come diceva.
Jean-Carl rafforzò la presa sul coltello, irritato.
Vlad dilatò le narici, fermandosi
«Il tuo sudore sta colando sul metallo» disse, a bassissima voce, quasi un sibilo «Sento l'odore dell'acciaio che si ravviva. Un assassino non dovrebbe essere così nervoso»
«Non ho mai ucciso uno di voi così...»
«Guardandolo negli occhi? Da sveglio? Tu tagli le gole dei vampiri che dormono»
«Non ho altra scelta» ringhiò fra i denti il ragazzo
«Lo so. Non sei un vigliacco, solo che non sei neanche stupido. Anche a me piace tagliare le gole»
«Vuoi tagliarmi la gola?»
«Non c'è romanticismo, così, non c'è caccia» gli occhi di Vlad parvero scintillare per un istante, due letali rubini incassati nel cranio, e la sua mascella si contrasse appena «Sono dalla tua parte, ragazzo. Sul serio»
«Cosa vuoi dire?»
«Non sono qui per uccidere te. Sono qui per ammazzare la fazione più numerosa, è molto più divertente. Tu sei solo».
Jean-Carl non credeva di aver compreso bene. Il vampiro voleva fare fuori i suoi stessi simili? Bisognava lasciarglielo fare? E poi aveva altra scelta? No. Il vecchio Vlad avrebbe fatto a pezzi il suo giovane corpo mortale ed esausto con la facilità con cui un bambino può spezzettare un cracker. L'avrebbe spezzettato e divorato.
«Vieni con me» disse Vlad «Prendiamoli che dormono. Non si aspettano che io sia qui»
«Tu sei uno di loro e basta! Tu mi vuoi in trappola!» realizzò il ragazzo, trionfante, sollevando il coltello «La luce del sole ti indebolisce. Vuoi portarmi fra i tuoi per ammazzarmi. Non verrò».
La lama tintinnò contro le rocce, volando via dal pugno chiuso del ragazzo. Vlad sorrise sornione
«Ti ho disarmato. Senza che ti accorgessi di come ho fatto. Se avessi voluto ucciderti l'avrei già fatto da un pezzo, Jean-Carl».
Il ragazzo sobbalzò: non gli piaceva che lo si chiamasse con quel nome. Socchiuse le palpebre, guardando la figura tarchiata di Vlad dallo spiraglio, pensando che magari sarebbe cambiato un po', che sarebbe diventato meno inquietante, ma non era così: rimaneva uguale a sé stesso, così strano, un po' goth, un po' nobile, un po' pazzo. Uno zombie pallido, un corpo morto ammantato di un'apparenza di umanità, e occhi rossi come sangue dalle pupille immobili. Niente di ciò che era vivo, neppure i rettili, riusciva a dare una simile impressione di immobilità.
Jean-Carl non poteva fidarsi di lui e non era perchè non era umano, ma perchè era un mostro, una cosa che non avrebbe dovuto esistere in natura. E se prima era stato in qualche modo scettico, lo convinse il guardare la sua ombra: la figura del corpo di Vlad non era riportata fedelmente sul terreno, ma era deformata, più alta, curva, e tremava in un modo che non era in alcun modo spiegabile, ma che, semplicemente, era terrificante.
Il vampiro guardò la propria ombra, le labbra strette in una linea. Poi prese a ridere. Rise forte, spalancando le fauci. I suoi denti scintillarono al sole ed erano tutti affilati, non solo i canini, e la lingua esangue finiva in una punta rettilesca ed era gonfia, innaturale.
Il ragazzo sentì un brivido di freddo lungo la spina dorsale, poi la sua mano si mosse come se avesse vita propria e conficcò dritto in quella lingua, in mezzo alle zanne ricurve, uno dei coltelli. Il sangue non zampillò come avrebbe dovuto, ma prese a scendere lentamente, scuro e freddo, formando rivolette intorno alla lama e sulla gola del vampiro, dove la punta dell'arma aveva trapassato la carne e lacerato la pelle.
Vlad emise un gorgoglio strozzato, spalancando gli occhi.
Poi il ragazzo non vide né sentì null'altro che un dolore acuto e sparso lungo tutto il corpo, come se fosse stato investito in pieno da una locomotiva e schiacciato sotto le sue ruote pesanti, poco prima di perdere i sensi.
Si risvegliò al buio, al chiuso, con tutte le membra doloranti. Si sentì sconfitto. Era questa la morte? Non avrebbe dovuto forse essere una cessazione di tutta la vita? E allora perchè, perchè stava soffrendo in quel modo, perchè sentiva le spalle che pulsavano e i polmoni stretti in una morsa?
Era vivo e questo era chiaro come la luce del giorno anche laggiù, in quella oscurità fredda.
Fredda come metallo, realizzò il ragazzo, quando allungando le mani di fronte a se, in alto, sentì con i polpastrelli una superficie liscia come uno specchio. Non era tutto buio, il mondo: una fessura nel metallo lasciava penetrare una lama pallida di luce. Con le dita, il ragazzo interruppe il chiarore, poi cercò di sistemarsi in modo da poter guardare fuori. Era notte, ma potenti fari rischiaravano il cantiere in cui quelle creature disgustose lavoravano alla costruzione di un mastodontico edificio di vetro, cemento e metallo.
Il terrore afferrò con le sue mani artigliate e secche lo stomaco di Jean-Carl: molto peggio che essere seppellito vivo, era stato nascosto nel bel mezzo del cantiere, in quella che sembrava una tomba di metallo invece che di terra e legno. Non ne sarebbe uscito vivo, il cemento si sarebbe chiuso su di lui, ecco la fine crudele che Vlad aveva deciso per colui che lo aveva accoltellato.
Eppure il ragazzo non gridò. Si distese. Forse si sarebbe salvato, forse no, ma quello che sapeva di certo era che non avrebbe gridato, non avrebbe dato a quegli esseri mostruosi il pretesto per venire a prenderlo.
Chiuse gli occhi. Impose alle pupille di smettere di tremare dietro le palpebre.
C'era anche un'altra cosa che sapeva di certo: se mai si fosse salvato, se ce n'era anche solo una possibilità, avrebbe odiato per sempre l'odore intenso, singolare, metallico, dell'acciaio.
Non sapeva dire quanto avesse lottato, quanto a lungo e con quanta forza avesse scavato. Era arrivato il momento, per lui, di andare fino in fondo.
Un tempo il nome del ragazzo era stato Jean-Carl e anche lui era stato come gli altri, normale, annoiato, felice come può esserlo un ragazzino, in quel modo sempre un po' sufficiente, un po' insoddisfatto. Aveva avuto una ragazza da amare, una volta, ma loro se l'erano portata via per sempre.
Aveva avuto una vita, una famiglia, dei fratelli.
Loro si erano portato via tutto, lasciandolo come aperto, squartato, in mezzo a quella disperazione, ad imputridire, come una carogna, alla ricerca di uno scopo.
Loro non aveva messo in conto che Jean-Carl potesse trovare un senso in tutto questo, una felicità estratta con le unghie dalle macerie di una vita distrutta, uno zaino pesante da mettersi sulle spalle e armi da infilare nella cintura, non avevano messo in conto che lui potesse imparare ad amare di più la vita, da quando la morte gli aveva sfiorato la fronte.
Il ragazzo, ora, non era più Jean-Carl, perchè aveva imparato a sue spese che avere un'identità era pericoloso e limitante. Era solo il ragazzo.
Prese un profondo respiro che gli riempì i polmoni, dilatandoli fino a fargli male. Il profumo della menta e del mentastro, che crescevano mescolati al trifoglio nel campo, gli stuzzicarono le narici piacevolmente dopo il greve odore della terra umida.
Farsi seppellire vivo non era stata una scelta facile, ma era l'unico modo che aveva avuto per sopravvivere mentre i suoi nemici scorrazzavano liberi in superficie. In effetti, a pensarci bene, non era stata neppure una vera scelta: aveva trovato una vecchia bara sforacchiata e capiente, ormai era diventato facile beccarne qualcuna nelle case di quelli come loro, e ci si era nascosto a scopo mimetico. Solo qualche decina di minuti più tardi si era sentito sollevare da terra e per poco non aveva urlato, pensando di essere stato scoperto; si era sentito trasportare, sballottato in giro, e si era sforzato di rimanere in silenzio assoluto, di calmarsi, respirare piano, di non irrigidirsi. Avevano seppellito la bara e il ragazzo era rimasto in silenzio ad ascoltare ogni manciata di terra che si infrangeva contro il legno, ogni risata, ogni battuta, dei necrofori che lo stavano seppellendo, per fortuna senza troppa cura. Era una tortura, che si insinuava sempre più a fondo nel suo cervello: la sensazione nera di essere in trappola, di sapere che lo spazio intorno al suo corpo si stava restringendo sempre di più.
Immaginate voi di essere laggiù, di sapere che non potete emettere un solo suono, di sapere che lentamente, un po' alla volta, la terra vi sta ricoprendo, sta schiacciando la fragile cassa di legno in cui vi trovate. Non ne uscirete mai più, pensate, morirete laggiù, annaspando alla ricerca di aria come insetti chiusi in una bottiglia, dibattendovi come pesci tirati fuori da un fiume, artigliando il coperchio sopra di voi nella vana speranza di smuoverlo. Non c'è morte più orribile, più consapevole, più vana.
Questi, e molti altri pensieri, si affollavano nella testa del ragazzo, ma egli non vi diede ascolto: si disse che la terra, a giudicare dal numero di volte in cui le vanghe avevano lavorato a quella sepoltura, non doveva essere poi molta sopra di lui, che l'aria era abbondante e che il coperchio della bara era leggero. Non si perse d'animo, il ragazzo, e attese silenzioso di poter compiere la sua vendetta, sorridendo ad occhi chiusi nel grembo oscuro della terra, prendendo come una benedizione quella prematura sepoltura che lo aveva celato agli occhi dei nemici.
“Forse sono pazzo” Pensò, ma fu solo per un istante.
Sentiva ancora le voci della gente che stava in superficie, dunque il momento di tentare una risalita non era ancora arrivato.
Passarono ore, intense e buie, ore contate secondo dopo secondo, un ticchettare, uno snocciolare di istanti che parve eterno, più lungo della nascita e della morte di un uomo. Ma il ragazzo era tenace e sorrideva. E finalmente scese il silenzio.
Fu allora che il ragazzo tentò di uscire e vi riuscì, senza sapere neppure lui come aveva fatto, ma ritrovandosi con le mani sanguinanti, sporco dalla testa ai piedi di terra umida e con schegge di legno fra i vestiti e la pelle.
E ora, finalmente, era libero e un mattino chiaro e radioso gli illuminava il volto.
Il ragazzo si controllò i coltelli alla cintura: erano sette, un numero magico e fortunato, affilati per giorni su pietre di fiume e assicurati con improvvisati legacci di cuoio e spago. Li aveva intinti tutti nell'acqua santa, anche se non credeva davvero che servisse a qualcosa, e subito dopo li aveva asciugati con cura perchè la ruggine non si formasse sul loro lucente, freddo, perfetto metallo argenteo. Li aveva curati come se fossero i suoi figli e quelli lo avrebbero servito fedelmente, assecondando i movimenti delle sue mani, intagliando e penetrando, disegnando il più perfetto dei lavori artistici: la vendetta.
Qualcosa si mosse alle spalle del ragazzo.
«Tu devi essere Jean-Carl Corsaro, non è così?» Gli chiese una voce calma, profonda, con un accento leggero dell'est europeo. C'era qualcosa di remoto in quel tono, come se provenisse da una registrazione.
Il ragazzo si voltò di colpo e mise mano all'impugnatura del più grosso dei suoi coltelli
«Tu...» disse soltanto, poi strinse le labbra fino a ridurle ad una linea dritta.
L'uomo che ora fronteggiava era alto poco meno di lui e aveva le spalle ampie, un torace da sollevatore di pesi, chiuso in una stretta camicia bianca aperta sul petto, e una cascata di capelli neri e ricci che gli scorreva lungo la schiena. Il suo volto era crudelmente atteggiato ad un sorriso aperto, che mostrava denti saldi e canini grossi e affilati, il labbro superiore ombreggiato da un paio di baffi folti, un naso avido, affilato e voluminoso, e occhi grandi, dalle iridi scarlatte, terrificanti, innaturali in quella faccia così comunemente umana, così imperfetta.
«Io» disse quell'uomo, incrociando le braccia «Si, proprio io, mio caro e giovanissimo amico... cosa vuoi fare, con quel coltello? Non è neppure d'argento. Non ha il manico di frassino. Quello è solo acciaio, semplice, vile acciaio. Piantamelo in petto, dai, ficcamelo qui sul cuore e vedrai cosa succede...».
Acciaio. Il ragazzo guardò oltre le spalle della creatura dagli occhi rossi e ne vide tanto, tantissimo... acciaio ovunque. L'erba, la menta, il mentastro che egli aveva fiutato erano solo l'illusione di un prato immenso, erano solo uno spazio verde, disseminato di croci, che conviveva con un cantiere di dimensioni pazzesche.
Pali in cemento si sollevavano, come le torri oscure di un romanzo fantasy, a reggere cavi spessi e tesi da un lato all'altro della struttura; impalcature abbandonate, tubi di un grigio brillante, attrezzi di ogni sorta, dalla vanga al martello pneumatico, giacevano disseminati. Tutto era fermo e si stagliava contro un cielo di un azzurro profondissimo e così terribilmente sbagliato a confronto di quello spettacolo artificioso.
«Cos'è?» Domandò il ragazzo. La sua voce era arrochita dalla stanchezza, dal caldo, dal fumo.
L'uomo dagli occhi rossi si guardò alle spalle solo per un istante, così rapidamente che parve un robot.
«Oh, quello?» disse poi, sollevando le sopracciglia e distendendo i lineamenti «Diventerà solo un castello. Un castello moderno, s'intende... non c'è più lo stile di una volta, il maledetto acciaio si sta divorando il mondo»
«Vuoi uccidermi?»
«Perché dovrei volerti uccidere?»
«Perché è quello che fa la tua gente. Quello che fanno i vampiri»
«Tu credi che io sia un vampiro»
«Non sono stupido» Jean-Carl sputò per terra, poi indietreggiò di mezzo passo «Non funzionerà, con me»
«Lo so. Hai già ammazzato molti di noi. Sei un assassino molto bravo»
«Grazie. Ma non sono un assassino e non ho ucciso nessuno. Erano già morti»
«Peccato che non ci siamo mai conosciuti prima... sei uno che va, tu, uno che va forte»
«Chi sei?» chiese il ragazzo, ignorando il significato della frase del vampiro
«Che strano» l'uomo con gli occhi rossi, il vampiro, assunse un'aria perplessa «Mi sarei immaginato, conoscendo la fama che aleggia intorno a te, che tu mi domandassi “cosa sei, mostro?”, oppure “perchè non stai bruciando al sole?”. Chi sei? Beh, è una domanda così civile... e non so come risponderti»
«Dimmi il tuo nome, mi basta»
«Vlad»
«Vlad?»
«Si»
«Un nome così... così da vampiro...» il ragazzo estrasse il coltellaccio da caccia dal suo fodero, ma lo tenne basso, allineato alla coscia «Lo trovo stupido»
«Ti sbagli. Non è un nome da vampiro, è al contrario»
«Cosa?» le sopracciglia scure e sottili del ragazzo si aggrottarono «Cosa significa?»
«Non è che Vlad è un nome da vampiro. Al contrario: vampiro è un nome da Vlad».
Jean-Carl non capì cosa volesse dire. Non gli interessava capirlo, voleva solo perdere tempo. Sapeva che quello di Vlad era un bluff, che l'acciaio poteva benissimo uccidere un vampiro, straccargli via la testa dal collo. Dopo bastava bruciarli e, oh, come bruciavano!
Vlad si avvicinò a lui, senza fretta, con movimenti troppo ferali per essere umani: sembrava che in ogni suo passo si scatenasse la forza di un leone arrabbiato, che usasse gruppi muscolari che non dovrebbero essere attivati solo per camminare. Jean-Carl aveva guardato spesso i vampiri spostarsi, ma dovette ammettere che non aveva mai visto qualcosa del genere. Non aveva neppure mai visto uno di loro che camminasse alla luce del sole.
«Sono più antico di tutti loro, il sole brucia solo un pò» Spiegò Vlad, come se gli avesse letto in mente. Probabilmente l'aveva fatto davvero, se era così vecchio come diceva.
Jean-Carl rafforzò la presa sul coltello, irritato.
Vlad dilatò le narici, fermandosi
«Il tuo sudore sta colando sul metallo» disse, a bassissima voce, quasi un sibilo «Sento l'odore dell'acciaio che si ravviva. Un assassino non dovrebbe essere così nervoso»
«Non ho mai ucciso uno di voi così...»
«Guardandolo negli occhi? Da sveglio? Tu tagli le gole dei vampiri che dormono»
«Non ho altra scelta» ringhiò fra i denti il ragazzo
«Lo so. Non sei un vigliacco, solo che non sei neanche stupido. Anche a me piace tagliare le gole»
«Vuoi tagliarmi la gola?»
«Non c'è romanticismo, così, non c'è caccia» gli occhi di Vlad parvero scintillare per un istante, due letali rubini incassati nel cranio, e la sua mascella si contrasse appena «Sono dalla tua parte, ragazzo. Sul serio»
«Cosa vuoi dire?»
«Non sono qui per uccidere te. Sono qui per ammazzare la fazione più numerosa, è molto più divertente. Tu sei solo».
Jean-Carl non credeva di aver compreso bene. Il vampiro voleva fare fuori i suoi stessi simili? Bisognava lasciarglielo fare? E poi aveva altra scelta? No. Il vecchio Vlad avrebbe fatto a pezzi il suo giovane corpo mortale ed esausto con la facilità con cui un bambino può spezzettare un cracker. L'avrebbe spezzettato e divorato.
«Vieni con me» disse Vlad «Prendiamoli che dormono. Non si aspettano che io sia qui»
«Tu sei uno di loro e basta! Tu mi vuoi in trappola!» realizzò il ragazzo, trionfante, sollevando il coltello «La luce del sole ti indebolisce. Vuoi portarmi fra i tuoi per ammazzarmi. Non verrò».
La lama tintinnò contro le rocce, volando via dal pugno chiuso del ragazzo. Vlad sorrise sornione
«Ti ho disarmato. Senza che ti accorgessi di come ho fatto. Se avessi voluto ucciderti l'avrei già fatto da un pezzo, Jean-Carl».
Il ragazzo sobbalzò: non gli piaceva che lo si chiamasse con quel nome. Socchiuse le palpebre, guardando la figura tarchiata di Vlad dallo spiraglio, pensando che magari sarebbe cambiato un po', che sarebbe diventato meno inquietante, ma non era così: rimaneva uguale a sé stesso, così strano, un po' goth, un po' nobile, un po' pazzo. Uno zombie pallido, un corpo morto ammantato di un'apparenza di umanità, e occhi rossi come sangue dalle pupille immobili. Niente di ciò che era vivo, neppure i rettili, riusciva a dare una simile impressione di immobilità.
Jean-Carl non poteva fidarsi di lui e non era perchè non era umano, ma perchè era un mostro, una cosa che non avrebbe dovuto esistere in natura. E se prima era stato in qualche modo scettico, lo convinse il guardare la sua ombra: la figura del corpo di Vlad non era riportata fedelmente sul terreno, ma era deformata, più alta, curva, e tremava in un modo che non era in alcun modo spiegabile, ma che, semplicemente, era terrificante.
Il vampiro guardò la propria ombra, le labbra strette in una linea. Poi prese a ridere. Rise forte, spalancando le fauci. I suoi denti scintillarono al sole ed erano tutti affilati, non solo i canini, e la lingua esangue finiva in una punta rettilesca ed era gonfia, innaturale.
Il ragazzo sentì un brivido di freddo lungo la spina dorsale, poi la sua mano si mosse come se avesse vita propria e conficcò dritto in quella lingua, in mezzo alle zanne ricurve, uno dei coltelli. Il sangue non zampillò come avrebbe dovuto, ma prese a scendere lentamente, scuro e freddo, formando rivolette intorno alla lama e sulla gola del vampiro, dove la punta dell'arma aveva trapassato la carne e lacerato la pelle.
Vlad emise un gorgoglio strozzato, spalancando gli occhi.
Poi il ragazzo non vide né sentì null'altro che un dolore acuto e sparso lungo tutto il corpo, come se fosse stato investito in pieno da una locomotiva e schiacciato sotto le sue ruote pesanti, poco prima di perdere i sensi.
Si risvegliò al buio, al chiuso, con tutte le membra doloranti. Si sentì sconfitto. Era questa la morte? Non avrebbe dovuto forse essere una cessazione di tutta la vita? E allora perchè, perchè stava soffrendo in quel modo, perchè sentiva le spalle che pulsavano e i polmoni stretti in una morsa?
Era vivo e questo era chiaro come la luce del giorno anche laggiù, in quella oscurità fredda.
Fredda come metallo, realizzò il ragazzo, quando allungando le mani di fronte a se, in alto, sentì con i polpastrelli una superficie liscia come uno specchio. Non era tutto buio, il mondo: una fessura nel metallo lasciava penetrare una lama pallida di luce. Con le dita, il ragazzo interruppe il chiarore, poi cercò di sistemarsi in modo da poter guardare fuori. Era notte, ma potenti fari rischiaravano il cantiere in cui quelle creature disgustose lavoravano alla costruzione di un mastodontico edificio di vetro, cemento e metallo.
Il terrore afferrò con le sue mani artigliate e secche lo stomaco di Jean-Carl: molto peggio che essere seppellito vivo, era stato nascosto nel bel mezzo del cantiere, in quella che sembrava una tomba di metallo invece che di terra e legno. Non ne sarebbe uscito vivo, il cemento si sarebbe chiuso su di lui, ecco la fine crudele che Vlad aveva deciso per colui che lo aveva accoltellato.
Eppure il ragazzo non gridò. Si distese. Forse si sarebbe salvato, forse no, ma quello che sapeva di certo era che non avrebbe gridato, non avrebbe dato a quegli esseri mostruosi il pretesto per venire a prenderlo.
Chiuse gli occhi. Impose alle pupille di smettere di tremare dietro le palpebre.
C'era anche un'altra cosa che sapeva di certo: se mai si fosse salvato, se ce n'era anche solo una possibilità, avrebbe odiato per sempre l'odore intenso, singolare, metallico, dell'acciaio.
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Questo è un vecchio pezzo del 2013, creato per il contest di #ArteScritta sul tema "L'odore dell'Acciaio". Ah, e abbiamo anche vinto il contest con questo ;)
È stato anche l'esordio su internet di Jean-Carl (personaggio che aveva già "esordito in privato").
Ringraziamo ancora Afterlaughs per la bellissima illustrazione che ci ha donato (e potete vedere l'originale QUI su Deviantart)!
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