Seduta in camera mia, cercavo di concentrarmi sull'atto terzo del Macbeth,
ma in realtà aspettavo di sentire il rumore della macchina di mio
padre. Non ero sicura che avrebbe fatto abbastanza rumore per poterla
sentire anche sotto la pioggia battente. Ad un'ennesima occhiata dietro
la tenda, mi accorsi che non riuscivo affatto a concentrarmi sull'opera
teatrale che avevo caricato sul nostro recalcitrante computer, e
continuare a far finta di guardarlo era solo uno spreco di elettricità.
Sospirai, e spensi l'apparecchio, spostando il modem con un piede per non inciamparci su uscendo dalla stanza.
Carlo era andato a
parlare di ciò che era accaduto con il Dottor Cullen, preferendo
lasciarmi a casa in modo che non potessi incrociare neanche per sbaglio
quello psicopatico; stavo aspettando che tornasse a casa, ansiosa dei
risultati.
Fu impreciso in modo
deludente nel suo resoconto, di ritorno a casa con l'auto che non avevo
sentito arrivare come previsto, ma non gli chiesi di approfondire:
bofonchiò sotto i baffi, come faceva dopo un'arrabbiatura che stava
cercando di farsi passare, che il ragazzo sarebbe stato punito
severamente, che il Dottor Cullen era rimasto sinceramente turbato dal
sapere una cosa del genere sul suo pargolo, e che non mi avrebbe più
dato fastidio.
Lasciai che andasse a darsi una rinfrescata, e preparai la cena senza accendere la radio.
Ero impaziente che
arrivasse il venerdì, e la giornata mi avvicinò ancora di più al momento
della mia gita, lontana da Cullen e dal bouquet di problemi che si
portava appresso. Ovviamente a scuola tutti ebbero dei commenti da fare
sul tentato rapimento. Per fortuna, Mike cercava di comportarsi come se
nulla fosse e tenere il becco chiuso sulla questione "gli atti criminali
di capelli-pazzi". Jessica invece sembrava più interessata a parlare
della questione, e mi bersagliò di domande.
Iniziò durante la lezione di trigonometria: «Che voleva ieri Edward Cullen?»
«Non so». Non mentivo. «Non di preciso. Non è mai arrivato al dunque».
Jessica si rabbuiò un po', accarezzandomi un braccio «Sei stata coraggiosa»
«Davvero?»
«Sai, non ho visto
nessuno tenergli testa a parte i suoi fratelli. A dire il vero, lui non
ha mai cercato di parlare con nessuno a parte con i suoi fratelli, e poi
se la prende con te. Che cosa assurda».
«Assurda» Ribadii.
Sembrava nervosa: continuava a sistemarsi i riccioli. Immaginavo che
oltre a consolarmi avrebbe tanto voluto mettere le grinfie su un
aneddoto interessante da trasformare in pettegolezzo. Detestava Cullen e
io ero la vittima che lei conosceva in prima persona, voleva
approfittarsene; Jessica aveva molti lati positivi, ma a volte era
difficile amare la sua propensione per il gossip frivolo.
Non feci nulla a riguardo però. Cullen era un nostro nemico comune.
Una delle cose peggiori
di quel venerdì era che, malgrado sapessi bene che Edward non sarebbe
venuto ad affrontarmi dopo ieri, continuavo ad aver timore di vederlo.
Era evidente che non sapevo perfettamente fin dove avrebbe potuto
arrivare.
Quando entrai in mensa
assieme a Jessica e Mike, non potei fare a meno di perlustrare il tavolo
al quale erano seduti tre dei fratelli vampirici, le due ragazze e lo
spiritato, impegnati in una fitta conversazione. Fui soddisfatta,
sollevata, e riuscii a rilassarmi e chiacchierare con i miei amici.
Al mio solito tavolo,
tutti erano presi dai piani per il giorno seguente. Mike aveva preso a
ripetere come un oracolo le previsioni del tempo locali in cui riponeva
piena fiducia, secondo le quali il sole era in arrivo. Normalmente avrei
pensato che Mike stesse esagerando con l'ottimismo, però la
temperatura, intanto, si era alzata: c'erano quasi quindici gradi.
E memorizzai la mia
lezione: lo scrupoloso Mike Newton non avrebbe mai organizzato una gita
che si sarebbe rivelata un disastro. Un punto per lui, ero ancora più
convinta che uscire a fare trekking insieme fosse un'ottima idea.
Durante il pranzo
intercettai un paio di sguardi apparentemente poco amichevoli di Salame
Monello, Lorenza, o come si chiamava lei, che non capii finché non
uscimmo di lì.
Camminavamo in gruppo;
io le stavo alle spalle, a pochi centimetri dai suoi liscissimi capelli
biondo platino, ma lei, evidentemente non se n'era accorta.
«... Forse sarebbe il caso che Belarda»
Pronunciò il mio nome come se fosse una parola molto buffa «d'ora in
poi si sieda ad un altro tavolo, se attira Cullen» la sentii borbottare a
Mike. Non mi ero mai accorta di quanto la sua voce fosse sgradevole e
nasale e fui sorpresa da tanta malignità. Non ci conoscevamo abbastanza
bene, di certo non abbastanza perché mi potesse avere tanto in
antipatia. Voleva isolarmi, perché un tizio ce l'aveva con me? Capivo
che volesse evitare Edward, ma scacciare una persona che aveva un
problema non era la soluzione migliore per aiutarla. Se ne stava lavando
le mani, aveva paura. Io sapevo che non lo avrei mai fatto al posto
suo.
«È amica mia, e si
siede al nostro tavolo» Rispose sicuro Mike, con lealtà e forse anche
con un po' troppa forza, per farle capire chiaramente che era dalla mia
parte.
Accelerai, e nel
superarla le dissi con voce ferma «Se hai paura di uno scemo come
quello, puoi trovare tranquillamente un altro tavolo. Io rimango con i
miei amici». Jess e Angela mi vennero accanto, lasciandola indietro.
Da lei non sentii altro, per quella volta.
Quella sera, a cena,
papà mi sembrò entusiasta della gita a La Push. Probabilmente si sentiva
almeno un po' in colpa perché durante i fine settimana mi lasciava
sempre a casa da sola, ma del resto gli ci erano voluti anni per
consolidare le proprie abitudini e non poteva certo distruggerle ora.
Ovviamente conosceva i nomi di tutti i miei compagni di escursione, dei
loro genitori e probabilmente anche dei loro nonni e bisnonni, quindi
potevo stare ben tranquilla: si vedeva che approvava l'iniziativa.
«Papà, tu conosci un
posto che si chiama Goat Rocks o qualcosa del genere? Mi sembra che sia a
sud del monte Rainier» Chiesi, buttandola lì casualmente, ricordandomi
di quando Mike me ne aveva parlato
«Si, perché?».
Feci spallucce
«Certi ragazzi che conosco parlavano di andarci in campeggio»
«Non è un gran post per
campeggiare, Belarda» sembrava sorpreso «Troppi orsi. Ci si va durante
la stagione di caccia, più che altro»
«Ah» mormorai «Quindi si va a cacciare, non a campeggiare».
Ero una ragazza con la
testa sulle spalle, di solito, una ragazza tranquilla, pragmatica, ma in
quel momento desiderai davvero di poter vedere un orso. Certo, sarebbe
stato folle andare a Goat Rocks, anche in compagnia di un esperto del
camping come Mike, però... non si sa mai nella vita.
Avevo intenzione di
dormire fino a tardi la mattina dopo, ma uno strano luccichio mi
svegliò. Aprii gli occhi di scatto e vidi un raggio di luce forte e
gialla, come se fosse riflessa sull'oro, penetrare attraverso la tendina
ingiallita. Non potevo crederci! Corsi alla finestra a controllare e
c'era il sole, un vero sole, sebbene non sembrasse vicino come avrebbe
dovuto essere!
La linea dell'orizzonte
era ancora coperta di nubi, che sembravano ammassi dii piccole pecore,
però al centro del cielo si apriva una chiazza di un azzurro
abbacinante. Restai alla finestra il più a lungo possibile, temendo che
se mi fossi allontanata l'azzurro sarebbe sparito.
Olympic Outfitters, il
negozio di articoli sportivi della famiglia di Mike Newton, era a nord,
appena fuori Forks, nel posto perfetto per richiamare campeggiatori,
cacciatori, kayakisti e appassionati di funghi. L'avevo notato già, ma
purtroppo non mi ci ero mai fermata prima di quella volta.
Nel parcheggio
riconobbi il Suburban di Mike e la Sentra di Tyler. Mi avvicinai: il
gruppo di amici si era radunato di fronte all'auto di Mike. C'era Eric,
insieme ad altri nostri due compagni di corso che ero quasi, ma solo quasi, certa
che si chiamassero Ben e Conner. E c'era anche Jessica, affiancata da
Angela e da Salame Monello o qualunque fosse il suo nome.
Accanto a loro c'erano
altre tre ragazze di cui non conoscevo il nome, ma ricordavo una di loro
perché l'avevo travolta durante l'ora di ginnastica, il venerdì
precedente, e mi ero scusata con lei così tanto che si era messa a
ridere fino alle lacrime e alla fine avevamo condiviso un panino.
Salame Monello mi
guardò, lanciandomi un'occhiataccia, quando scesi da pick-up e ravvivò
la sua chioma platinata con un certo disprezzo.
Avrei voluto dirle "ma
che fai, ti disprezzi i capelli?", ma ero troppo timida per farlo e mi
limitai ad avvicinarmi mogiamente ai miei amici. Un conto era tenere
testa a Cullen (era troppo stupido per poter essere considerato al pari
di un altro ragazzo della mia età), un conto vedersela con strane tizie
platinate che lanciavano occhiatacce.
Se non altro, Mike era contento di vedermi.
«Sei arrivata!» Disse allegro «Te l'avevo detto che sarebbe uscito il sole!»
«Te l'avevo detto che sarei venuta» risposi io
«Mancano soltanto Lee e Samantha... a meno che tu non abbia invitato qualcun altro» aggiunse Mike, birichino
«A cosa ti riferisci?
Starai mica parlando di quello schianto di Cullen?» domandai, fingendo
frivolezza «Cioè, voglio dire, come si fa a non invitare Cullen?».
Scoppiammo a ridere
tutti e due e lui mi diede un colpetto con le nocche contro la spalla.
Salame Monello mi guardò come se le avessi appena vomitato sulle scarpe e
mi chiesi che cosa le avessi mai fatto per meritarmi tutto quest'astio.
Ero una brava bimba!
«Sali in macchina con me?» Domandò Mike «L'alternativa è il furgoncino della mamma di Lee»
«Certo».
Il suo viso si illuminò: era così facile fare contento Mike.
«Puoi sederti davanti, accanto a me» Promise lui.
Nascosi egregiamente il
mio nervosismo: non era tanto semplice fare contenti Mike e Jessica
allo stesso tempo, visto quanto, ultimamente, Jessica si fosse
dimostrata interessata a lui. Tuttavia Mike era il mio migliore amico e potevo sedermi dove volevo sulla sua macchina.
Tuttavia, i numeri
giocarono spietatamente a mio favore: Lee aveva invitato due persone in
più, perciò bisognava sfruttare tutti i posti. Feci in modo di fare
accomodare Mike tra me e Jessica, sul sedile posteriore del Suburban,
che sarebbe stato provvidenzialmente guidato da quello che credevo si
chiamasse Ben.
Incredibile che Mike lasciasse la guida della sua auto a qualcun altro pur di stare vicino a me.
La Push distava
soltanto una ventina di chilometri da Forks. La strada, quasi
completamente attorniata da foreste rigogliose e verdi, incrociava due
volte il fiume Quilayute. Ero così contenta di stare accanto al
finestrino!
Lo tenevo abbassato –
il Suburban con nove passeggeri era un po' claustrofobico – e cercavo di
non perdermi neanche un istante di luce solare.
Durante i miei
soggiorni a Forks da Carlo, ero già stata parecchie volte alle spiagge
nei dintorni di La Push, perciò la mezzaluna lunga un miglio di First
Beach mi era deliziosamente familiare. Rimasi comunque senza fiato.
L'oceano era plumbeo, scuro, anche sotto la luce del sole, e gli spruzzi
bianchi delle onde si frangevano sul litorale grigio e roccioso. Dalle
acque del golfo color dell'acciaio emergevano isolotti rocciosi a
strapiombo sul mare come scogli, sulla cui cima spiccavano alberi
solitari ed austeri. L'unico lembo di sabbia non era più che un orlo al
limitare del bagnasciuga: da lì in poi era solo una larga fascia di
sassi levigati, confusi dalla distanza in una tinta grigia uniforme, ma
che visti da vicino mostravano tutte le tonalità possibili: terracotta,
verde mare, lavanda, grigio-azzurro, oro opaco.
Li ricordavo
chiaramente da quando, ancora bimbetta piena di stupore, Billy Black e
Carlo mi avevano portata a visitare la battigia disseminata di grandi
tronchi alla deriva, sbiancati come ossa dal sale delle onde, alcuni
impilati ai bordi della foresta, altri solitari, appena fuori dalla
portata del mare impetuoso. Da piccola quel posto mi era sembrato una
sorta di posto magico uscito da una fiaba oscura, l'aspetto scheletrico
del legno accanto allo sconfinato mare grigio, che rifletteva le nuvole
di un cielo che non era mai veramente sereno, mi sussurravano di storie
che avrei voluto che "zio Billy" mi raccontasse. Ma qualcosa mi
distraeva o mi frenava sempre dal chiedere.
Dal mare soffiava un
vento robusto, fresco e salmastro. I pellicani, che indicai entusiasta a
Mike a dito, galleggiavano sulla cresta delle onde, sopra di loro
planavano qualche gabbiano e un'aquila solitaria. L'orizzonte era ancora
circondato da nubi che minacciavano di invadere il cielo, ma per il
momento il sole aveva ancora il coraggio di brillare in mezzo alla sua
aureola blu.
Mi sentivo a casa.
Imboccammo il sentiero
per la spiaggia, con Mike che ci guidava verso un gruppo di tronchi
disposti in cerchio che ovviamente erano già stati usati come
pittoreschi sedili per un'altra scampagnata come la nostra. C'era anche
la postazione per il fuoco, traccia carbonizzata di un falò recente.
Eric e il ragazzo che mi pareva si chiamasse Ben raccolsero un po' di
rami raccogliendoli da tronchi più lontani dalla spiaggia e quindi più
asciutti, e in poco tempo assemblarono sulle vecchie ceneri una
costruzione a forma di tepee.
«Hai mai visto un falò fatto con questa legna?» Chiese Mike.
Ero seduta su un tronco
color osso che faceva da panchina improvvisata; le altre ragazze,
appollaiate di fianco a me, chiacchieravano tra loro così fitto e così
rumorosamente che il loro cicaleccio mi convinse a spostarmi ed
accomodarmi accanto a Mike, ma il mio amico mi fermò e si spostò lui
stesso per raggiungermi, chetando Jess che dava segni di inquietudine
mettendosi tra me e lei. Per tranquillizzarla indicai noi due sillabando
"dame" mentre Mike si cercava qualcosa nelle tasche e poi lui.
"Salame". Le strappai un sorriso e mi ricomposi.
Lui si inginocchiò
accanto alla legna e diede fuoco ad un ramo più piccolo con un accendino
che aveva estratto dalla tasca dei jeans. Non fumava, quindi immagino
lo avesse portato proprio per accendere il nostro falò.
«Sono già stata qui
altre volte, ma io e papà non abbiamo mai acceso un fuoco qui» Ammisi,
mentre lui posizionava con cura il rametto al centro del tepee. Di
solito scendevamo a pescare di pomeriggio, a rischio precipitazione e
per pescare, quindi non avrebbe avuto senso creare un fuoco. Tuttavia,
dal modo in cui Mike ne stava parlando, doveva esserci qualcosa di
speciale che stava per mostrarmi.
«Allora ti piacerà...
guarda che colori». Incendiò un altro rametto e lo mise accanto al
primo. Le fiamme attecchirono in fretta sulla legna secca, soffiando
come gattini arrabbiati.
«È blu» Dissi, meravigliata.
«È il sale che dà quel colore. Bello, vero?». Il mio tono lo aveva fatto gonfiare di orgoglio, felice di avermi sorpresa.
«Bellissimo. Posso accenderne uno?».
Lui mi passò
l'accendino e io selezionai un ramo per il mio esperimento. Osservai per
breve tempo, ammaliata, la fiamma che si aggrappava al legno e infine
lo lasciai sul lato del nostro falò che ancora non era stato raggiunto
dal fuoco. Jess reclamò l'attenzione di Mike, ma non mi dispiacque,
impegnata com'ero a fissare le strane fiamme verdi e blu che si
protendevano crepitando verso il cielo.
Mi sedetti su un
tronco, abbandonando le braccia in avanti. Chiusi gli occhi e inalai
l'odore del sale e del fuoco, sentendomi una qualche esotica specie di
drago.
Il mare era una chiesa, le fiamme il suo incenso.
Dopo qualche istante Mike si avvicinò
«Tutto ok?» Domandò
«Si» risposi «Stavo solo... mi stavo godendo il momento. Abbiamo niente da mangiare?»
«Si, certo» si tolse dalla tasca una barretta alle noccioline e me la porse «Ti va?»
«Grazie!» la aprii e mi misi subito a sgranocchiarla «Come va con il cane?»
«Sta bene. Come al solito, per fortuna. Volevo portarlo, ma c'è qualcuno qui che... beh, non ama molto i cani»
«È un peccato»
«E con Dracula, come va?»
«È strano» dissi, seria
«Tutte le notti, alla stessa ora, mi sveglia come se avesse visto
qualcosa di terribile. Poi ritorna a dormire»
«Davvero?» Mike batté le palpebre velocemente «È parecchio strano, Belarda. Hai provato a capire cosa c'è che non va?»
«Ho ordinato una
telecamera a visione notturna da installare per capire cosa succede, se è
il gatto ad avere un disturbo o se c'è qualcosa di strano, tipo un
fantasma, che viene a trovarmi».
Fissavo il fuoco, il
suo movimento ipnotico... fiamme di drago. Sotto la luce del sole, al
calore di un piccolo falò, era difficile credere ai fantasmi.
Dopo mezz'ora di
chiacchiere, alcuni proposero di avventurarci fino alle pozze. Che
dilemma: da una parte, le pozze formate dalle maree mi affascinavano fin
da quando era piccola, dall'altra ci ero caduta dentro un sacco di
volte, inzuppandomi da testa a piedi.
Non che sia un
problema, se hai sette anni e c'è il tuo paparino accanto a te, pronto a
ripescarti, ma quando sei quasi un'adulta e sei con i tuoi amici
potresti non desiderare di finire a testa in giù in una pozza salata.
Alla fine fu Salame
Monello a decidere per me. Non aveva voglia di camminare in mezzo ai
sassi, non aveva le scarpe adatte. Tranne Angela e Jessica, quasi tutte
le ragazze decisero di restare alla spiaggia, così mi unii al gruppo che
voleva andare alle pozze per evitare di rimanere con Salame Monello e
perché, diciamocelo, volevo camminare.
Il percorso non era
molto lungo, il bosco nascondeva l'azzurro del cielo con il suo intrico
di rami che si estendevano come ragnatele enormi, bianche e verdi, sopra
le nostre teste. La luce smeraldina della foresta contrastava
fortemente con le risate dei ragazzi, sovrannaturale e aliena. Dovevo
stare molto attenta ad ogni passo, evitando le radici in basso e i rami
in alto, e in poco tempo persi terreno rispetto al gruppo.
Alla fine oltrepassai
il limite della foresta e mi trovai di nuovo la costa rocciosa. La marea
era bassa, attraversammo un canale che sboccava nel mare. Lungo le rive
di ciottoli, le pozze poco profonde che non si prosciugavano mai
pullulavano di vita.
Mi sforzavo di non
sporgermi troppo sulle pozze oceaniche e di tenere i piedi ben saldi, in
punti poco sdrucciolevoli, mentre gli altri, più temerari, saltavano
sulle rocce e si tenevano in equilibrio precario sulle sponde, spesso
cantando o ridendo.
Trovai una pietra
dall'aria molto solida ai margini di una delle pozze più grandi e con
cautela mi ci sedetti, rapita da quell'acquario naturale, brillante
della rara luce solare. I tentacoli carnosi e urticanti degli anemoni,
dai colori brillanti, dondolavano senza sosta, come mossi da una
corrente invisibile, e sulle sponde strisciavano le forme più strane di
conchiglie, trascinate da lumache marine con corpi così piccoli da
essere completamente nascoste dai loro gusci. Le stelle marine se ne
stavano immobili, abbarbicate alla pietra, una addosso all'altra, mentre
una piccola murena nera a righe bianche ondeggiava tra le alghe verdi,
in attesa della prossima marea.
«Un'anguilla!» Gridò Mike, indicandola «Che bella!»
«Non è un'anguilla» lo
corressi, ridacchiando «È una piccola murena. Le anguille sono d'acqua
dolce, vanno nell'oceano solo per riprodursi»
«Una murena!» si corresse Mike, sempre urlando «Che bella!».
Infine ai ragazzi venne
fame, e io mi alzai per seguirli, perché essendo umana era venuta fame
anche a me. Cercai di stargli più alle costole durante il tragitto nel
bosco per non rimanere indietro, ma siccome il mio equilibrio era un
gran traditore e le gambe si erano addormentate quando mi ero seduta ad
osservare la murena, caddi un paio di volte. Mi sbucciai leggermente il
palmo delle mani, su cui era rimasta impressa l'impronta dei sassolini
su cui ero precipitata, e macchiai i jeans di verde sulle ginocchia, ma
ne era valsa la pena.
Mike mi assicurò che
non si sarebbe mai perdonato per avermi lasciata cadere due volte, poi
mi prese in giro per le mie gambe di burro. Io gli dissi di stare zitto
con grande dignità e di guardare le sue anguille. Lui mi fece il
solletico e rischiai di cadere una terza volta, ma almeno questa mi
afferrò per un braccio impedendomi di schiantarmi contro dei molluschini
innocenti.
Tornati a First Beach,
la comitiva che avevamo lasciato alla spiaggia si era moltiplicata. Più
ci avvicinavamo, più riuscivamo a distinguere i capelli lisci, neri e
dritti e la carnagione bronzea dei nuovi arrivati: erano ragazzi della
riserva venuti per fare amicizia. Il cibo iniziò a circolare e tutti si
affrettarono a prendere la loro porzione; Eric ci presentava mano a mano
che entravamo all'interno del cerchio di tronchi. Io e Angela arrivammo
per ultime, e non appena Eric annunciò i nostri nomi mi accorsi
dell'occhiata interessata di un ragazzo più giovane, che stava seduto
sulle pietre accanto al fuoco. Mi accomodai accanto ad Angela, e Mike,
sempre organizzato, ci offrì un panino e una vasta gamma di bibite da
cui scegliere.
«Certo che hai portato
un mucchio di roba» Gli dissi sottovoce. Con tutta quella gente in più
mi sentivo ancora più timida, ma con lui potevo essere naturale.
«La mia famiglia ha un
negozio di articoli sportivi, quindi ci teniamo anche barrette, bibite e
un mucchio di cose così. Vuoi un Gatorade?».
Un altro ragazzo, che
sembrava il più anziano dei visitatori, ci snocciolava i nomi dei suoi
sette compagni. Memorizzai soltanto che una delle altre ragazze si
chiamava Jessica e il nome del ragazzo che si era accorto di me, Jacob.
Cercai di non sbirciarlo troppo, ma si presentava come un futuro bel
ragazzone, con il viso tondo e i piedi davvero davvero grandi – non
potei fare a meno di notarli, cercando di tenere lo sguardo basso per
non farmi sorprendere ad indagarlo da lontano – che poteva dimostrare
quattordici anni, quindici.
Angela, se si accorse
del mio scrutare i piedi dei ragazzi di La Push, non commentò. Stare
accanto ad Angela era rilassante: era una persona tranquilla, e parlare
con lei non significava obbligatoriamente perdersi in chiacchiere
inutili. Mentre mangiavo mi lasciò pensare ai fatti miei, senza
disturbarmi. Al centro dei miei pensieri c'era il modo scombinato in cui
a Forks percepivo il tempo, spesso una serie di immagini in corsa tra
cui alcune emergevano più chiare di altre. Ma c'erano momenti, come
questo, in cui ogni secondo era importantissimo, marchiato nella mia
memoria. Sembrava che la mia vita avesse due atmosfere completamente
diverse: a volte vivevo una fiaba, a volte ero un personaggio di una
puntata di Criminal Minds.
Adesso volevo vivere la fiaba.
Durante il pranzo le
nuvole iniziarono a stringere il loro cerchio scivolando nel cielo, di
tanto in tanto nascondevano il sole sfiorandolo svelte e gettavano
lunghe ombre che spiccavano sulla spiaggia e rendevano scure le onde.
Dopo lo spuntino, i ragazzi iniziarono a passeggiare in gruppi di due o
tre. Alcuni si avvicinarono alla battigia, saltando sulle pietre di
quella superficie sconnessa. Ero sicura che non mi sarei unita al loro
gruppo. Altri organizzarono un'altra spedizioni verso le pozze. Mike e
Jessica, che gli faceva da ombra, si diressero verso il negozio più
vicino nel villaggio, non so a fare che perché i negozi non erano il mio
modo di vivere la mia fiaba personale, ed ero riuscita a resistere
anche agli occhi da cucciolo di Mike.
Magari Jessica sarebbe stata anche più contenta – era più il suo
genere di fiaba, sola in un negozio al buio col suo cavaliere, o forse
il suo genere di film horror – se avesse potuto chiacchierare con Mike
senza di me per un po'. Alcuni ragazzi del posto li seguirono, altri si
unirono alla passeggiata più lunga. Dopo che il gruppo si fu disperso,
mi ritrovai sul tronco sola con Lorenza e Tyler, alle prese con il
lettore CD che qualcuno aveva pensato di portare, e a tre ragazzi della
riserva, tra cui quello di nome Jacob e il più grande che aveva fatto da
portavoce.
Angela si unì di nuovo
alla spedizione che andava verso le pozze e, mentre io mi chiedevo che
diamine stessi facendo ancora seduta lì con tre tipi a cui non avevo il
coraggio di rivolgere la parola e due incarnazioni umane di
un'infestazione di zecche (di diversa gravità, ma comunque...), Jacob si
fece avanti e si sedette di fianco a me. Aveva i capelli lunghi, neri e
lucidi, stretti con un elastico alla base della nuca, che mi fecero
venire voglia di cantare il jingle di una pubblicità di shampoo. La sua
pelle era bellissima, vellutata e color ruggine, gli occhi scuri dal
taglio arrotondato ancora un po' da bambino incastonati sopra gli zigomi
sporgenti. Il mento ancora un po' rotondo, il tratto che gli dava
un'aria un po' infantile, dava una curiosa impressione sotto quegli
zigomi, come se metà della sua faccia fosse maturata lasciando indietro
l'altra metà. Tuttavia, nel complesso aveva un viso molto bello.
L'opinione tenuemente positiva che il suo aspetto mi aveva suggerito a prima vista rimase invariata dopo che aprì bocca.
«Tu sei Bella Cigna, vero?».
Sembrava una domanda da primo giorno di scuola, ma lui era uno scolaretto gentile, seppur molto entusiasta.
«Belarda» Lo corressi timidamente
«Io mi chiamo Jacob Black» mi offrì la mano, con aria amichevole «È stato mio padre a venderti il pick-up»
«Oh!» dissi, sorpresa e sollevata, stringendogli la mano «sei il figlio di Billy. In teoria dovrei ricordarmi di te»
«No, io sono il più giovane. Probabilmente ricordi le mie sorelle più grandi»
«Rachel e Rebecca» mi
rammentai all'improvviso. Quando venivo in vacanza a Forks, Charlie e
Billy cercavano di farci giocare assieme, per tenerci occupate mentre
loro pescavano. Eravamo tutte e tre troppo timide per fare amicizia.
Ovviamente, finii per accumulare tanto nervosismo che all'età di undici
anni m'impuntai fino a quando mio padre e Billy non mi accettarono a
pescare con loro, invece che lasciarmi con quelle due bimbe che
chiaramente avevano voglia di giocare con me quanta ne avevo io di
giocare con loro. Non porto loro rancore. Eravamo nella stessa barca.
«Ci sono anche loro?».
Esaminai le ragazze sulla battigia, chiedendomi se fossero cambiate
abbastanza da non riuscire a riconoscerle. Non eravamo mai diventate
amiche, ma le avevo riviste in giorni alterni in questi ultimi anni.
«No» Jacob scosse la
testa «Rachel ha vinto una borsa di studio per l'università, Washington
State, e Rebecca ha sposato un surfista samoano, adesso vive alle
Hawaii».
«Sposata. Caspita». Ero
stupefatta. Le due gemelle avevano soltanto un anno e qualche mese più
di me. Poi non riuscivo a richiamare un qualunque particolare in Rebecca
che mi avesse fatto pensare ad un fidanzamento.
Jacob interruppe le mie
elucubrazioni mentali in cui cercavo di assemblare degli adorabili
bambini mezzi samoani mezzi Quileute – finora avevo solo concluso che
avrebbero avuto la pelle più bella del mondo – chiedendomi «Allora, ti
piace il pick-up?»
«Lo adoro. Non perde un colpo»
«Già, peccato che sia
lento» rise lui «È stato un sollievo venderlo a Carlo. Papà non voleva
che mi mettessi a costruire un'altra macchina finché non avevamo ancora a
disposizione un veicolo perfettamente in ordine».
Era un'informazione molto interessante sui suoi hobby, ma prima urgeva difendere l'onore del mio automezzo.
«Non è così lento» Obiettai
«Hai provato a passare i cento?»
«In effetti no»
«Brava, non provarci, mai». Sorrise.
Ricambiare il sorriso mi venne spontaneo. «In caso di incidenti è indistruttibile»
«Probabilmente quel vecchio mostro resisterebbe anche ad un carro armato» Aggiunse lui, con un'altra risata.
Finalmente placata, riuscii a chiedere incuriosita «Hai detto che costruisci macchine?»
«Quando ho il tempo, e i
pezzi. A proposito, sai dove potrei procurarmi un cilindro freni per
una Volkswagen Golf del 1986?» aggiunse, scherzando. Aveva una voce
piacevole, roca, che combinata con il suo aspetto mi dava l'impressione
che la pubertà gli avrebbe regalato una crescita da fungo radioattivo.
«Mi dispiace» Dissi
sorridendo «ultimamente non me ne sono capitati molti tra le mani, ma
terrò gli occhi aperti. Comunque ad uno dei miei amici, Mike,
interessano molto la meccanica e i film spazzatura. Se condividete
entrambi gli interessi sarete ottimi amici, altrimenti non so se solo
con la meccanica riuscirai a sopportarlo». Come se sapessi cos'è un
cilindro freni.
«E tu come lo sopporti?» mi chiese, con un lampo divertito negli occhi
«Oh, non ho un
cellulare su cui può riempirmi di messaggini. E poi lui mi sopporta
nonostante i miei oscuri segreti, quindi cerco di tenermelo amico». La
conversazione con Jacob mi veniva molto facile. In parte perché era una
persona entusiasta, solare, e forse in parte perché era più giovane di
me.
Sfoderò un sorriso
luminoso, rivolgendomi uno sguardo di apprezzamento che stavo imparando a
riconoscere. Anche qualcun altro se ne accorse.
«Conosci Bella, Jacob?» Chiese Lorenzina – con un tono di voce che mi sembrò insolente – dall'altra parte del falò.
«Più o meno ci
conosciamo da quando sono nato» disse divertito, senza smettere di
sorridere. Era esagerato, ma il suo entusiasmo era adorabile e io non
ero nessuno per sciuparglielo, specie davanti alla Lorenzina, che
commentò: «Che carino».
A giudicare dalla sua
espressione, non ci trovava proprio niente di carino, e strinse a
fessura i suoi occhi pallidi da pesce. Perché si fosse intromessa così
non lo so. Non ci interessava sapere che non le piacevamo, poteva
sentirsi le canzoni con Tyler invece di rompere a noi, sprecando tempo.
«Bella» Insistette lei, fissandomi bene negli occhi.
«Che vuoi?» Sbottai, senza pensarci
«Stavo giusto dicendo a
Tyler che è davvero un peccato che i Cullen non si siano uniti a noi.
Come mai nessuno ha pensato di invitarli?». La sua espressione
preoccupata non era affatto convincente. Okay, stava velocemente
passando a "persona con cui voglio essere gentile anche se mi da i
dispiaceri" a "moglie di capelli-pazzi".
«Vuoi dire la famiglia
del dottor Carlisle Cullen?» Chiese il ragazzo più grande e più alto
prima che potessi rispondere io, con grande irritazione di Salame
Monello. Somigliava più a un uomo che ad un ragazzo, e la sua voce era
molto profonda. Avrei potuto offendermi per il fatto che mi avesse
parlato sopra, ma la faccia di Lorenzina era troppo soddisfacente per
fare altro che ridere sotto i baffi.
«Si. Li conosci?» Chiese la smorfiosa, voltandosi parzialmente verso di lui.
«I Cullen non vengono
qui» Rispose lui con un tono che voleva chiudere il discorso, ignorando
la domanda. Oh si! Bravo eroe tenebroso!
Tyler cercò di
ricatturare l'attenzione della bionda platinata e le chiese cosa ne
pensasse di un CD che teneva tra le mani. Lei si lasciò distrarre.
Ringalluzzita, squadrai
il ragazzo dalla voce profonda, ma lui si era voltato verso la foresta
scura alle nostre spalle. Hm, signor eroe tenebroso? Capisco che lei
cerchi dopo una simile frase ad effetto dell'oscura epicità guardando il
bosco, ma noi siamo da questa parte. Stava ridendo e scherzando con
noi, signor...
Beh, potevo capirlo. Se
pensavo a capelli-pazzi, anche io avevo voglia di fissare gli alberi
per tutta la notte con aria di tenebrosa consapevolezza.
A proposito, aveva
detto che i Cullen non venivano da quelle parti, ma la sua voce alludeva
a qualcos'altro: non avevano il permesso di andarci, era un luogo
vietato. Chissà perché...? Cosa potevano avere fatto...? Forse aveva a
che fare con il razzismo rampante di Edward. Un americanone bianco e
bigotto come lui probabilmente si sentiva troppo superiore a noi poveri
italiani e indiani d'America, doveva aver combinato qualcosa di pesante.
Nonostante il modo di fare del ragazzo più grande mi lasciasse
stranita, cominciavo a considerare di trasferirmi a La Push.
Era veramente un bel posto.
Bei ragazzi bronzei che
assumono ormoni della crescita con il latte la mattina, paesaggi
mistici, culture antiche, divieti di accesso ad intere famiglie di
strambi, posti per pescare, boschi bellissimi...
Jacob interruppe la mia meditazione. «Allora, Forks ti ha fatto già impazzire?»
«Beh» abbozzai un sorriso «Sono pazza di Forks, ecco». Lui fece un sorriso raggiante.
Avevo ancora in testa
quel commento fugace sui Cullen, ma non li volevo ad occuparmi la testa
un secondo di più. Per scacciarli, decisi di intraprendere un qualche
tipo di attività con Jacob. Nessun altro sembrava un candidato papabile
per unirsi a noi: tra i miei due compagni di scuola che ondeggiavano la
testa a ritmo di musica, il ragazzo grande che guardava fisso gli alberi
e il terzo ragazzo della riserva di una passività allarmante, solo io e
Jacob sembravamo creature senzienti.
Una volta che ci fummo accertati che il terzo ragazzo fosse vivo e in salute, io mi voltai verso Jacob e sentenziai:
«A questa serata manca ancora qualcosa»
«Davvero? E che cosa?».
La mia voce diventò più roca: «Ti piacciono i racconti del terrore?» chiesi, con fare minaccioso. Improvvisavo.
Lui si illuminò «Li adoro!» rispose, colpendomi con il suo entusiasmo
«Allora sei un tipo coraggioso»
«Puoi scommetterci»
«E se ti sfidassi ad allontanarci dal fuoco, e a raccontarcele al buio...?».
Lui sembrò ancora più
entusiasta. Lo stavo sfruttando per allontanarmi dal gruppo principale,
però sembravamo entrambi felici ed eccitati alla prospettiva di qualche
sana storia per spaventarci raccontata senza il conforto di quelle
fiamme blu accanto a noi. Nel complesso, l'atmosfera era perfetta, non
potevi stare ad un falò del genere e non pensare neanche una volta a
raccontarsi delle storie del terrore!
«Ti va una passeggiata
sulla spiaggia?» Chiesi, sperando che nessuno avesse niente in
contrario. Jacob non si fece pregare e scattò in piedi. Cominciammo ad
allontanarci.
La complicità con cui
ci sorridevamo mentre ci avvicinavamo al bagnasciuga mi sorprese, ma era
una bella sensazione. Le uniche fonti di luce erano la luna e le fiamme
blu lontane, che fecero tornare grigie le pietre che sapevo alla luce
del giorno sapevo fossero multicolori. Mentre camminavamo sulla
spiaggia, diretti verso l'argine dei tronchi alla deriva, le nuvole
strinsero le fila e velarono il cielo; la temperatura si abbassò di
colpo e il mare si fece più scuro. Sprofondai le mani nelle tasche
della giacca, intirizzita.
Il cambio di atmosfera ci fece gongolare come due bambini.
«Quanti anni hai, Jacob? Quindici?» Chiesi
«Si, ci hai preso. Appena compiuti» confessò lui
«Normalmente avrei
detto sedici, sembri più grande. Però mi sono fatta un calcolino veloce,
visto che non ci eravamo visti prima». Lui parve lusingato, e ne fui
felice. Sperai che non ci trovasse nulla di romantico nella nostra
passeggiata al chiar di luna, perché a) ci eravamo appena conosciuti e
b) era molto giovane. Io volevo solo i miei racconti raccapriccianti.
«Bene, sei comunque abbastanza grande per sentire le mie storie spaventose»
«Sissignora!»
«Quindi, comincio io? E poi ne racconti una tu?»
«Hmm... Si, dai. Così capisco quanto terrificanti devo scegliere le mie storie»
«Ah, ne hai una riserva molto vasta»
«Si. Se non riesco a
raccontarti le migliori, potrei venirti a trovare a Forks qualche volta»
c'era una domanda implicita qui «Ma fino a quando non avrò finito la
macchina e non avrò preso la patente, dovrò limitare le visite»
«Prima vediamo se vorrai incontrarmi di nuovo, dopo quello che ho da raccontarti»
«Certo, certo, aspetta. Troviamo un posto che ha atmosfera».
Jacob fece qualche
passo, avvicinandosi a un tronco da cui spuntavano radici simili alle
zampe sottili di un enorme ragno pallido. Il posto mi affascinò subito.
Si adagiò su una di quelle radici ritorte, e io mi accomodai al centro
del fusto. Fissava le rocce, più in basso, con l'ombra di un sorriso
agli angoli dell'ampia bocca. Stava preparando il racconto che avrebbe
scelto a puntino, era evidente. Mi sforzai di concentrarmi sul mio
coinvolgimento personale.
Ancora una volta, dovevo improvvisare.
Presi un profondo respiro.
«Ci sono cose che noi
umani non sappiamo, eppure conosciamo. Ci sono cose a cui il nostro
corpo risponde senza che noi sappiamo il perché, e ci sforziamo di
scacciare via la paura, dicendoci che è del tutto irrazionale. A volte è
così, Jacob. A volte non lo è. Ricordati questo, mentre io ti
racconterò la storia di due ragazzi...»
«Proprio come noi» Sogghignò Jacob, che però era preso dalla mia storia
«... Si, che proprio come noi stavano seduti su un lungo osso salato, abbandonato qui dal mare».
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Aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su
wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere
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