Per fortuna la strada
era ancora lì, sicura, visibile, e le sue curve portavano fuori da
quella massa verde gocciolante. La seguii in fretta, con il cappuccio
ben calcato in testa, sorpresa mentre correvo tra gli alberi, di essermi
allontanata tanto. Mi venne il dubbio, che, anziché uscirne, stessi
seguendo il sentiero verso il confine più lontano. Fortunatamente, prima
che mi prendesse il panico, vidi i contorni di una radura aldilà dei
rami. Poi sentii il rumore di un'auto, ed eccomi libera, il vialetto di
Carlo era di fronte a me e la casa mi invitava a tornare, con una
promessa di calore e calze asciutte.
Era appena passato
mezzogiorno. Salii al primo piano e mi cambiai i vestiti; per stare in
casa mi bastavano un paio di jeans comodi e una maglietta con una
caricatura di Jane Austen. Non mi ci volle molto per concentrarmi sul
mio compito giornaliero e iniziare un saggio sul Macbeth da consegnare
entro il mercoledì successivo.
Ne abbozzai una traccia
soddisfacente (difficile non scriverne una sul Macbeth) e mi sentii
serena come non accadeva da... beh, da qualche ora. Così passò il
pomeriggio, tranquillo e proficuo.
Terminai il saggio
prima delle otto. Carlo ritornò a casa con parecchie prede, il che mi
suggerì di ricordarmi di cercare un libro di ricette a base di pesce,
durante il giro di compere a Seattle.
Il mio cellulare fece all'improvviso un suono. Un suono che poteva significare solo una cosa: Mike stava messaggiando.
Afferrai il telefono come se fosse una cosa aliena, guardai lo schermo e...
Ciao, Bela, sai di Sandu Ciorba?
Significava qualcosa? Chi era Bela? Perchè stava scrivendo a me? Risposi con dita tremanti
Mike, stai bene?.
Il telefono fece di nuovo il suono.
Certo che sto bene! E tu? :D
Mi chiedevo chi fosse Bela. Intendi Lugosi?
No, sei tu! :I
Era una battuta, Mikolo.
Ah. Ti dicevo, vai su internet e cerca "Sandu Ciorba"
Non posso.
Perché no? :I
Perché il mio internet fa schifo. Per partire ci mette ½ ora.
Come hai fatto quel mezzo?
Ho fatto 1 barretta 2 e ho fatto invio.
Ah.
Tipo così 1 \ 2, però vicini.
Domani ti porto un videro di Sandu Ciorba :P
Che lingua parli?
Sandu parla il Rumeno.
Sandu parla il Rumeno.
No, tu.
Sandu.
Vabbé, ciao. Ah, aspetta, oggi sentivo musica rumena!
Non è bella come Sandu.
Stai zitto. Diceva "padelle dandala". Ora devo andare, papà è tornato.
Silenziai il cellulare,
lo misi da parte e andai a cenare con papà. Papà non aveva portato
nient'altro che quel pesce, anziché, che ne so, una pizza, e
rifiutandomi di mangiarlo crudo dovetti cucinarlo quella sera stessa.
Visto il modo in cui mio padre guardò il processo con cui preparai le
sue prede, mi chiesi se durante il periodo della mia assenza fosse
sopravvissuto a pesce crudo.
Magari era un grande maestro del sushi.
«Papà, eri un grande maestro del sushi?»
«Eh? No, non proprio Belarda»
«Hmm...».
Quella notte dormii
senza sognare, esausta per l'alzataccia mattutina e per il pessimo sonno
della notte precedente. Per la seconda volta da quando ero a Forks, al
mio risveglio fui colpita dalla luce abbagliante e calda di un raggio di
sole. Scattai a guardare fuori e restai attonita nel vedere come in
cielo non ci fosse neanche una nuvola, a parte qualche piccolo e soffice
batuffolo che di certo non portava pioggia. Aprii la finestra –
sorpresa che non fosse incollata, dopo chissà quanti anni che era
rimasta chiusa – e respirai l'aria pulita. Faceva quasi caldo e il vento
si era calmato. Sentivo l'elettricità nelle vene.
Quando scesi in cucina Carlo stava finendo di fare colazione e si accorse immediatamente del mio umore.
«Bella giornata, eh?»
«Si» Risposi con un sorriso.
Lui ricambiò, con lo
sguardo luminoso, qualche ruga d'espressione all'angolo degli occhi
marroni. Quando papà sorrideva era facile intuire perché lui e mia madre
si erano lanciati con troppa foga in un matrimonio precoce. Il giovane
romantico che era stato in quei giorni era in gran parte svanito prima
che iniziassi a conoscerlo, come i capelli castani – lo stesso castano
dei miei, ma con una consistenza diversa – che si erano fatti grigi. Ma
quando sorrideva riuscivo a vedere un po' dell'uomo con cui Renée era
scappata a neanche vent'anni.
Che ci crediate o no,
il suo sorriso faceva spuntare il sole, allontanare le nuvole,
impallidire Brad Pitt e cinguettare gli uccellini.
Feci colazione di buon
umore, con gli occhi fissi a guardare il pulviscolo che fluttuava
nell'aria, illuminato dal sole che filtrava dalla finestra sul retro.
«Che guardi Bella?» Chiese mio padre
«Tutta la polvere luminosa che hai fatto uscire sorridendo» risposi trasognata.
Dracula miagolò, si
sedette accanto a me, e anche lui si fece ammaliare dal pulviscolo.
Carlo ci scrutò critico e si mise a guardare con insistenza verso dove i
nostri occhi erano puntati, ma con mia delusione non si fece catturare
dalla magia.
«Mangia, Bella».
Poco dopo sentii Carlo salutarmi e la volante della polizia salutarmi; salutai anch'io, ma il gatto, facendogli boop boop
sul naso. Mi trattenni per qualche istante sulla porta, con la giacca a
vento tra le mani. Lasciarla a casa era come sfidare il destino, una
cosa che facevo quando ero triste o arrabbiata, non quando il tempo era
bello. Sospirando, la presi sotto braccio e misi piede fuori, entrando
in una luce brillante come non ne vedevo da mesi.
Con una buona dose di
olio di gomito fui in grado di abbassare quasi completamente i
finestrini del pick-up. Fui una delle prime ad arrivare a scuola: avevo
avuto talmente tanta fretta di uscire, da essermi dimenticata di
guardare l'orologio. Parcheggiai e mi diressi verso le panchine
all'aperto, quasi mai utilizzate, sul lato sud della mensa: erano
ricoperte di scritte a penna o incise con la punta di un compasso, e
variavano dal "Marta ti amo" al "Goku è meglio di Vegeta".
Erano ancora umide,
perciò mi sedetti sulla giacca, felice di poterla utilizzare in quel
modo invece di tenerla addosso per sudarci dentro.
Avevo fatto i compiti,
ma c'erano ancora alcuni problemi di trigonometria di cui non ero ancora
sicura: libro alla mano, mi ci applicai solerte, ma a metà della
revisione del primo esercizio mi ritrovai a sognare ad occhi aperti,
ammirando i giochi di luce del sole sulla corteccia rossa degli alberi.
Scarabocchiavo distratta sui margini del quaderno. Dopo qualche minuto,
mi accorsi che sulla pagina avevo disegnato cinque pesci deformi. Li
cancellai con il bianchetto.
«Bella!» Udii. Sembrava
la voce di Mike. Mi guardai intono e mi resi conto che la scuola
intanto si era popolata, mentre io me ne ero rimasta lì assente. Erano
tutti in maglietta, alcuni addirittura in calzoni corti, malgrado la
temperatura non superasse i quindici gradi. Mike avanzava verso di me,
con un paio di bermuda kaki e una felpa da rugby a strisce, e mi
salutava con la mano.
Gli guardai le gambe: aveva i peli biondi.
«Ehi Mike» Risposi, agitando la mano al suo saluto «Come cavolo ti vesti?»
«Che c'è che non va?»
«Hai la felpa e i pantaloni corti!»
«E allora?»
«Ti suda il torso e ti gelano le gambe» ribattei, ma divertita
«Tu di me non sai, che
con questa temperatura, ho caldo alle gambe e freddo alle spalle» mi
rispose, tutto saggio «E poi tu non puoi dire niente perché non sai come
si usa una giacca: non si mette sotto al sedere».
Si sedette al mio
fianco, il riflesso dorato delle punte ben curate dei suoi capelli
splendeva al sole. Era talmente felice di vedermi che non potei non
sentirmi gratificata.
«Non mi sono mai
accorto... Hai una sfumatura di rosso nei capelli» Commentò, prendendo
tra le dita una ciocca che svolazzava mossa dalla brezza leggera
«Solo quando c'è il sole»
«Gran giornata, eh?»
«La mia giornata ideale» risposi
«La mia giornata ideale» risposi
«Cosa hai fatto ieri?».
Il suo tono di voce era un po' troppo deciso. Si aspettava che gli
dicessi che avevo cercato su internet Sandu Ciorba, era ovvio.
«Più che altro ho lavorato al saggio. E l'ho finito, mentre tu no».
Lui si diede un colpetto sulla fronte con il palmo della mano «Oh, già... la consegna è giovedì, vero?»
«Ehm, mercoledì mi sembra»
«Mercoledì?» si fece più serio «Cattiva notizia... tu di cosa parli?»
«Se si possa considerare misogino il trattamento shakespeariano dei personaggi femminili».
Mi guardava come se gli avessi appena parlato in lingua farfallina.
«Mi toccherà lavorarci stasera» Disse demoralizzato «Stavo per chiederti se ti andava di uscire»
«Ah»
«Dai, potremmo uscire a cena o qualcosa del genere, il saggio lo preparo dopo» mi sorrise, speranzoso
«Mike... non credo che sarebbe un'idea grandiosa»
«E perché no?» rimase a bocca aperta
«Perché tu sai e io so
che sei lento a scrivere i saggi e tu sai, e io so, che se usciamo a
cena facciamo tardi, fino alle undici, a parlare di cose sceme e tu il
saggio non lo fai»
«Ah, a proposito!» esclamò lui «Guarda!».
Tirò fuori il telefono,
un biscottone di ultima generazione, diverso dall'ultimo telefono che
aveva, e con un solo dito fece scorrere le icone sul suo schermo. Mi
stellavano gli occhi: non avevo mai visto dal vivo niente di simile.
«Che stregoneria è mai questa?!» Esclamai, mettendomi una mano sulla bocca
«Un I-phone» rispose lui, facendomi l'occhiolino «Non usciresti con un tipo che ha l'I-phone?»
«Si, purché abbia già fatto tutti i compiti»
«Ma tu guarda!» esclamò lui, poi, con un solo abile dito aprì un video intitolato "Mamaliga cu malai".
«Ma tu guarda!» esclamò lui, poi, con un solo abile dito aprì un video intitolato "Mamaliga cu malai".
Subito lo schermo si
popolò di bizzarri figuri che abusavano del green screen in modi atroci,
facendo apparire ragazze gigantesche e violinisti altrettanto titanici e
luci da discoteca psichedeliche inframezzate da screensavers scarsi
della Windows.
«Che cos'è?» Domandai, con gli occhi di fuori dalla meraviglia
«È Sandu Ciorba»
«Quale?»
«Il cantante»
«Quello brutto con quei capelli strani?»
«Non è brutto»
«Quello che fa quei balletti che sembra che gli hanno ingessato le gambe e dato botte nei gomiti?»
«Proprio lui»
«Ma sai che ho un suo
CD!» Esclamai all'improvviso, riconoscendo le parole e la voce del
cantante dai gomiti pestati «È l'uomo delle padelle dandala!»
«Che?!»
«Le padelle dandala! Ha una canzone dove canta "uh oh, padelle dandala!". Cercala su internet»
«Le padelle dandala! Ha una canzone dove canta "uh oh, padelle dandala!". Cercala su internet»
«Qua non ho internet. Poi a casa lo cerco».
Raccolsi i libri e li
infilai nello zaino: era tardi. Ci dirigemmo in silenzio, cercando di
non scoppiare a ridere, verso l'edificio tre.
Quando vidi Jessica a
trigonometria non stava più nella pelle. Lei, Angela e Lauren avevano
organizzato un'uscita a Port Angeles, nel tardo pomeriggio, per comprare
qualche vestito per il ballo, e voleva che le seguissi, anche se a me
non serviva niente. Ero indecisa. Mi avrebbe fatto piacere andare fuori
città con qualche amica, ma il problema era Lauren. E chissà cosa avrei
fatto quella sera... sarei potuta uscire con Mike, avremmo potuto
ballare padelle dandala e morire dalle risate, avrei potuto fargli
guardare le mie vecchie VHS del wrestling, avrei potuto conoscere il suo
cane, ma non era in quella direzione che volevo lasciar correre i miei
pensieri.
Certo, c'era il sole che mi rendeva felice. Ma non era l'unico responsabile del mio umore euforico, proprio no.
Perciò la lasciai in forse, dicendole che prima ne avrei parlato con Carlo.
Fra trigonometria e
spagnolo, non fece altro che chiacchierare del ballo e continuò senza
tregua finché la lezione non terminò, cinque minuti in ritardo rispetto
al solito, e venne l'ora di pranzare. Ero troppo presa dalla mia
frenesia e impazienza per prestarle attenzione. Perché ero frenetica e
impaziente? Cosa avevo mangiato stamattina a colazione? Non riuscivo a
ricordare altro che il sorriso luminoso di mio padre, ma ero certa di
non aver mangiato quello.
Quando vidi i Cullen,
ritornarono all'improvviso a galla i sospetti che mi assillavano e
attraversata la soglia della mensa, sentii il primo vero fremito di
paura scendere lungo la schiena e installarsi nello stomaco. Erano
capaci di leggermi nel pensiero? E perché avrebbero dovuto? Perché
pensavo queste cose sciocche? Avrei fatto meglio a ignorarli. Come era
ormai mia abitudine lanciai una prima (ed ultima) occhiata verso il
tavolo dei Cullen. Il tavolo era vuoto, ma dietro di esso, a parete,
c'era un poster dei fratelli che fissavano il muro immobili come quelli
reali e che mi avevano quindi ingannata per un attimo.
Con una gomitatina lo indicai a Jessica
«Ma l'hai visto?» domandai
«Che cosa?»
«Il tavolo dei Cullen».
«Il tavolo dei Cullen».
Lei alzò lo sguardo, brevemente, poi mi guardò e disse
«Sono come al solito, che c'è?»
«No, è vuoto!» esclamai
«Ma come, non li vedi?»
«Guarda!» indicai «Guarda meglio!».
Lei obbedì e dopo
qualche istante iniziò a ridere istericamente. Altri ragazzi al nostro
tavolo ci chiesero cosa stesse succedendo e quando tutti si furono
accorti che i Cullen erano stati sostituiti senza alcun problema da un
poster bidimensionale, le risate si propagarono da un lato all'altro
della mensa.
Jessica, ancora
ridendo, approfittò della confusione per sedersi accanto a Mike,
allontanandomi da lui. Raggiunto il suo obbiettivo, smise di ridere
bruscamente.
Angela mi rivolse un
paio di domande sul saggio shakespeariano, a cui cercai di rispondere
con naturalezza mentre ancora pensavo al poster dei Cullen. Anche lei mi
invitò a partecipare all'uscita, e a quel punto accettai, anche perché
dovevo comprare libri e spray al peperoncino ora che ci pensavo bene.
Il resto della giornata
passò liscio come l'olio. Dedicammo l'intera lezione di ginnastica alle
regole del badminton, che a dispetto del nome non è cattivo, ma non è
lo sport che fa per me. Se non altro, per una volta potei restare seduta
ad ascoltare, senza inciampare qua e là sul campo da gioco. Per giunta
il professore non riuscì a finire la spiegazione, il che mi concedeva un
giorno di tregua in più. Poco importava che nel giro di due lezioni mi
avrebbero armata di racchetta e scatenato contro il resto della classe.
Mi sentivo un mastino infernale.
Ero felice di tornare a
casa, ma appena fui arrivata da Carlo però, Jess mi telefonò per
annullare tutti i piani. Cercai di reagire con entusiasmo alla notizia
che Mike l'aveva invitata a cena fuori – che cavolo doveva fare i
compiti, non uscire con le ragazze – ma suonai falsa anche a me stessa.
Lo shopping era rimandato di un giorno.
Avevo fatto marinare il
pesce per la cena, e c'erano un po' di insalata e di pane avanzati
dalla sera prima, perciò non avevo niente da fare. Mio padre non
comprava la pizza, portava solo pesce ogni sera.
Dracula amava mio padre e probabilmente era contento dell'assenza di pizze. Io un poco di meno.
Passai una mezz'ora ben
concentrata sui compiti, ma finii anche quello. Scaricai la posta,
rilessi tutti i messaggi di mia madre in ordine cronologico: più erano
recenti e più mi irritavano. Feci un sospiro e iniziai a battere una
breve risposta.
Renée,
Scusa, ma sono stata fuori. Sono stata alla spiaggia con gli amici e dovevo scrivere un saggio.
Come scuse sembravano
piuttosto patetiche, ma chissenfregava, tanto non dovevo scusarmi. Era
lei a mandarmi ventordicimila volte al giorno "come stai?", non è che il
mio stato mentale cambiava così in fretta, sarei stata una specie di
mostruoso trasformer tripolare.
Oggi c'è il sole –
lo so, è scioccante anche per me – perciò sto uscendo, vado a fare un
giro fuori, ad assorbire tutta la vitamina D che posso.
Ringrazia Phil per i CD, sono meravigliosi.
Belarda.
Scelsi di far passare
un'altra ora leggendo qualcosa che non avesse a che fare con la scuola e
rimproverando Mike con i messaggini. A Forks avevo portato con me una
piccola collezione di libri, tra i quali il più malconcio era una
raccolta delle opere di Jane Austen. Scelsi quello e decisi di andare a
leggerlo nel cortile sul retro. Mentre scendevo le scale, pescai dalla
cassettiera un vecchio tappeto logoro.
Fuori, nel piccolo
giardino quadrato di casa, piegai il tappeto in due e lo stesi ben
lontano dall'ombra degli alberi, sull'erba fitta e umida del prato che
la luce calda del sole non riusciva ad asciugare. Mi sdraiai sulla
pancia, con i piedi per aria, e feci scorrere i titoli dei romanzi
contenuti nel volume, in cerca di quello che avrebbe impegnato più
duramente la mia attenzione.
I miei preferiti erano
Orgoglio e Pregiudizio e Ragione e Sentimento. Il primo l'avevo letto da
poco, perciò optai per il secondo, salvo ricordarmi, all'inizio del
capitolo tre, che l'eroe della storia si chiamava Edward. Irritata,
passai a Mansfield Park, ma il protagonista stavolta si chiamava Edmund:
troppo simile, evidentemente erano tutti la progenie di un tizio che si
chiamava Ed. Nel diciottesimo secolo non c'erano altri nomi
disponibili?
Chiusi di scatto il
libro, seccata, e mi voltai a pancia in su. Arrotolai le maniche fino
alle spalle, sentendomi Mark Lenders, e chiusi gli occhi. Mi sforzai di
non pensare ad altro che al calore che sentivo sulla pelle e non ai
muretti sfasciati.
La brezza era ancora
leggera, ma mi solleticava alzandomi i capelli sul viso. Li raccolsi,
schiacciandoli fra la testa e il tappeto, per concentrarmi sul calore
che mi sfiorava gli occhi, le guance, le labbra, le braccia, il mento,
insomma tutto, e filtrava attraverso la mia camicia leggera...
E non mi accorsi più di
nulla finché non sentii il rumore dell'auto di Carlo che avanzava sul
selciato. Mi guardai attorno, intontita, con la sensazione di non essere
sola.
«Papà?» Chiamai allora. Ma lo sentii sbattere la porta d'ingresso.
Mi alzai in un baleno,
nervosa per essere stata svegliata da rumori di motori e porte che
sbattevano, e raccolsi il tappeto ormai umido e il libro. Rientrai in
casa a mettere su il soffritto, consapevole che avremmo cenato in
ritardo. Carlo aveva appeso la fondina e si stava togliendo gli stivali.
«Bentornato! Scusa,
pa', non ho ancora iniziato a cucinare... Mi sono addormentata in
giardino». Mi lasciai scappare uno sbadiglio
«Non preoccuparti» rispose lui «Volevo dare un'occhiata alla partita in TV».
Mentre preparavo da
mangiare mi chiesi quante volte si potesse mangiare pesce per cena senza
mai stancarsene e lui si distraeva nel cercare il telecomando,
magicamente scomparso ma più probabilmente divenuto un gioco e
abbandonato da qualche parte per causa di Dracula.
Dopo cena guardai la
televisione assieme a papà, tanto per fare qualcosa e dare una chance
alla sua partita. Non c'era niente che mi interessasse, ma lui sapeva
che in realtà non sopportavo il baseball, perciò deviò su una stupida
sit-com che non piaceva a nessuno dei due.
Preferii riappropriarmi
del telecomando e cercare un programma sulla sopravvivenza o perlomeno
un documentario, che potesse piacere a tutti e due invece di farci
scontenti entrambi. Tuttavia, sembrava contento che facessimo qualcosa
insieme con o senza i tradimenti di Jenny che appestavano il nostro
schermo, e farlo felice mi fece sentire ancora un po' meglio.
«Papà» Dissi durante la
pubblicità, mentre il documentario ci dava il tempo di indovinare se
l'alligatore saltasse fuori dall'acqua per prendere le sue prede o no
«Jessica e Angela domani sera vanno a Port Angeles a caccia di vestiti
per il ballo di sabato, e mi hanno chiesto di aiutarle a scegliere... È
un problema se ci vado anch'io?»
«Jessica Stanley?» chiese
«Mamma mia, ma conosci tutti!»
«E Angela Weber» aggiunse, ignorando il mio commento
«Si, e forse una terza amica di cui non ricordo il nome» sospirai, mentre fornivo dettagli. Più o meno.
Non sapeva cosa rispondere «Ma tu al ballo non ci vai, vero?»
«No, papà, aiuto loro
a trovare i vestiti giusti: hai presente, serve una critica
costruttiva. E poi devo comprarmi uno spray al pepe». Sembrò che
bastassero come spiegazioni.
«Be', d'accordo». Aveva
capito che le faccende da giovani come noi non erano il suo territorio
«Dopodomani dovete andare a scuola però»
«Usciamo subito dopo le lezioni, così torniamo presto. Per cena ti arrangi tu?»
«Bells, mi sono fatto da mangiare da solo per diciassette anni, prima che tu arrivassi»
«Chissà come hai fatto a
sopravvivere> borbottai, poi aggiunsi a voce più alta «Ti lascio
qualcosa nel frigo per prepararti dei sandwich, d'accordo? Lì in alto. E
prenditi cura di Dracula, per favore».
Lui accettò le mie condizioni di buon grado.
Il mattino dopo c'era
ancora il sole. Mi risvegliai con rinnovate energie e speranzosa in una
giornata felice. Mi preparai alla temperatura più alta indossando una
camicia blu con scollo a V, un indumento che a Phoenix sfoderavo in
pieno inverno.
Stavolta niente giacca; non volevo fornire ulteriori pretesti a Mike di messaggiarmi assurdità.
Avevo progettato di
arrivare a scuola il più tardi possibile, in modo da non aver tempo da
perdere prima dell'inizio delle lezioni. Questo risultò purtroppo nel
mio rumoroso pick-up che girava per tutto il parcheggio alla ricerca di
un posto libero, che chiaramente non c'era anche se la Volvo dei Cullen
era assente, perché un tizio aveva parcheggiato in orizzontale occupando
tre parcheggi.
Alla fine parcheggiai
in modo scandaloso in ultima fila e arrivai all'aula di inglese di
corsa, senza fiato ma in orario, prima dello squillo della campanella.
Andò esattamente come
il giorno prima, pieno di amicizia, calore, speranza, spiegazioni di
badminton, e il poster dei Cullen era sempre là, certo meno ostile degli
originali. Accolsi tranquillamente la prospettiva di sedermi da sola al
tavolo degli esperimenti di biologia, all'ultima ora.
L'uscita a Port Angeles
era in programma per quella sera e mi entusiasmava molto di più perché
Lorenzina aveva altri impegni. Feci voto di restare attenta alla scelta
delle mie amiche per tutta la sera e a non rovinare il gusto di Jess e
Angela per la caccia al vestito, anche se sapevo che un qualunque
negozietto di libri mi avrebbe attirata come un topolino dei cartoni era
attirato dall'odore del formaggio. Magari avrei comprato qualche
vestito anch'io.
Dopo le lezioni,
Jessica mi seguì sulla sua vecchia Mercury bianca fino a casa, dove
lasciai i libri e il pick-up. Mi pettinai alla svelta, animata
dall'eccitazione di un uscita fuori da Forks, che mi faceva sentire una
ragazza trasgressiva più del dovuto. Lasciai sul tavolo un biglietto per
Carlo con le istruzioni per trovare la cena e montare un sandwich a mo'
di istruzioni per l'Ikea, cambiai il portafogli disastrato che stava
nello zaino con una borsetta che usavo raramente a disegni di
tartarughine, e corsi fuori da Jessica. Poi passammo a prendere Angela,
che ci stava già aspettando. Quando uscimmo davvero dai confini di Forks
la mia eccitazione schizzò alle stelle.
Angela Weber, la voce della ragione.
Belarda Cigna, l'intrepida spalla e fashion counsellor.
Jessica Stanley, ribelle al volante.
Eravamo pronte a conquistare Port Angeles!
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Aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su
wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere
direttamente da quel sito, continuate a leggere la storia da qui
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