L'interno della
sala era nero e oro, elegante come la carta di un cioccolatino
costoso, e sarebbe parso realmente raffinato se non fosse stato
illuminato da un guazzabuglio di luci al neon, metà verdi e metà
fucsia.
L'aria puzzava di
fumo e di un deodorante al pino così penetrante da far pensare che
fosse stato usato per coprire l'odore di qualcosa di disgustoso.
Alcune statue a forma di sfinge, dorate, fissavano i giocatori con
occhi rossi e traslucidi, sfaccettati, che sembravano fatti di
rubini.
Manuel Karas avanzò
verso il tavolo più grande, al centro della sala, che era tutto
ingombro di ogni sorta di oggetti colorati. Foglietti, penne, dadi di
strana foggia, carte da gioco, tessere, palline e monete che
sembravano uscite dal tesoro di un pirata fittizio scintillavano
sotto i neon in un modo irreale, quasi fossero parte della grafica di
un videogioco e non cose vere, tangibili. Intorno al tavolo sedevano
sei persone: due donne dai capelli vivacemente colorati,
rispettivamente rosa e blu, un uomo vestito da prete, una ragazzina
che non poteva avere più di sedici anni e che stava masticando del
tabacco, un ragazzo dall'aria delicata che indossava una camicia da
notte e infine lui, l'organizzatore del gioco, quello che aveva
parlato... era lui, lui, il motivo per cui Manuel si trovava
lì.
Aveva la pelle
scurissima, di un marrone grigiastro che era quasi nero, e i capelli
raccolti in una coda cespugliosa. Nonostante il colore della sua
pelle, lui non aveva lineamenti da africano, ma un naso
sottile, adunco, gli occhi piccoli, due perle lucenti e stranamente
pallide, che splendevano sempre come se fossero fiocamente
retroilluminate. Il suo sorriso, poi, era tutto denti e con due
canini leggermente ricurvi, da animale.
Manuel si sedette
accanto a lui, senza dire niente.
«Quanti soldi hai
portato?» Domandò lui
«Cinquantamila
euro» rispose Manuel, lapidario
«Avevi detto di
non possedere più nulla... che spreco, giocarti l'anima quando puoi
ancora rialzarti...»
«Ho venduto tutto e lo sai benissimo. Non ho più una casa, né un'automobile. Non ho niente, tranne questi soldi»
«Ho venduto tutto e lo sai benissimo. Non ho più una casa, né un'automobile. Non ho niente, tranne questi soldi»
«Hai venduto anche
i dischi di Nick Cave?».
Manuel trasalì:
non aveva mai rivelato a quell'uomo di possederli.
«Sì» Rispose
però.
La donna con i
capelli rosa diede una corta risata roca. Indossava una maglietta dei
System of a Down, strappata sul petto, che lasciava intravedere un
reggiseno rosso fuoco.
«E i dischi dei
Verdena?» Chiese ancora lui
«Sì» Manuel
annuì, sentendo qualcosa che gli si stringeva intorno al cuore
«E i CCCP?»
«Sì» un altro
colpo, una fitta al petto
«Anche quello di
Rancore, quello che ti aveva regalato tuo figlio?»
«Sì. Sì, anche
quello».
Un dolore
terribile, che gli fece serrare i pugni nascosti sotto al tavolo.
Ecco cos'era quella sofferenza: la realizzazione, sempre più acuta,
di tutto quello che aveva perso. Per sempre. Senza un passato
e forse senza un futuro, pronto a giocarsi l'anima e quel tavolo.
«Ora ci siamo
tutti» Disse l'uomo nero, con il suo sorriso tutto denti, bianco fra
le labbra nere «Possiamo presentarci, no?».
La donna con i
capelli rosa fece un'altra risatina. Quasi tutti mossero gli occhi
verso di lei, discretamente, quasi con paura: lei era l'unica a
sembrare felice, mentre gli altri erano tetri, distrutti.
«In senso
antiorario, forza! A partire dalla mia sinistra» L'uomo nero aprì
il palmo e indicò Manuel.
L'uomo prese un
profondo respiro e mise le mani sul tavolo. Non erano più serrate,
non stavano tremando: tutto a posto.
«Mi chiamo Manuel»
Disse, con voce chiara «Sono un archeologo»
«Ciao sexy!»
esclamò la ragazza con i capelli rosa.
Manuel deglutì:
non se la sentiva di rispondere, di dire niente di più. Non aveva
detto “un ex-archeologo”, non voleva essere compatito, voleva
solo morire.
«Io sono Achille»
Disse il ragazzo con la camicia da notte «Studente di architettura.
Sono qui per aiutare la mia famiglia: non abbiamo più nulla»
«Mi chiamo Luna»
si presentò la ragazza che masticava tabacco, con una vocina da
bimba piccolissima «E non faccio niente nella vita. Non sono una
sfigata: sono qui perché voglio esserci»
«Io sono Trevor»
disse l'uomo vestito da prete, il vocione da basso che stonava con il
volto scarno e pulito
«Eleonora» si
presentò la donna con i capelli azzurri, laconica
«Santa!» quasi
urlò quella con i capelli rosa, agitando le dita
«E infine io!»
Esclamò l'uomo nero, allargando le braccia «Fyodor! E avrei anche
un cognome, ma visto che nessuno di voi ha deciso di condividerlo,
non vedo perché dovrei farlo io. Anche se vi conosco tutti, eh».
Il suo sguardo
passò su tutti i presenti, lo stesso brillare morto nello smalto
bianco dei denti e nelle pallide iridi, e i giocatori si fecero
piccoli.
«Siete qui per
vincere: denaro, amore, sesso, gloria. Siete qui per giocare: il
denaro o l'anima. Ognuno di voi sceglierà un gioco e noi lo faremo.
Sei manche: ognuna un gioco diverso. Ci sono domande? Sì, Santa?»
«Si può giocare
alla roulette russa?»
«No, perché non possiamo uccidere gli altri giocatori, Santa»
«Ah. Il mercante in fiera?»
«Sì, il mercante in fiera sì. Va bene tutto, purché non si uccidano gli altri giocatori prima della fine del gioco»
«Lo scopone scientifico?»
«Sì»
«Lo strip poker?»
«Adoro lo strip poker. Spero in sei manche di strip poker, a dire il vero» un sorriso malandrino, ma che non contagiava gli occhi: finta malizia, un'eccitazione che non ha niente di sessuale.
«No, perché non possiamo uccidere gli altri giocatori, Santa»
«Ah. Il mercante in fiera?»
«Sì, il mercante in fiera sì. Va bene tutto, purché non si uccidano gli altri giocatori prima della fine del gioco»
«Lo scopone scientifico?»
«Sì»
«Lo strip poker?»
«Adoro lo strip poker. Spero in sei manche di strip poker, a dire il vero» un sorriso malandrino, ma che non contagiava gli occhi: finta malizia, un'eccitazione che non ha niente di sessuale.
Manuel ebbe
l'impressione vivida che quei denti potessero mangiargliela, l'anima,
masticarla come un pezzo di sedano e farne uscire il succo come acqua
dal fusto della verdura. Chomp chomp.
«Si inizia in
ordine di età» Spiegò Fyodor «Quindi tocca a te, Luna. Scegli il
gioco, sono sicuro che per te non sia un problema... ti conosco,
piccola monella!».
La ragazzina si
grattò una guancia con le unghie smaltate color oro. Le sue labbra
rosee si curvarono più volte, prima in un broncio, poi in un mezzo
sorriso, una serie di piccole smorfie concentrate mentre cercava il
gioco perfetto.
«Giocheremo a
carta sasso o forbice» Disse lei alla fine
«Le regole?»
domandò Fyodor, bramoso
«Ci si scontrerà
uno contro uno, immagino... di volta in volta chi perde esce dal
gioco. I vincitori si sfidano con i vincitori. Alla fine, il
vincitore prende tutto. Semplice, no?»
«Semplicissimo. Ma
siamo sette, non potremo formare tre coppie, uno di noi entrerà solo
in finale e... non sembra giusto»
«Sarà la sorte a scegliere le coppie e quindi anche chi rimane fuori per sfidare il vincitore. Scrivete i vostri nomi su dei pezzetti di carta e metteteli in quel portapenne».
«Sarà la sorte a scegliere le coppie e quindi anche chi rimane fuori per sfidare il vincitore. Scrivete i vostri nomi su dei pezzetti di carta e metteteli in quel portapenne».
Manuel allungò la
mano per prendere un post-it rosa e una penna. La penna aveva
l'inchiostro glitterato: sembrava che non ci fossero normali biro
nere o blu.
“Manuel”
Scrisse sul foglietto, poi lo ripiegò a metà e lo infilò nel
portapenne a forma di teschio verde acido. Anche gli altri stavano
ripiegando i foglietti e li stavano riponendo nello stesso
contenitore.
Stava davvero per
giocarsi parte di ciò che gli rimaneva a carta sasso forbice? E poi,
le aveva capite bene le regole? Non era sicuro di niente...
Nessun commento:
Posta un commento