«Catellan, sì. Alessandro, Alessandro Catellan»
«Cattelan. Con due t e una sola l. Un cognome fighetto, milanese» rise Marracash. Il volume della chiamata era abbastanza alto perché anche il diretto interessato, che aguzzava le orecchie con grande attenzione per seguire la conversazione, cogliesse la frecciatina.
«Non è milanese» Obiettò Alessandro, ad alta voce e facendo strani ghirigori nell’aria con l’indice, come un direttore d’orchestra «È un cognome molto diffuso in tutta l’area veneziana, padovana, vicentina e trevisana»
«Dice che è veneziano padovano trevisano» riportò Mika
«Visto, che ti dicevo? Fighetto» disse l’uomo dall’altro lato della linea «Se ti va me lo puoi passare, così gli chiedo quando posso vederti»
«Pa… passare?»
«Ma io ho fame» si lamentò il pugile «Ed è ora di… di…»
«Pranzo. No, qui mangiamo alle due, non alle» Cattelan si controllò l’orologio «Undici e cinquantanove»
«Ma mamma…»
«Senti, qui facciamo così. E poi prima ci sbrighiamo e prima mangerai, okay? Ti porto fuori, ti piace il kebab?»
«Uhm… sì?»
«Non sai neanche se ti piace il kebab! Forza, alza il culetto dalla sedia e seguimi, che ti divertirai!».
Cattelan fece salire Mika sulla sua vecchia Fiat Punto gialla, un regalo del suo caro nonno.
Nonostante l’automobile fosse vetusta e sprecasse un mucchio di benzina, Alessandro non aveva alcuna intenzione di cambiarla e preferiva usarla poco per risparmiare piuttosto che acquistare una macchina performante e capace di più chilometri con un pieno. I sedili della Punto erano puliti e profumati come il negozio di un barbiere all’antica, anche se quello posteriore era occupato da due cassette di plastica piene di riviste, libri per bambini, fotocopie e bozze. Dallo specchietto penzolavano: un broccoletto di plastica, una X rossa di metallo, un Arbre Magique alla menta e un pupazzetto mezzo rossonero e mezzo nerazzurro che avrebbe fatto venire una sincope sia ai milanisti che agli interisti e non si capiva bene che animale fosse (ma aveva un naso enorme).
Mika si allacciò la cintura, poi fece oscillare il pupazzetto colpendolo con un dito.
«Cosa è questo?» Domandò, curioso
«Si chiama Leopoldino» rispose Cattelan, mentre faceva manovra per uscire dal parcheggio
«Ma cosa è, Leopallino?»
«Leopoldino, non Leopallino. Leopoldino è un simbolo di tolleranza e fratellanza fra i popoli e fra tutte le curve degli stadi. A te piace il calcio?»
«No»
«E vabbé, ti perdono perché non sei italiano. Però a Leopoldino piacerebbe che tu guardassi il calcio! Leopoldino è molto sensibile, infatti è per metà un cane molto sensibile e per l’altra metà un ciaspolello molto sensibile»
«Cosa è un ciaspolello?»
«È una creatura che vive sul pianeta Ciaspolino. Io sono anche uno scrittore, lo sapevi? Scrivo libri per i più piccini, per i bimbi. I ciaspolelli li ho inventati io».
Mika si illuminò, le mani che si aggrappavano alla cintura di sicurezza.
«Posso leggere un libro che te hai scritto?» Domandò
«Certo. Ma non eri dislessico?» indagò Cattelan «Ti piace lo stesso, leggere?»
«Sì, ma… i libri per i bimbi sono scritti con scritte grandi e facili. Sono facili anche per me»
«Se riesci, qua dietro dovrebbe esserci almeno uno dei miei libri. Ha la copertina blu, prendilo pure!».
A Mika bastò allungare un braccio per acchiappare il volumetto, che si intitolava “La città dei ciaspolelli” e aveva in copertina una mediocre, tremolante illustrazione di una creatura completamente diversa dal pupazzetto che pendeva dallo specchietto, con uno sfondo che era palesemente ritagliato da una fotografia e modificato al computer.
«Ma è moolto brutto» Commentò Mika, con aria saggia e navigata
«Ma no, è carino!» Cattelan difese il suo lavoro
«No! Vedi, è tutto storto, ma non storto bello, storto brutto»
«Hmm, come argomenti bene le tue critiche, signor Penniman»
«Io lo avrei fatto meglio di questo qui»
«Ah, ora sei anche disegnatore oltre che cantante?»
«Sì»
«Un uomo dai mille talenti, vedo. Comunque i disegni non li ho fatti io, io ho solo scritto la storia»
«Tu devi licenziare quello che ha fatto il disegno» scandì Mika.
Cattelan rise. «Non posso licenziare proprio nessuno, Mika! Non sono il suo capo, il disegnatore mi è stato assegnato dalla casa editrice. Non me lo posso scegliere io».
Il pugile non rispose, aprì il libro e si immerse nella lettura.
«Siamo arrivati» Disse dopo qualche istante Cattelan «Su, scendi che non abbiamo tanto tempo, se vuoi mangiare».
Mika aveva la fronte aggrottata, solcata da piccole rughe di concentrazione, mentre continuava a leggere la storia. Solo dopo un paio di minuti chiuse il libro e con la voce piena di disappunto disse: «È brutta».
Cattelan spalancò gli occhi.
«Brutta? Cosa è brutta?» Abbaiò
«Questa storia. È brutta, non c’è pathos» Mika pronunciò “pathos” con la th all’inglese, mentre con la mano destra faceva un gesto italianissimo, le dita raccolte a grappolo che andavano su e giù
«È per bambini, certo che non c’è pathos!»
«I bambini non sono stupidi. Vogliono belle storie. Questa è brutta»
«Ah, quindi oltre ad essere cantante e disegnatore sei pure scrittore, eh? E se hai tutti questi talenti fantastici perché sei qui, eh? Perché sei senza soldi, con la mammina che ti cerca un lavoro e io che ti devo fare da manager? Eh? Eh?».
Mika abbassò lo sguardo, accarezzando la copertina del libro con i pollici, le spalle tese.
«Esatto» Rincarò Cattelan «Lascia fare a chi queste cose le sa fare. E vedi di crescere una volta tanto! Ora scendi, che non abbiamo tempo da perdere».
Mika obbedì, rabbuiato. Si portò dietro il libro, stringendolo come una reliquia anche se stava camminando fra file di articoli sportivi.
Lo Sport Today era uno dei negozi preferiti di Alessandro Cattelan, se non altro perché la proprietaria, la vecchia signora Comanetti, aveva un debole per lui e gli faceva sempre gli sconti. Non era un posto molto frequentato e in tanti lo trovavano caotico e claustrofobico a causa dei mucchi di articoli, alcuni dei quali palesemente anteguerra, che affollava gli scaffali, gli scatoloni e le ceste metalliche, ma in qualche modo era stato comunque in grado di sopravvivere negli anni.
Mucchi di calzini di spugna in offerta si mescolavano a scatole di supporti per i polpacci, cavigliere, palle mediche, palloni da pilates sgonfi e racchette da tennis; solo nel settore dedicato alle varie arti marziali, vera passione della signora Comanetti, sembrava esserci una parvenza di ordine: guantoni da una parte, bende multicolore per le mani tutte appese ad un apposito raccoglitore, sacchi da allenamento da un’altra parte e poco più in là la rastrelliera di scarpe e stivaletti ed un’esposizione di pantaloncini con un cartello scritto a mano che campeggiava attaccato al muro: “CALZONCINI PERSONALIZZABILI!!!”.
«Allora» Disse Cattelan «Vieni qui Mika, ti servono dei bei guanti, da sedici once possono andare. Scegli quelli che ti piacciono! Le bende le prendiamo quelle in offerta».
Il pugile toccò con le punte delle dita le superfici dei guantoni, saggiandole. Provò ad infilarsene un paio grigi e neri, ma aveva appena infilato le dita che subito aveva deciso di sfilarseli, neanche dentro ci fosse un serpente che l’aveva morso.
«Quelli erano carini però…» Aveva commentato Cattelan, in un tentativo di fare conversazione, ma sembrava ormai che Mika volesse punirlo con il silenzio. «Okay, grande campione. Hai il tuo diritto di non parlare, lo capisco. Voglio solo farti sapere che però non è una buona idea litigare e smettere di dirsi le cose: fra atleta e manager deve vigere la comunicazione, il rispetto, forse persino l’amicizia. Io posso sembrare un amico un po’ brusco, però sono sempre un tuo amico… ehi, mi stai ascoltando?» Cattelan allungò una mano verso la spalla di Mika per toccarlo e avere la sua attenzione, ma lui si girò a guardarlo prima di poter essere raggiunto, fissandolo dritto negli occhi con intensità.
Cattelan deglutì e allargò le braccia.
«E quando sarai pronto» Disse «Potrai dirmi tutto quello che vuoi».
Mika annuì quasi impercettibilmente, poi si concentrò di nuovo sulla ricerca dei guantoni perfetti. Ne trovò un paio rosa con le scritte in oro e se ne infilò uno, sferrando poi un aggraziato e potente pugno per saggiarlo.
«Ti piace quello?» Indagò Cattelan, che trovava una buona idea quella di munirlo di guanti rosa: erano minacciosi e avrebbero dato al nemico un senso di falsa sicurezza, soprattutto se portati da un ragazzo così carino.
Mika si sfilò il guanto e lo rimise a posto, poi i suoi occhi si posarono, con uno sguardo di sorpresa e scoperta, su un paio tutto rosso. Non ebbe neppure il bisogno di provarli prima di esclamare «These ones!» con gioia.
Cattelan si strinse nelle spalle.
«Eeeeeh, se ti piacciono questi… va bene, okay. Li vuoi anche un paio di pantaloncini? Te li regalo io. Prima però provali i guanti, che se non ti stanno bene dobbiamo tornare a cambiarli».
Mika allungò le braccia verso di lui, come a dire “mettimeli”. Aveva le mani vuote.
«Dove hai lasciato il mio libro?» Indagò Cattelan.
Mika lo indicò col mento: lo aveva poggiato su uno scaffale, fra le cinture da karate. Alessandro infilò i guanti al suo protetto e li richiuse ben bene, stringendoli.
Felice come una pasqua, il pugile si esibì in una breve sessione di shadowboxing, un incontro con un avversario immaginario, saltellando sulle punte come un ballerino e fendendo l’aria a suon di cazzotti, preciso e letale.
«È bravo questo tuo ragazzo qui» Disse una voce un po’ gracchiante
«Signora Comanetti!» salutò Cattelan
«È un talento. Uno vero, non come quei pugili fecchia che m’hai sempre portato».
La vecchia proprietaria del negozio era una cosina alta forse un metro e quaranta, con corti capelli bianchi, un faccino da prugna, un accenno di artrite alle mani e un vestitino a stampa floreale di quelli che si comprano a cinque euro al mercato, ma i suoi occhietti azzurri brillavano di curiosità e gioia quando si posavano sugli affondi del giovane pugile.
«Si chiama Mika» Disse Alessandro, fiero
«Ma che, il Pazzo Parigino?» fece l’anziana, con tanto d’occhi «Lo facevo più piccolino dai video che m’ha mandato mio nipote, il Gigio sai? Però hai ragione che sembra lui, sembra proprio lui, oh Signore dell’Altissimo…» con dita tremolanti, la signora estrasse da una tasca del vestitino uno di quegli smartphone per anziani con i tasti enormi «… Lo devo di’ alla Mara!»
«La Mara è la Maionchi?» volle sapere Cattelan, preoccupato
«E certo che è la Maionchi, sennò chi?»
«No, no, no per favore signora Comanetti, per favore non lo faccia! Lei lo sa che Mara è un avvoltoio, che se lo scopre me lo prende e che se me lo prende per me è finita, non potrò mai più lavorare con un pugile del suo livello… la prego, signora Comanetti, la prego!».
Nel frattempo Mika si era avvicinato, tenendo le braccia ciondoloni.
«Mi piacciono questi guanti, Catellan!» Esclamò «Me li togli però?».
Fu la signora Comanetti a muoversi per prima per avvicinarsi a lui, aprendogli e sfilandogli dolcemente i guantoni.
«Sono proprio belli» Commentò, con aria nostalgica «Vecchio stile, quelli dei grandi pugili di una volta. Il rosso è un colore energetico… oggi ci stanno tutti quei ragazzi che si mettono le robe viola, i tribali, i disegnini colorati, le scritte oro, e non pare più che c’hanno pugni, c’hanno cartelloni pubblicitari al posto delle mani. Tu sei un ragazzo tanto bello quanto intelligente».
Mika arrossì un poco, sugli zigomi e sulle orecchie, sorridendo timidamente.
«Mi piace il rosso perché sopra il sangue non si vede» Spiegò «E quando dai il pugno, il sangue esce dalla bocca di quello e sembra che è il guanto, come se… come se il guanto lascia il suo colore nell’aria».
La signora Comanetti gli diede un buffetto affettuoso su una mano.
«Porto questi in cassa» Disse «Vi aspetto là».
«Quelli lì che hai in mano sono carini. Sono anche in saldo, vedi?»
«Sono brutti»
«Ah, okay, allora se sono brutti…».
Persero così tanto tempo nella ricerca che arrivò persino la signora Comanetti ad aiutarli.
«Cosa cerchi, caro?» Domandò, toccando dolcemente una mano di Mika.
Il ragazzone si chinò su di lei e glielo disse all’orecchio. La signora annuì.
«Aspetta un attimo caro, ho quello che fa per te» Disse, poi caracollò lentamente nel retro, fino al magazzino.
«Che le hai chiesto?» Volle sapere Cattelan.
Per tutta risposta, Mika gli sorrise come un cospiratore, infilandosi le mani in tasca.
La signora Comanetti riemerse dai recessi del magazzino reggendo una scatola di cartone piatta e grigia, con stampigliato sopra un logo quasi illeggibile.
«Sono i pantaloncini più richiesti che ho» Rivelò
«Davvero?» fece Cattelan, che già si figurava le proprie banconote volare via con un paio di alucce e librarsi felici molto oltre la sua portata «E allora perché li tieni nel retro?»
«Perché me li chiedono solo durante il periodo del gay pride. In quei giorni là ne espongo pure fuori un paio e qua mi arrivano un sacco che li vogliono. Ho fatto un ordine sbagliato una volta, mille di questi nel duemilauno, ma li ho venduti tutti e ora li compro tutti gli anni. Di solito però li tengo nel retro»
«Perché il gay pride?» domandò preoccupato Cattelan, con lo sguardo che saettava dalla signora Comanetti a Mika e viceversa.
La proprietaria del negozio aprì la scatola grigia, Mika afferrò i pantaloncini che vi erano ripiegati dentro e li ammirò con gusto.
«Ah, ecco perché» Commentò Cattelan.
Il tessuto dell’indumento che luccicava ad ogni piega, satinato e setoso, era di un iridescente color arcobaleno, tranne che per due sottili strisce laterali opache e rosa.
Lei non fece neppure in tempo a battersi la guancia con l’indice, chiedendo che lui vi apponesse le labbra, che Mika si chinò e la baciò dritta in bocca.
«Scuuusalooo!» Ululò Cattelan, preoccupato
«E di che?» gracchiò la signora Comanetti «Gliel’ho chiesto io e lui mi ha messo l’omaggio».
Il prezzo che lei gli fece pagare per tutta quella roba (scarpe, bende, pantaloncini e guantoni) fu scandalosamente basso.
«La prossima volta» Disse Cattelan, rientrando in macchina «Ti faccio baciare la mia padrona di casa, Renata, così magari non mi fa pagare l’affitto»
«Non mi frega del tuo affitto, io volevo i pantaloncini» replicò Mika, allegro
«E va bene. Andiamo a mangiare adesso»
«Sì, kebab!»
«Finalmente hai capito se ti piace»
«No, lo sapevo anche da prima»
«Andiamo, ciaspolello del mio cuore, devi metterti in forze!».
La Fiat Punto gialla sfrecciò per le strade di Milano e, vedendo un pezzo di fiancata riflesso in uno degli specchietti, Cattelan si trovò a pensare che la sua macchina e i brutti stivaletti di Mika erano della stessa sfumatura di giallo… significava forse che anche la sua amata Punto era brutta, oppure per le macchine era diverso?
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