venerdì 2 marzo 2018

Sunset 13. Verde foresta, blu fuoco




Seduta in camera mia, cercavo di concentrarmi sull'atto terzo del Macbeth, ma in realtà aspettavo di sentire il rumore della macchina di mio padre. Non ero sicura che avrebbe fatto abbastanza rumore per poterla sentire anche sotto la pioggia battente. Ad un'ennesima occhiata dietro la tenda, mi accorsi che non riuscivo affatto a concentrarmi sull'opera teatrale che avevo caricato sul nostro recalcitrante computer, e continuare a far finta di guardarlo era solo uno spreco di elettricità.
Sospirai, e spensi l'apparecchio, spostando il modem con un piede per non inciamparci su uscendo dalla stanza.
Carlo era andato a parlare di ciò che era accaduto con il Dottor Cullen, preferendo lasciarmi a casa in modo che non potessi incrociare neanche per sbaglio quello psicopatico; stavo aspettando che tornasse a casa, ansiosa dei risultati.
Fu impreciso in modo deludente nel suo resoconto, di ritorno a casa con l'auto che non avevo sentito arrivare come previsto, ma non gli chiesi di approfondire: bofonchiò sotto i baffi, come faceva dopo un'arrabbiatura che stava cercando di farsi passare, che il ragazzo sarebbe stato punito severamente, che il Dottor Cullen era rimasto sinceramente turbato dal sapere una cosa del genere sul suo pargolo, e che non mi avrebbe più dato fastidio.
Lasciai che andasse a darsi una rinfrescata, e preparai la cena senza accendere la radio.
Ero impaziente che arrivasse il venerdì, e la giornata mi avvicinò ancora di più al momento della mia gita, lontana da Cullen e dal bouquet di problemi che si portava appresso. Ovviamente a scuola tutti ebbero dei commenti da fare sul tentato rapimento. Per fortuna, Mike cercava di comportarsi come se nulla fosse e tenere il becco chiuso sulla questione "gli atti criminali di capelli-pazzi". Jessica invece sembrava più interessata a parlare della questione, e mi bersagliò di domande.
Iniziò durante la lezione di trigonometria: «Che voleva ieri Edward Cullen?»
«Non so». Non mentivo. «Non di preciso. Non è mai arrivato al dunque».
Jessica si rabbuiò un po', accarezzandomi un braccio «Sei stata coraggiosa»
«Davvero?»
«Sai, non ho visto nessuno tenergli testa a parte i suoi fratelli. A dire il vero, lui non ha mai cercato di parlare con nessuno a parte con i suoi fratelli, e poi se la prende con te. Che cosa assurda».
«Assurda» Ribadii. Sembrava nervosa: continuava a sistemarsi i riccioli. Immaginavo che oltre a consolarmi avrebbe tanto voluto mettere le grinfie su un aneddoto interessante da trasformare in pettegolezzo. Detestava Cullen e io ero la vittima che lei conosceva in prima persona, voleva approfittarsene; Jessica aveva molti lati positivi, ma a volte era difficile amare la sua propensione per il gossip frivolo.
Non feci nulla a riguardo però. Cullen era un nostro nemico comune.
Una delle cose peggiori di quel venerdì era che, malgrado sapessi bene che Edward non sarebbe venuto ad affrontarmi dopo ieri, continuavo ad aver timore di vederlo. Era evidente che non sapevo perfettamente fin dove avrebbe potuto arrivare.
Quando entrai in mensa assieme a Jessica e Mike, non potei fare a meno di perlustrare il tavolo al quale erano seduti tre dei fratelli vampirici, le due ragazze e lo spiritato, impegnati in una fitta conversazione. Fui soddisfatta, sollevata, e riuscii a rilassarmi e chiacchierare con i miei amici.
Al mio solito tavolo, tutti erano presi dai piani per il giorno seguente. Mike aveva preso a ripetere come un oracolo le previsioni del tempo locali in cui riponeva piena fiducia, secondo le quali il sole era in arrivo. Normalmente avrei pensato che Mike stesse esagerando con l'ottimismo, però la temperatura, intanto, si era alzata: c'erano quasi quindici gradi.
E memorizzai la mia lezione: lo scrupoloso Mike Newton non avrebbe mai organizzato una gita che si sarebbe rivelata un disastro. Un punto per lui, ero ancora più convinta che uscire a fare trekking insieme fosse un'ottima idea.
Durante il pranzo intercettai un paio di sguardi apparentemente poco amichevoli di Salame Monello, Lorenza, o come si chiamava lei, che non capii finché non uscimmo di lì.
Camminavamo in gruppo; io le stavo alle spalle, a pochi centimetri dai suoi liscissimi capelli biondo platino, ma lei, evidentemente non se n'era accorta.
«... Forse sarebbe il caso che Belarda» Pronunciò il mio nome come se fosse una parola molto buffa «d'ora in poi si sieda ad un altro tavolo, se attira Cullen» la sentii borbottare a Mike. Non mi ero mai accorta di quanto la sua voce fosse sgradevole e nasale e fui sorpresa da tanta malignità. Non ci conoscevamo abbastanza bene, di certo non abbastanza perché mi potesse avere tanto in antipatia. Voleva isolarmi, perché un tizio ce l'aveva con me? Capivo che volesse evitare Edward, ma scacciare una persona che aveva un problema non era la soluzione migliore per aiutarla. Se ne stava lavando le mani, aveva paura. Io sapevo che non lo avrei mai fatto al posto suo.
«È amica mia, e si siede al nostro tavolo» Rispose sicuro Mike, con lealtà e forse anche con un po' troppa forza, per farle capire chiaramente che era dalla mia parte.
Accelerai, e nel superarla le dissi con voce ferma «Se hai paura di uno scemo come quello, puoi trovare tranquillamente un altro tavolo. Io rimango con i miei amici». Jess e Angela mi vennero accanto, lasciandola indietro.
Da lei non sentii altro, per quella volta.
Quella sera, a cena, papà mi sembrò entusiasta della gita a La Push. Probabilmente si sentiva almeno un po' in colpa perché durante i fine settimana mi lasciava sempre a casa da sola, ma del resto gli ci erano voluti anni per consolidare le proprie abitudini e non poteva certo distruggerle ora. Ovviamente conosceva i nomi di tutti i miei compagni di escursione, dei loro genitori e probabilmente anche dei loro nonni e bisnonni, quindi potevo stare ben tranquilla: si vedeva che approvava l'iniziativa.
«Papà, tu conosci un posto che si chiama Goat Rocks o qualcosa del genere? Mi sembra che sia a sud del monte Rainier» Chiesi, buttandola lì casualmente, ricordandomi di quando Mike me ne aveva parlato
«Si, perché?».
Feci spallucce
«Certi ragazzi che conosco parlavano di andarci in campeggio»
«Non è un gran post per campeggiare, Belarda» sembrava sorpreso «Troppi orsi. Ci si va durante la stagione di caccia, più che altro»
«Ah» mormorai «Quindi si va a cacciare, non a campeggiare».
Ero una ragazza con la testa sulle spalle, di solito, una ragazza tranquilla, pragmatica, ma in quel momento desiderai davvero di poter vedere un orso. Certo, sarebbe stato folle andare a Goat Rocks, anche in compagnia di un esperto del camping come Mike, però... non si sa mai nella vita.
Avevo intenzione di dormire fino a tardi la mattina dopo, ma uno strano luccichio mi svegliò. Aprii gli occhi di scatto e vidi un raggio di luce forte e gialla, come se fosse riflessa sull'oro, penetrare attraverso la tendina ingiallita. Non potevo crederci! Corsi alla finestra a controllare e c'era il sole, un vero sole, sebbene non sembrasse vicino come avrebbe dovuto essere!
La linea dell'orizzonte era ancora coperta di nubi, che sembravano ammassi dii piccole pecore, però al centro del cielo si apriva una chiazza di un azzurro abbacinante. Restai alla finestra il più a lungo possibile, temendo che se mi fossi allontanata l'azzurro sarebbe sparito.
Olympic Outfitters, il negozio di articoli sportivi della famiglia di Mike Newton, era a nord, appena fuori Forks, nel posto perfetto per richiamare campeggiatori, cacciatori, kayakisti e appassionati di funghi. L'avevo notato già, ma purtroppo non mi ci ero mai fermata prima di quella volta.
Nel parcheggio riconobbi il Suburban di Mike e la Sentra di Tyler. Mi avvicinai: il gruppo di amici si era radunato di fronte all'auto di Mike. C'era Eric, insieme ad altri nostri due compagni di corso che ero quasi, ma solo quasi, certa che si chiamassero Ben e Conner. E c'era anche Jessica, affiancata da Angela e da Salame Monello o qualunque fosse il suo nome.
Accanto a loro c'erano altre tre ragazze di cui non conoscevo il nome, ma ricordavo una di loro perché l'avevo travolta durante l'ora di ginnastica, il venerdì precedente, e mi ero scusata con lei così tanto che si era messa a ridere fino alle lacrime e alla fine avevamo condiviso un panino.
Salame Monello mi guardò, lanciandomi un'occhiataccia, quando scesi da pick-up e ravvivò la sua chioma platinata con un certo disprezzo.
Avrei voluto dirle "ma che fai, ti disprezzi i capelli?", ma ero troppo timida per farlo e mi limitai ad avvicinarmi mogiamente ai miei amici. Un conto era tenere testa a Cullen (era troppo stupido per poter essere considerato al pari di un altro ragazzo della mia età), un conto vedersela con strane tizie platinate che lanciavano occhiatacce.
Se non altro, Mike era contento di vedermi.
«Sei arrivata!» Disse allegro «Te l'avevo detto che sarebbe uscito il sole!»
«Te l'avevo detto che sarei venuta» risposi io
«Mancano soltanto Lee e Samantha... a meno che tu non abbia invitato qualcun altro» aggiunse Mike, birichino
«A cosa ti riferisci? Starai mica parlando di quello schianto di Cullen?» domandai, fingendo frivolezza «Cioè, voglio dire, come si fa a non invitare Cullen?».
Scoppiammo a ridere tutti e due e lui mi diede un colpetto con le nocche contro la spalla. Salame Monello mi guardò come se le avessi appena vomitato sulle scarpe e mi chiesi che cosa le avessi mai fatto per meritarmi tutto quest'astio. Ero una brava bimba!
«Sali in macchina con me?» Domandò Mike «L'alternativa è il furgoncino della mamma di Lee»
«Certo».
Il suo viso si illuminò: era così facile fare contento Mike.
«Puoi sederti davanti, accanto a me» Promise lui.
Nascosi egregiamente il mio nervosismo: non era tanto semplice fare contenti Mike e Jessica allo stesso tempo, visto quanto, ultimamente, Jessica si fosse dimostrata interessata a lui. Tuttavia Mike era il mio migliore amico e potevo sedermi dove volevo sulla sua macchina.
Tuttavia, i numeri giocarono spietatamente a mio favore: Lee aveva invitato due persone in più, perciò bisognava sfruttare tutti i posti. Feci in modo di fare accomodare Mike tra me e Jessica, sul sedile posteriore del Suburban, che sarebbe stato provvidenzialmente guidato da quello che credevo si chiamasse Ben.
Incredibile che Mike lasciasse la guida della sua auto a qualcun altro pur di stare vicino a me.
La Push distava soltanto una ventina di chilometri da Forks. La strada, quasi completamente attorniata da foreste rigogliose e verdi, incrociava due volte il fiume Quilayute. Ero così contenta di stare accanto al finestrino!
Lo tenevo abbassato – il Suburban con nove passeggeri era un po' claustrofobico – e cercavo di non perdermi neanche un istante di luce solare.
Durante i miei soggiorni a Forks da Carlo, ero già stata parecchie volte alle spiagge nei dintorni di La Push, perciò la mezzaluna lunga un miglio di First Beach mi era deliziosamente familiare. Rimasi comunque senza fiato. L'oceano era plumbeo, scuro, anche sotto la luce del sole, e gli spruzzi bianchi delle onde si frangevano sul litorale grigio e roccioso. Dalle acque del golfo color dell'acciaio emergevano isolotti rocciosi a strapiombo sul mare come scogli, sulla cui cima spiccavano alberi solitari ed austeri. L'unico lembo di sabbia non era più che un orlo al limitare del bagnasciuga: da lì in poi era solo una larga fascia di sassi levigati, confusi dalla distanza in una tinta grigia uniforme, ma che visti da vicino mostravano tutte le tonalità possibili: terracotta, verde mare, lavanda, grigio-azzurro, oro opaco.
Li ricordavo chiaramente da quando, ancora bimbetta piena di stupore, Billy Black e Carlo mi avevano portata a visitare la battigia disseminata di grandi tronchi alla deriva, sbiancati come ossa dal sale delle onde, alcuni impilati ai bordi della foresta, altri solitari, appena fuori dalla portata del mare impetuoso. Da piccola quel posto mi era sembrato una sorta di posto magico uscito da una fiaba oscura, l'aspetto scheletrico del legno accanto allo sconfinato mare grigio, che rifletteva le nuvole di un cielo che non era mai veramente sereno, mi sussurravano di storie che avrei voluto che "zio Billy" mi raccontasse. Ma qualcosa mi distraeva o mi frenava sempre dal chiedere.
Dal mare soffiava un vento robusto, fresco e salmastro. I pellicani, che indicai entusiasta a Mike a dito, galleggiavano sulla cresta delle onde, sopra di loro planavano qualche gabbiano e un'aquila solitaria. L'orizzonte era ancora circondato da nubi che minacciavano di invadere il cielo, ma per il momento il sole aveva ancora il coraggio di brillare in mezzo alla sua aureola blu.
Mi sentivo a casa.
Imboccammo il sentiero per la spiaggia, con Mike che ci guidava verso un gruppo di tronchi disposti in cerchio che ovviamente erano già stati usati come pittoreschi sedili per un'altra scampagnata come la nostra. C'era anche la postazione per il fuoco, traccia carbonizzata di un falò recente. Eric e il ragazzo che mi pareva si chiamasse Ben raccolsero un po' di rami raccogliendoli da tronchi più lontani dalla spiaggia e quindi più asciutti, e in poco tempo assemblarono sulle vecchie ceneri una costruzione a forma di tepee.
«Hai mai visto un falò fatto con questa legna?» Chiese Mike.
Ero seduta su un tronco color osso che faceva da panchina improvvisata; le altre ragazze, appollaiate di fianco a me, chiacchieravano tra loro così fitto e così rumorosamente che il loro cicaleccio mi convinse a spostarmi ed accomodarmi accanto a Mike, ma il mio amico mi fermò e si spostò lui stesso per raggiungermi, chetando Jess che dava segni di inquietudine mettendosi tra me e lei. Per tranquillizzarla indicai noi due sillabando "dame" mentre Mike si cercava qualcosa nelle tasche e poi lui. "Salame". Le strappai un sorriso e mi ricomposi.
Lui si inginocchiò accanto alla legna e diede fuoco ad un ramo più piccolo con un accendino che aveva estratto dalla tasca dei jeans. Non fumava, quindi immagino lo avesse portato proprio per accendere il nostro falò.
«Sono già stata qui altre volte, ma io e papà non abbiamo mai acceso un fuoco qui» Ammisi, mentre lui posizionava con cura il rametto al centro del tepee. Di solito scendevamo a pescare di pomeriggio, a rischio precipitazione e per pescare, quindi non avrebbe avuto senso creare un fuoco. Tuttavia, dal modo in cui Mike ne stava parlando, doveva esserci qualcosa di speciale che stava per mostrarmi.
«Allora ti piacerà... guarda che colori». Incendiò un altro rametto e lo mise accanto al primo. Le fiamme attecchirono in fretta sulla legna secca, soffiando come gattini arrabbiati.
«È blu» Dissi, meravigliata.
«È il sale che dà quel colore. Bello, vero?». Il mio tono lo aveva fatto gonfiare di orgoglio, felice di avermi sorpresa.
«Bellissimo. Posso accenderne uno?».
Lui mi passò l'accendino e io selezionai un ramo per il mio esperimento. Osservai per breve tempo, ammaliata, la fiamma che si aggrappava al legno e infine lo lasciai sul lato del nostro falò che ancora non era stato raggiunto dal fuoco. Jess reclamò l'attenzione di Mike, ma non mi dispiacque, impegnata com'ero a fissare le strane fiamme verdi e blu che si protendevano crepitando verso il cielo.
Mi sedetti su un tronco, abbandonando le braccia in avanti. Chiusi gli occhi e inalai l'odore del sale e del fuoco, sentendomi una qualche esotica specie di drago.
Il mare era una chiesa, le fiamme il suo incenso.
Dopo qualche istante Mike si avvicinò
«Tutto ok?» Domandò
«Si» risposi «Stavo solo... mi stavo godendo il momento. Abbiamo niente da mangiare?»
«Si, certo» si tolse dalla tasca una barretta alle noccioline e me la porse «Ti va?»
«Grazie!» la aprii e mi misi subito a sgranocchiarla «Come va con il cane?»
«Sta bene. Come al solito, per fortuna. Volevo portarlo, ma c'è qualcuno qui che... beh, non ama molto i cani»
«È un peccato»
«E con Dracula, come va?»
«È strano» dissi, seria «Tutte le notti, alla stessa ora, mi sveglia come se avesse visto qualcosa di terribile. Poi ritorna a dormire»
«Davvero?» Mike batté le palpebre velocemente «È parecchio strano, Belarda. Hai provato a capire cosa c'è che non va?»
«Ho ordinato una telecamera a visione notturna da installare per capire cosa succede, se è il gatto ad avere un disturbo o se c'è qualcosa di strano, tipo un fantasma, che viene a trovarmi».
Fissavo il fuoco, il suo movimento ipnotico... fiamme di drago. Sotto la luce del sole, al calore di un piccolo falò, era difficile credere ai fantasmi.
Dopo mezz'ora di chiacchiere, alcuni proposero di avventurarci fino alle pozze. Che dilemma: da una parte, le pozze formate dalle maree mi affascinavano fin da quando era piccola, dall'altra ci ero caduta dentro un sacco di volte, inzuppandomi da testa a piedi.
Non che sia un problema, se hai sette anni e c'è il tuo paparino accanto a te, pronto a ripescarti, ma quando sei quasi un'adulta e sei con i tuoi amici potresti non desiderare di finire a testa in giù in una pozza salata.
Alla fine fu Salame Monello a decidere per me. Non aveva voglia di camminare in mezzo ai sassi, non aveva le scarpe adatte. Tranne Angela e Jessica, quasi tutte le ragazze decisero di restare alla spiaggia, così mi unii al gruppo che voleva andare alle pozze per evitare di rimanere con Salame Monello e perché, diciamocelo, volevo camminare.
Il percorso non era molto lungo, il bosco nascondeva l'azzurro del cielo con il suo intrico di rami che si estendevano come ragnatele enormi, bianche e verdi, sopra le nostre teste. La luce smeraldina della foresta contrastava fortemente con le risate dei ragazzi, sovrannaturale e aliena. Dovevo stare molto attenta ad ogni passo, evitando le radici in basso e i rami in alto, e in poco tempo persi terreno rispetto al gruppo.
Alla fine oltrepassai il limite della foresta e mi trovai di nuovo la costa rocciosa. La marea era bassa, attraversammo un canale che sboccava nel mare. Lungo le rive di ciottoli, le pozze poco profonde che non si prosciugavano mai pullulavano di vita.
Mi sforzavo di non sporgermi troppo sulle pozze oceaniche e di tenere i piedi ben saldi, in punti poco sdrucciolevoli, mentre gli altri, più temerari, saltavano sulle rocce e si tenevano in equilibrio precario sulle sponde, spesso cantando o ridendo.
Trovai una pietra dall'aria molto solida ai margini di una delle pozze più grandi e con cautela mi ci sedetti, rapita da quell'acquario naturale, brillante della rara luce solare. I tentacoli carnosi e urticanti degli anemoni, dai colori brillanti, dondolavano senza sosta, come mossi da una corrente invisibile, e sulle sponde strisciavano le forme più strane di conchiglie, trascinate da lumache marine con corpi così piccoli da essere completamente nascoste dai loro gusci. Le stelle marine se ne stavano immobili, abbarbicate alla pietra, una addosso all'altra, mentre una piccola murena nera a righe bianche ondeggiava tra le alghe verdi, in attesa della prossima marea.
«Un'anguilla!» Gridò Mike, indicandola «Che bella!»
«Non è un'anguilla» lo corressi, ridacchiando «È una piccola murena. Le anguille sono d'acqua dolce, vanno nell'oceano solo per riprodursi»
«Una murena!» si corresse Mike, sempre urlando «Che bella!».
Infine ai ragazzi venne fame, e io mi alzai per seguirli, perché essendo umana era venuta fame anche a me. Cercai di stargli più alle costole durante il tragitto nel bosco per non rimanere indietro, ma siccome il mio equilibrio era un gran traditore e le gambe si erano addormentate quando mi ero seduta ad osservare la murena, caddi un paio di volte. Mi sbucciai leggermente il palmo delle mani, su cui era rimasta impressa l'impronta dei sassolini su cui ero precipitata, e macchiai i jeans di verde sulle ginocchia, ma ne era valsa la pena.
Mike mi assicurò che non si sarebbe mai perdonato per avermi lasciata cadere due volte, poi mi prese in giro per le mie gambe di burro. Io gli dissi di stare zitto con grande dignità e di guardare le sue anguille. Lui mi fece il solletico e rischiai di cadere una terza volta, ma almeno questa mi afferrò per un braccio impedendomi di schiantarmi contro dei molluschini innocenti.
Tornati a First Beach, la comitiva che avevamo lasciato alla spiaggia si era moltiplicata. Più ci avvicinavamo, più riuscivamo a distinguere i capelli lisci, neri e dritti e la carnagione bronzea dei nuovi arrivati: erano ragazzi della riserva venuti per fare amicizia. Il cibo iniziò a circolare e tutti si affrettarono a prendere la loro porzione; Eric ci presentava mano a mano che entravamo all'interno del cerchio di tronchi. Io e Angela arrivammo per ultime, e non appena Eric annunciò i nostri nomi mi accorsi dell'occhiata interessata di un ragazzo più giovane, che stava seduto sulle pietre accanto al fuoco. Mi accomodai accanto ad Angela, e Mike, sempre organizzato, ci offrì un panino e una vasta gamma di bibite da cui scegliere.
«Certo che hai portato un mucchio di roba» Gli dissi sottovoce. Con tutta quella gente in più mi sentivo ancora più timida, ma con lui potevo essere naturale.
«La mia famiglia ha un negozio di articoli sportivi, quindi ci teniamo anche barrette, bibite e un mucchio di cose così. Vuoi un Gatorade?».
Un altro ragazzo, che sembrava il più anziano dei visitatori, ci snocciolava i nomi dei suoi sette compagni. Memorizzai soltanto che una delle altre ragazze si chiamava Jessica e il nome del ragazzo che si era accorto di me, Jacob. Cercai di non sbirciarlo troppo, ma si presentava come un futuro bel ragazzone, con il viso tondo e i piedi davvero davvero grandi – non potei fare a meno di notarli, cercando di tenere lo sguardo basso per non farmi sorprendere ad indagarlo da lontano – che poteva dimostrare quattordici anni, quindici.
Angela, se si accorse del mio scrutare i piedi dei ragazzi di La Push, non commentò. Stare accanto ad Angela era rilassante: era una persona tranquilla, e parlare con lei non significava obbligatoriamente perdersi in chiacchiere inutili. Mentre mangiavo mi lasciò pensare ai fatti miei, senza disturbarmi. Al centro dei miei pensieri c'era il modo scombinato in cui a Forks percepivo il tempo, spesso una serie di immagini in corsa tra cui alcune emergevano più chiare di altre. Ma c'erano momenti, come questo, in cui ogni secondo era importantissimo, marchiato nella mia memoria. Sembrava che la mia vita avesse due atmosfere completamente diverse: a volte vivevo una fiaba, a volte ero un personaggio di una puntata di Criminal Minds.
Adesso volevo vivere la fiaba.
Durante il pranzo le nuvole iniziarono a stringere il loro cerchio scivolando nel cielo, di tanto in tanto nascondevano il sole sfiorandolo svelte e gettavano lunghe ombre che spiccavano sulla spiaggia e rendevano scure le onde. Dopo lo spuntino, i ragazzi iniziarono a passeggiare in gruppi di due o tre. Alcuni si avvicinarono alla battigia, saltando sulle pietre di quella superficie sconnessa. Ero sicura che non mi sarei unita al loro gruppo. Altri organizzarono un'altra spedizioni verso le pozze. Mike e Jessica, che gli faceva da ombra, si diressero verso il negozio più vicino nel villaggio, non so a fare che perché i negozi non erano il mio modo di vivere la mia fiaba personale, ed ero riuscita a resistere anche agli occhi da cucciolo di Mike.
Magari Jessica sarebbe stata anche più contenta – era più il suo genere di fiaba, sola in un negozio al buio col suo cavaliere, o forse il suo genere di film horror – se avesse potuto chiacchierare con Mike senza di me per un po'. Alcuni ragazzi del posto li seguirono, altri si unirono alla passeggiata più lunga. Dopo che il gruppo si fu disperso, mi ritrovai sul tronco sola con Lorenza e Tyler, alle prese con il lettore CD che qualcuno aveva pensato di portare, e a tre ragazzi della riserva, tra cui quello di nome Jacob e il più grande che aveva fatto da portavoce.
Angela si unì di nuovo alla spedizione che andava verso le pozze e, mentre io mi chiedevo che diamine stessi facendo ancora seduta lì con tre tipi a cui non avevo il coraggio di rivolgere la parola e due incarnazioni umane di un'infestazione di zecche (di diversa gravità, ma comunque...), Jacob si fece avanti e si sedette di fianco a me. Aveva i capelli lunghi, neri e lucidi, stretti con un elastico alla base della nuca, che mi fecero venire voglia di cantare il jingle di una pubblicità di shampoo. La sua pelle era bellissima, vellutata e color ruggine, gli occhi scuri dal taglio arrotondato ancora un po' da bambino incastonati sopra gli zigomi sporgenti. Il mento ancora un po' rotondo, il tratto che gli dava un'aria un po' infantile, dava una curiosa impressione sotto quegli zigomi, come se metà della sua faccia fosse maturata lasciando indietro l'altra metà. Tuttavia, nel complesso aveva un viso molto bello.
L'opinione tenuemente positiva che il suo aspetto mi aveva suggerito a prima vista rimase invariata dopo che aprì bocca.
«Tu sei Bella Cigna, vero?».
Sembrava una domanda da primo giorno di scuola, ma lui era uno scolaretto gentile, seppur molto entusiasta.
«Belarda» Lo corressi timidamente
«Io mi chiamo Jacob Black» mi offrì la mano, con aria amichevole «È stato mio padre a venderti il pick-up»
«Oh!» dissi, sorpresa e sollevata, stringendogli la mano «sei il figlio di Billy. In teoria dovrei ricordarmi di te»
«No, io sono il più giovane. Probabilmente ricordi le mie sorelle più grandi»
«Rachel e Rebecca» mi rammentai all'improvviso. Quando venivo in vacanza a Forks, Charlie e Billy cercavano di farci giocare assieme, per tenerci occupate mentre loro pescavano. Eravamo tutte e tre troppo timide per fare amicizia. Ovviamente, finii per accumulare tanto nervosismo che all'età di undici anni m'impuntai fino a quando mio padre e Billy non mi accettarono a pescare con loro, invece che lasciarmi con quelle due bimbe che chiaramente avevano voglia di giocare con me quanta ne avevo io di giocare con loro. Non porto loro rancore. Eravamo nella stessa barca.
«Ci sono anche loro?». Esaminai le ragazze sulla battigia, chiedendomi se fossero cambiate abbastanza da non riuscire a riconoscerle. Non eravamo mai diventate amiche, ma le avevo riviste in giorni alterni in questi ultimi anni.
«No» Jacob scosse la testa «Rachel ha vinto una borsa di studio per l'università, Washington State, e Rebecca ha sposato un surfista samoano, adesso vive alle Hawaii».
«Sposata. Caspita». Ero stupefatta. Le due gemelle avevano soltanto un anno e qualche mese più di me. Poi non riuscivo a richiamare un qualunque particolare in Rebecca che mi avesse fatto pensare ad un fidanzamento.
Jacob interruppe le mie elucubrazioni mentali in cui cercavo di assemblare degli adorabili bambini mezzi samoani mezzi Quileute – finora avevo solo concluso che avrebbero avuto la pelle più bella del mondo – chiedendomi «Allora, ti piace il pick-up?»
«Lo adoro. Non perde un colpo»
«Già, peccato che sia lento» rise lui «È stato un sollievo venderlo a Carlo. Papà non voleva che mi mettessi a costruire un'altra macchina finché non avevamo ancora a disposizione un veicolo perfettamente in ordine».
Era un'informazione molto interessante sui suoi hobby, ma prima urgeva difendere l'onore del mio automezzo.
«Non è così lento» Obiettai
«Hai provato a passare i cento?»
«In effetti no»
«Brava, non provarci, mai». Sorrise.
Ricambiare il sorriso mi venne spontaneo. «In caso di incidenti è indistruttibile»
«Probabilmente quel vecchio mostro resisterebbe anche ad un carro armato» Aggiunse lui, con un'altra risata.
Finalmente placata, riuscii a chiedere incuriosita «Hai detto che costruisci macchine?»
«Quando ho il tempo, e i pezzi. A proposito, sai dove potrei procurarmi un cilindro freni per una Volkswagen Golf del 1986?» aggiunse, scherzando. Aveva una voce piacevole, roca, che combinata con il suo aspetto mi dava l'impressione che la pubertà gli avrebbe regalato una crescita da fungo radioattivo.
«Mi dispiace» Dissi sorridendo «ultimamente non me ne sono capitati molti tra le mani, ma terrò gli occhi aperti. Comunque ad uno dei miei amici, Mike, interessano molto la meccanica e i film spazzatura. Se condividete entrambi gli interessi sarete ottimi amici, altrimenti non so se solo con la meccanica riuscirai a sopportarlo». Come se sapessi cos'è un cilindro freni.
«E tu come lo sopporti?» mi chiese, con un lampo divertito negli occhi
«Oh, non ho un cellulare su cui può riempirmi di messaggini. E poi lui mi sopporta nonostante i miei oscuri segreti, quindi cerco di tenermelo amico». La conversazione con Jacob mi veniva molto facile. In parte perché era una persona entusiasta, solare, e forse in parte perché era più giovane di me.
Sfoderò un sorriso luminoso, rivolgendomi uno sguardo di apprezzamento che stavo imparando a riconoscere. Anche qualcun altro se ne accorse.
«Conosci Bella, Jacob?» Chiese Lorenzina – con un tono di voce che mi sembrò insolente – dall'altra parte del falò.
«Più o meno ci conosciamo da quando sono nato» disse divertito, senza smettere di sorridere. Era esagerato, ma il suo entusiasmo era adorabile e io non ero nessuno per sciuparglielo, specie davanti alla Lorenzina, che commentò: «Che carino».
A giudicare dalla sua espressione, non ci trovava proprio niente di carino, e strinse a fessura i suoi occhi pallidi da pesce. Perché si fosse intromessa così non lo so. Non ci interessava sapere che non le piacevamo, poteva sentirsi le canzoni con Tyler invece di rompere a noi, sprecando tempo.
«Bella» Insistette lei, fissandomi bene negli occhi.
«Che vuoi?» Sbottai, senza pensarci
«Stavo giusto dicendo a Tyler che è davvero un peccato che i Cullen non si siano uniti a noi. Come mai nessuno ha pensato di invitarli?». La sua espressione preoccupata non era affatto convincente. Okay, stava velocemente passando a "persona con cui voglio essere gentile anche se mi da i dispiaceri" a "moglie di capelli-pazzi".
«Vuoi dire la famiglia del dottor Carlisle Cullen?» Chiese il ragazzo più grande e più alto prima che potessi rispondere io, con grande irritazione di Salame Monello. Somigliava più a un uomo che ad un ragazzo, e la sua voce era molto profonda. Avrei potuto offendermi per il fatto che mi avesse parlato sopra, ma la faccia di Lorenzina era troppo soddisfacente per fare altro che ridere sotto i baffi.
«Si. Li conosci?» Chiese la smorfiosa, voltandosi parzialmente verso di lui.
«I Cullen non vengono qui» Rispose lui con un tono che voleva chiudere il discorso, ignorando la domanda. Oh si! Bravo eroe tenebroso!
Tyler cercò di ricatturare l'attenzione della bionda platinata e le chiese cosa ne pensasse di un CD che teneva tra le mani. Lei si lasciò distrarre.
Ringalluzzita, squadrai il ragazzo dalla voce profonda, ma lui si era voltato verso la foresta scura alle nostre spalle. Hm, signor eroe tenebroso? Capisco che lei cerchi dopo una simile frase ad effetto dell'oscura epicità guardando il bosco, ma noi siamo da questa parte. Stava ridendo e scherzando con noi, signor...
Beh, potevo capirlo. Se pensavo a capelli-pazzi, anche io avevo voglia di fissare gli alberi per tutta la notte con aria di tenebrosa consapevolezza.
A proposito, aveva detto che i Cullen non venivano da quelle parti, ma la sua voce alludeva a qualcos'altro: non avevano il permesso di andarci, era un luogo vietato. Chissà perché...? Cosa potevano avere fatto...? Forse aveva a che fare con il razzismo rampante di Edward. Un americanone bianco e bigotto come lui probabilmente si sentiva troppo superiore a noi poveri italiani e indiani d'America, doveva aver combinato qualcosa di pesante. Nonostante il modo di fare del ragazzo più grande mi lasciasse stranita, cominciavo a considerare di trasferirmi a La Push.
Era veramente un bel posto.
Bei ragazzi bronzei che assumono ormoni della crescita con il latte la mattina, paesaggi mistici, culture antiche, divieti di accesso ad intere famiglie di strambi, posti per pescare, boschi bellissimi...
Jacob interruppe la mia meditazione. «Allora, Forks ti ha fatto già impazzire?»
«Beh» abbozzai un sorriso «Sono pazza di Forks, ecco». Lui fece un sorriso raggiante.
Avevo ancora in testa quel commento fugace sui Cullen, ma non li volevo ad occuparmi la testa un secondo di più. Per scacciarli, decisi di intraprendere un qualche tipo di attività con Jacob. Nessun altro sembrava un candidato papabile per unirsi a noi: tra i miei due compagni di scuola che ondeggiavano la testa a ritmo di musica, il ragazzo grande che guardava fisso gli alberi e il terzo ragazzo della riserva di una passività allarmante, solo io e Jacob sembravamo creature senzienti.
Una volta che ci fummo accertati che il terzo ragazzo fosse vivo e in salute, io mi voltai verso Jacob e sentenziai:
«A questa serata manca ancora qualcosa»
«Davvero? E che cosa?».
La mia voce diventò più roca: «Ti piacciono i racconti del terrore?» chiesi, con fare minaccioso. Improvvisavo.
Lui si illuminò «Li adoro!» rispose, colpendomi con il suo entusiasmo
«Allora sei un tipo coraggioso»
«Puoi scommetterci»
«E se ti sfidassi ad allontanarci dal fuoco, e a raccontarcele al buio...?».
Lui sembrò ancora più entusiasta. Lo stavo sfruttando per allontanarmi dal gruppo principale, però sembravamo entrambi felici ed eccitati alla prospettiva di qualche sana storia per spaventarci raccontata senza il conforto di quelle fiamme blu accanto a noi. Nel complesso, l'atmosfera era perfetta, non potevi stare ad un falò del genere e non pensare neanche una volta a raccontarsi delle storie del terrore!
«Ti va una passeggiata sulla spiaggia?» Chiesi, sperando che nessuno avesse niente in contrario. Jacob non si fece pregare e scattò in piedi. Cominciammo ad allontanarci.
La complicità con cui ci sorridevamo mentre ci avvicinavamo al bagnasciuga mi sorprese, ma era una bella sensazione. Le uniche fonti di luce erano la luna e le fiamme blu lontane, che fecero tornare grigie le pietre che sapevo alla luce del giorno sapevo fossero multicolori. Mentre camminavamo sulla spiaggia, diretti verso l'argine dei tronchi alla deriva, le nuvole strinsero le fila e velarono il cielo; la temperatura si abbassò di colpo e il mare si fece più scuro. Sprofondai le mani nelle tasche della giacca, intirizzita.

Il cambio di atmosfera ci fece gongolare come due bambini.
«Quanti anni hai, Jacob? Quindici?» Chiesi
«Si, ci hai preso. Appena compiuti» confessò lui
«Normalmente avrei detto sedici, sembri più grande. Però mi sono fatta un calcolino veloce, visto che non ci eravamo visti prima». Lui parve lusingato, e ne fui felice. Sperai che non ci trovasse nulla di romantico nella nostra passeggiata al chiar di luna, perché a) ci eravamo appena conosciuti e b) era molto giovane. Io volevo solo i miei racconti raccapriccianti.
«Bene, sei comunque abbastanza grande per sentire le mie storie spaventose»
«Sissignora!»
«Quindi, comincio io? E poi ne racconti una tu?»
«Hmm... Si, dai. Così capisco quanto terrificanti devo scegliere le mie storie»
«Ah, ne hai una riserva molto vasta»
«Si. Se non riesco a raccontarti le migliori, potrei venirti a trovare a Forks qualche volta» c'era una domanda implicita qui «Ma fino a quando non avrò finito la macchina e non avrò preso la patente, dovrò limitare le visite»
«Prima vediamo se vorrai incontrarmi di nuovo, dopo quello che ho da raccontarti»
«Certo, certo, aspetta. Troviamo un posto che ha atmosfera».
Jacob fece qualche passo, avvicinandosi a un tronco da cui spuntavano radici simili alle zampe sottili di un enorme ragno pallido. Il posto mi affascinò subito. Si adagiò su una di quelle radici ritorte, e io mi accomodai al centro del fusto. Fissava le rocce, più in basso, con l'ombra di un sorriso agli angoli dell'ampia bocca. Stava preparando il racconto che avrebbe scelto a puntino, era evidente. Mi sforzai di concentrarmi sul mio coinvolgimento personale.
Ancora una volta, dovevo improvvisare.
Presi un profondo respiro.
«Ci sono cose che noi umani non sappiamo, eppure conosciamo. Ci sono cose a cui il nostro corpo risponde senza che noi sappiamo il perché, e ci sforziamo di scacciare via la paura, dicendoci che è del tutto irrazionale. A volte è così, Jacob. A volte non lo è. Ricordati questo, mentre io ti racconterò la storia di due ragazzi...»
«Proprio come noi» Sogghignò Jacob, che però era preso dalla mia storia
«... Si, che proprio come noi stavano seduti su un lungo osso salato, abbandonato qui dal mare».
 Si, che proprio come noi stavano seduti su un lungo osso salato, abbandonato qui dal mare»




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