venerdì 21 novembre 2025

Lysandre che piange 9. Perdono

Lysandre guardava la finestra dell'appartamento da lontano, deglutendo.

Diantha era tornata a Luminopoli dopo una lunga assenza, questo dicevano i giornali esposti fuori dalle piccole edicole, questo dicevano le voci dei fan che avevano letto la notizia sui loro rotomphone, e questo gli aveva detto anche Lida, che aveva "fangirlato" con lui per giorni dopo aver guardato Petali di Sofferenza.

Lui sapeva dove Diantha abitava. Quello che invece non sapeva era perché quel ricordo in particolare fosse emerso, però lo aveva fatto, chiarissimo: un indirizzo, la visione fotografica dell'edificio rosa antico, del balcone di ferro nero con i riccioli e piccole rose stilizzate, la finestra sempre mezza aperta e mezza chiusa, per non permettere ai curiosi di guardare dentro, con la tenda bianca che si muoveva leggermente per colpa della brezza.

E così c'era andato, trascinando i piedi. Le doveva una spiegazione per la sua sparizione, giusto? E delle scuse, oh, quante scuse, una profusione di scuse. Doveva mettersi in ginocchio? Doveva raccogliere dei fiori, mentre si dirigeva verso casa sua, e offrirli a lei per dimostrarle quanto fosse pentito?

Ma ora che vedeva l'appartamento da fuori, Lysandre si disse che non sarebbe dovuto andarci affatto. Come poteva pensare che Diantha lo volesse vedere ancora, dopo quello che aveva fatto? Aveva tradito la sua fiducia, la sua amicizia, comportandosi come un... come un mostro. E Diantha era un angelo, non si mescolava alla feccia come lui.

Chiuse gli occhi. C'era un vago profumo nell'aria, come di talco e fiori, così sottile, così etereo che poteva essere anche solo nella sua immaginazione.

No, doveva andarci, suonare il campanello, farsi condurre dal portiere fino alla porta di Diantha, e affrontarla. Anche se avesse finito per farsi male. Lei lo avrebbe sputato in faccia, lo avrebbe chiamato assassino, avrebbe chiuso la porta sul suo brutto muso chiedendogli di non cercarla mai più. Che razza di uomo sarebbe stato lui, se avesse avuto paura di prendersi le sue responsabilità?

Eppure tremava, come un bimbo che sta per confessare a sua madre che ha spinto il proprio fratellino giù dalle scale, e ora quel fratellino è svenuto e perde sangue dal naso. Alzò il dito fino al campanello, un bottone dorato, leggermente ossidato, nel mezzo di una placca dello stesso colore.

Ma non lo suonò.

Era suo dovere chiedere scusa... ma se Diantha avesse preferito non vederlo affatto? Se la sua sola vista lo avesse disgustato? Se incontrarlo le avesse rovinato l'intera giornata?

Lysandre non voleva rovinarle la giornata. Ma voleva scusarsi. Ma non sapeva se quelle scuse avrebbero sortito un qualche effetto. Il silenzio sarebbe stato peggiore, no? O migliore? Perché lui finiva per avvelenare quello che toccava? Perché persino il più perfetto fiore di cristallo, fra i suoi artigli, diventava morte?

Diantha era un angelo. Talentuosa, bellissima, virtuosa, custode dei bambini, idolo delle folle, campionessa di Kalos, non una sola minuscola macchia sulla sua reputazione immacolata.

Lysandre guardò il proprio riflesso distorto nella placca dorata. Aveva un'aria stanca, spaventata, i capelli tagliati asimmetrici e bianchi come la barba. Non meritava neanche di stare nella stanza stanza di qualcuno come Diantha.

Riabbassò il dito. Non poteva suonare, era meglio che lei lo credesse morto, e poco importava se era la cosa più vigliacca... era inseguendo la morale che aveva finito per fare cose orribili, dicendosi che doveva agire a tutti i costi. Forse non doveva agire, questa volta, doveva fare la cosa sbagliata per fare la cosa giusta. Forse era meglio non riaprire vecchie ferite, lasciare che il proprio ricordo riposasse nella mente di Diantha, fino al giorno in cui sarebbe diventato un fantasma, finché lei non avrebbe raccontato ai propri nipoti «Sapete, una volta conoscevo un tipo, uno veramente matto. Si chiamava Lysandre, l'avrete sentito nominare... ah, lo avete studiato a scuola? Che facce sorprese! Sì, lo conoscevo davvero. Incredibile chi si può incontrare, quando sei famosa! Ora però non me lo ricordo quasi più... ».

Lysandre sospirò, si stropicciò l'occhio con la palpebre chiusa, e girò sui tacchi. Aveva fatto un paio di passi quando sentì il portoncino dell'edificio che si apriva alle sue spalle.

Incassò la testa fra le spalle, sapendo di non essere riconoscibile visto da dietro.

«Salve!» Disse la voce allegra di Diantha «Le serve qualcosa?».

Lysandre sentì il cuore scendergli dal petto allo stomaco, così forte che dovette tossire. Che misera figura! Che inutile relitto! 
«Sta bene?» Domandò la donna, preoccupata, affiancandosi a lui e mettendogli una mano sull'avambraccio, delicata, toccandolo appena. 


Lysandre la guardò con l'unico occhio aperto spalancato. Diantha, Diantha, Diantha. Reale, in carne e ossa, che lo guardava ancora senza disgusto, che gli rivolgeva quel piccolo cipiglio corrucciato, bellissimo, espressivo.

«Sto bene» Mentì.

Non stava bene. Non voleva vederla, e provava un disgusto così forte che non sapeva se stava per vomitare o per svenire. Non voleva vomitarle in faccia.

Aveva freddo. Gli facevano male i gomiti. Gli faceva male la pancia. Gli faceva male la faccia, come se fosse stato costretto a sorridere per ore, e ora ogni singolo muscolo pesava mille chili e provare a sorridere sarebbe stato come scalare la montagna più alta di Kalos senza preparazione e senza cibo.

Diantha lo guardò come si guardano gli incidenti stradali.

«Ci conosciamo, signore?».

Lysandre sentì ancora una volta la nausea aggrapparglisi alla gola e alla pancia, e le gambe diventare tremule, deboli, come radichette neonate di una pianticella di grano.

«Non... non lo so...» Mentì ancora, la voce flebile «Tu sei Diantha, l'attrice»

«E tu sei?»

«L»

«Elle? Davvero?» lo sguardo di Diantha si assottigliò, la forma mutata in quello di un talonflame «Lysandre?».

Ecco, stava per vomitare. Lysandre fu costretto a mettersi una mano davanti alla bocca, mentre indietreggiava, sottraendosi dal tocco gentile di Diantha (rude, si disse, rude e scostumato e maleducato), guardandosi attorno alla ricerca di un cestino della spazzatura. Ormai neanche lo sapeva più, perché il suo corpo si stesse comportando così: tutta la paura e l'angoscia, tutti i complicatissimi sentimenti che provava, erano stati passati dal suo cervello al resto del suo corpo, e ora toccava a quest'ultimo occuparsene. Il male era fisico, adesso.

«Lysandre, sei tu? LYSANDRE?!» Gridò Diantha, allungando una mano verso di lui, come se volesse riacciuffarlo.

Lysandre riuscì a non vomitare deglutendo convulsamente, ma aveva ancora le gambe deboli e non riusciva a scappare. Quasi piegato in due, si costrinse a girare un poco la testa, quel che bastava per guardare Diantha.

«Mi chiamo L» Disse «Lysandre era... prima».

Diantha ritirò la mano lentamente, rinunciando a toccarlo.

«Sei vivo?»

«Sì» e vivrò così allungo da vederti morire, e non so neanche perché lo sto pensando, perché quasi non ti conosco, perché so che mi odierai, perché non mi dovrebbe importare niente di te «Zygarde mi ha salvato la vita»

«Zygarde?»

«Un pokémon leggendario»

«Stai male, Lys... L. Vuoi entrare dentro? Ti faccio un té caldo, ne parliamo un attimo...».

Il tono di Diantha era pratico, rapido, come quello di un'infermiera che parla del suo paziente.

«Non c'è bisogno» Lysandre scosse la testa, raddrizzando la schiena per quanto gli riuscì «Sono solo venuto a...»

«Lysandre, sei pallidissimo» stavolta il tono della donna si ammorbidì, le ultimi sillabe impregnate di preoccupazione «Che hai fatto all'occhio? È irritato? Ho del collirio dentro, vieni».

Fu in quel momento che Lysandre scoppiò a piangere: l'anticipazione del rigetto, della violenza che avrebbe subito quando Diantha lo avesse visto avevano tirato in una direzione per tutta il tempo, ma la gentilezza inaspettata aveva agito come un paio di forbici su quell'elastico...

«Lysandre, che succede?» Diantha questa volta gli afferrò le maniche del giubbotto «Dimmi qualcosa, ti prego!»

«Perdono!» singhiozzò lui, cadendo in ginocchio a testa bassa «Perdonami, perdonami...».

Diantha lo abbracciò, una mano dietro la testa, una alla base del collo. Profumava come un intero prato in fiore, come la primavera, come un pavimento piastrellato di papaveri e rose. Lui la abbracciò di rimando, senza neppure pensarci, con il suo corpo che ancora una volta bypassava il controllo del cervello. Continuò a borbottare «Perdono, perdono» finché la sua voce non divenne un gorgoglio senza significato e poi non si spense quasi del tutto, lasciandolo ad aspirare rumorosamente fra i denti, ogni respiro trasformato in delle scuse.

Diantha gli posò le labbra sulla fronte.

«Mi stai facendo morire di paura» Gli disse «E non chiedere perdono di nuovo, per favore».

Lysandre si zittì, rimanendo in contemplazione della bontà di chi, pur sapendolo un mostro, non lo odiava. Era strano, pensare che tutti erano meglio di lui. Più puri, più santi.

Fra le lacrime, la strinse un po' di più.

«Forse» Mormorò, la voce bassa e roca «Non dovresti perdonarmi, allora».




 

- Altre mini-scene di Lysandrino che piange qui -

(Ci piace scrivere gli omoni fieri che piangono. C'è una catarsi in questo. Andate a leggerne altre.) 

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