+Un bracciale di salpe, una storia di Belarda Cigna +
Passiamo subito al sodo, vi va?
Io sono Belarda Cigna, e questa è la storia che vi racconto stasera, in cambio di un po’ di Amuchina.
Su
una bellissima spiaggia lontana, che aveva la sabbia bianca e fine come
farina e si affacciava su un mare incredibilmente blu, c’era una casa.
Non era una casa molto ricca, anzi, era piuttosto modesta, ma nonostante
tutto le persone che ci abitavano la amavano molto.
Non importava
che fosse così piccola o che avesse un piano solo, per i suoi abitanti
era una buona casa: era stata costruita abbastanza lontano dalla onde
perché fosse sicura, aveva delle fondamenta solide e non li aveva mai
lasciati alla mercé della pioggia o del maltempo.
Nella piccola
casa sulla spiaggia vivevano solo due persone: una giovane mamma e il
suo bambino, un ragazzetto curioso a cui il sole aveva punteggiato il
volto di lentiggini. Sua madre era una donna piccola e gentile che
sembrava la personificazione di una brezza marina, con quei suoi lunghi
capelli biondi e gli occhi chiari, ed il figlio le somigliava molto.
Il
bimbo era un tipo curioso, ma anche diligente nell’ubbidire alla sua
cara mamma perché, fosse pure per tutto l’oro del mondo, non avrebbe
voluto mai darle un dispiacere; così non si allontanava mai troppo dalla
bella casetta anche si ritrovava spesso a giocare da solo.
Conosceva
ormai come il palmo delle proprie mani quel fazzoletto di spiaggia a
forma di mezzaluna e tutto quello che conteneva, dai lunghi tronchi
sbiancati dal mare (“le ossa di drago” li chiamava la mamma) alla
pietraia a sud, piena di piccoli sassi verdastri, levigato dal moto
delle onde.
La sua mamma tornava a chiacchierare e giocare con
lui solo di sera, dopo che aveva lavorato. Di solito poco dopo il
tramonto e, se il tempo, era bello, i due facevano un bel falò e
chiacchieravano seduti sulle ossa di drago.
«Il mare è un amico
capriccioso. Una persona puoi sgridarla» Diceva la mamma «Ma come puoi
sgridare il mare, alla fine? Lui ne sa più di te. È un buon amico se sai
come prenderlo, ma basta un fraintendimento e si può finire molto male»
«Si può morire?»
«Anche»
«E papà è morto?».
La
donna guardava allora il mare, che era nero come se il cielo stellato
si stesse sciogliendo e mescolando con le acque. Il disco della luna
proiettava un proprio riflesso rifulgente e tremolante, cavalcando le
piccole onde increspate che venivano a rotolare mormorando sul
bagnasciuga.
«No. È solo lontano» Disse alla fine
«E il mare lo protegge?»
«Non lo so. Forse, se si è comportato bene»
«E uno deve stare sempre attento tutti i giorni?»
«Sì, è così».
Era una conversazione che avevano spesso, eppure ad entrambi stava bene che rispuntasse invariata di tanto in tanto.
Quella volta però, il bambino protestò: «Ma non vale la pena di farci amicizia con questo mare, se è messo così».
La donna rise, come se trovasse quella risposta molto ingenua, molto divertente, o entrambe.
«Non
proprio» Gli rivelò «Perché anche se è un poco permaloso, se diventi
amico del mare puoi andare in posti dove non si può arrivare altrimenti e
lui» e gli toccò la punta del naso con un indice «è generoso e ti farà
moltissimi regali. Le onde portano a riva davvero di tutto, non ci hai
mai fatto caso?».
No, il bambino aveva dato per scontato che certe
cose apparissero sulla spiaggia, ma adesso tutto aveva ai suoi occhi un
significato completamente diverso: era un invito a fare amicizia del
mare, che tentava di lusingarlo con belle pietre colorate e cocci
splendidi, levigati perché non si tagliasse.
Un giorno, il
bambino decise di portare un regalo al mare. Entrò nella propria casa e
piegò un foglio di carta finché non somigliò, almeno ai suoi occhi, ad
un uccello, dopodiché lo consegnò alle acque salate.
Il giorno
dopo la corrente portò a riva un’enorme conchiglia, di quelle che se le
poggi all’orecchio ti ripetono quello che il mare gli ha sussurrato
prima.
Il bambino sorrise e, tenendosi quell’oggetto nuovo di cui
si era innamorato all’istante contro il lato della faccia, tornò a
giocare. Nel suo cuore decise di provare ancora a portare un’offerta
sulla spiaggia per vedere se era successo per caso o il suo regalo era
stato ricambiato.
La seconda volta regalò al mare un pesce di
carta, e sulla riva trovò, infissa tra i granelli di sabbia come una
piccola spada, una collana dorata con una catenella rotta.
La
terza volta gli regalò una barchetta di carta, e sulla riva, illuminata
dal colore caldo del sole al tramonto, trovò un ragazzino.
Il
ragazzo era di qualche anno più grande del bambino, che però era in
quell’età in cui quella differenza bastava e avanzava per considerare
l’altro quasi uno dei grandi, e si trascinava a quattro zampe sulla rena
bagnata. Somigliava ben poco al bambino ed a sua madre: aveva i capelli
riccissimi e neri, e la sua pelle molto scura era imperlata dell’acqua
che gli inzuppava capelli e vestiti.
«Aiuto» Gli disse, e si mise a tossire forte.
Il
bambino si guardò attorno, un po’ disperato. Alla fine decise di
tirarlo per un braccio per portarlo alla bella casetta, ma questo non
fece altro che sbilanciare il ragazzino e buttarlo a faccia in giù nella
sabbia. Sua madre, per fortuna, arrivò poco dopo.
Tempo qualche
minuto, e il ragazzo era stato fatto sedere di fronte ad un caminetto e
gli era stata data una tazza di latte caldo, che lui stringeva tra le
mani con forza. Era curvato in avanti, con le gambe un po’ ritratte
verso il petto, come se avesse voluto proteggere quel calore a tutti i
costi.
I suoi vestiti erano stati un disastro, completamente zuppi
d’acqua salata e della taglia sbagliata, così la mamma gli aveva dato
dei vestiti con cui cambiarsi; erano comunque della taglia sbagliata, ma
almeno erano asciutti e comodi, e sulle sue spalle era stata avvolta
una coperta che potesse riscaldarlo.
«So che sono grandicelli,
visto che sono miei. Spero che vada bene lo stesso» Aveva detto la mamma
con allegria, in un tono che era più una spiegazione che una scusa.
Vedere la sicurezza della donna aveva tranquillizzato anche il figlio e,
in qualche misura, anche il piccolo sconosciuto.
Il ragazzo non
aveva detto una sola parola da quando aveva chiesto aiuto. In effetti,
il bambino cominciava a chiedersi se sapesse parlare. Teneva gli occhi
fissi sulle fiamme, ma il bambino si era accorto che i suoi occhi scuri
in realtà continuavano a saettare per la stanza e sui suoi due abitanti,
vigili, prima di tornare discretamente al fuoco acceso tra una sorsata
piccolissima e l’altra.
La mamma non gli aveva ancora chiesto
chi fosse e da dove venisse, e di questo il bambino non si capacitava:
non sentiva anche lei la curiosità di saperne di più?
Il bambino
si lasciò cadere accanto al ragazzino con il suo sorriso di benvenuto
più grande che gli riusciva e incrociò le gambe nella posizione del
loto.
«Mi chiamo Glauco» Si presentò, e si chiuse in un silenzio
invitante. Alzò le sopracciglia. Fece un paio di smorfie. Ma niente di
tutto questo scucì il nome del suo interlocutore, che si limitò a
guardarlo benevolente, inclinando la testa da un lato.
«Anche a
me piace molto il latte» Proseguì allora Glauco, prendendo una gran
boccata d’aria per prepararsi a continuare praticamente in apnea «Non
abbiamo tanti soldi, ma il latte caldo l’abbiamo, e avere il latte e la
mamma e la nostra casetta mi basta, perché tanto il resto me lo da il
mare; la mia famiglia è amica del mare da generazioni, per questo
abbiamo tutti nomi che ricordano il mare! La mia mamma si chiama Marina,
infatti, e mi ha spiegato che il mio nome significa “azzurro come il
mare”. Anche tu sei amico del mare?». Il bambino si zittì, pensando di
aver fatto una domanda un po’ inopportuna: a pensarci bene, magari il
mare non gli piaceva tanto visto com’era messo quando lo avevano
trovato.
A sorpresa però, il ragazzino sorrise e annuì, e i suoi
occhi scintillarono come se il fuoco nel camino si fosse ingrandito.
«Magari siamo parenti alla lontana» Glauco tamburellò le dita sul
pavimento, sporgendosi in avanti «Io ho nove anni, ma ne faccio dieci
tra un paio di settimane»
«E parli come se dovessi mettere nove
anni di discorsi in questa mezz’ora soltanto, povero ragazzo» lo prese
in giro la mamma, e il bambino ondeggiò sul posto, mostrandosi contrito
ed imbarazzato anche se non lo era affatto.
«Vieni, aiutami ad
apparecchiare, bimbo» Chiamò Marina, così il figlio fece un cenno di
saluto al loro ospite e si rialzò, traballando per la fretta, e
trotterellò accanto alla donna.
«Perché non parla?» Sussurrò alla donna, mentre si impegnava a mettere le posate a posto come gli era stato insegnato
«Potrebbe
non sapere come farlo» spiegò Marina, mettendo i piatti a posto «O non
sapere la nostra lingua. Potrebbe anche non essere pronto a parlare»
«Non essere pronto? Ma è più vecchio di me!»
«A
volte, Glauco, quando alle persone succedono cose brutte, hanno bisogno
di spazio e possono smettere di parlare per un po’, finché non si
sentono più tranquille. L’età non c’entra. Se gli è successo ed è per
questo che è finito sulla nostra spiaggia, potrebbe aver smesso di
parlare; per questo dobbiamo lasciarlo un po’ in pace e forse, se è in
grado di farlo, ci spiegherà che cosa è successo».
Il bambino ci
pensò su, assimilando le nuove informazioni. Al ragazzo venuto dal mare
poteva essere successo qualcosa di brutto. Non era così ingenuo da non
sapere cosa fosse un naufragio e il fatto che, di norma, ai ragazzi ed
alle ragazze troppo giovani non era permesso imbarcarsi da soli.
Il
ragazzo sembrava illeso, anche se la stanchezza era chiara in ogni suo
gesto e, man a mano che si calmava, anche in quei suoi occhi vigili. Ma
chissà dov’era il resto dell’equipaggio...
«Quindi adesso vivrà
con noi?» Chiese Glauco, senza essere sicuro di come sentirsi a
riguardo. Da una parte, avere qualcuno con cui passare la mattinata
mentre la mamma era via sembrava incredibilmente divertente, dall’altra,
era così abituato a passare quel tempo sulla spiaggia da solo da
esserne diventato quasi geloso.
«Potrebbe avere una sua famiglia
che lo aspetta» disse gentilmente la mamma, mettendo un freno alle sue
fantasie «Meglio non fare troppi progetti per ora»
«Quindi che facciamo ora?»
«Ora» disse Marina, toccandogli la punta del naso con l’indice «Si mangia».
Così, almeno per un po’, il ragazzo rimase nella bella casetta sulla spiaggia.
Come
aveva detto la mamma, poco a poco il ragazzo iniziò a dire qualche
parola. La prima che disse fu: «Grazie» la notte del secondo giorno,
prima di andare a dormire, e la disse a Marina.
Però anche
Glauco lo sentì e andò a dormire soddisfatto: ora che aveva sentito di
nuovo quella voce melodiosa, era sicuro di non essersi immaginato la
prima richiesta d’aiuto, e che un giorno avrebbe potuto rispondere alle
sue domande.
La mattina del terzo giorno, Glauco si svegliò in casa da solo.
Quando
andò in sala da pranzo trovò la colazione già pronta sulla tavola, con
il solito biglietto della mamma che gli diceva che era al lavoro dalla
Signorina e che gli voleva bene. Chiamava Signorina la sua datrice di
lavoro, una vecchia donna piena di acciacchi che pagava altri perché la
badassero, e la chiamava così tanto spesso che Glauco non ricordava il
suo vero nome.
Di lato al suo piatto ce n’era un altro, ripulito
alla perfezione tranne che per qualche briciolina. Doveva essere del
loro ospite: mangiava come uno squalo quello.
Glauco finì la sua
colazione diligentemente, contento nella calma della sua stanzetta
familiare; lui era l’unica cosa animata nella piccola casa sulla
spiaggia in quel momento – o almeno così gli piaceva pensare – e gli
piaceva il modo in cui risuonava il suono delle posate nel silenzio.
Quel giorno il cielo era un po’ nuvoloso e un po’ assolato, così i raggi
del sole che trafiggevano le nuvole sembravano ancora più belli, come
nei dipinti, e lui li rimirò mentre faceva colazione.
Spostò
piatti e posate sul ripiano della cucina (li avrebbe lavati la mamma più
tardi) e si cambiò i vestiti, fantasticando su cosa avrebbe fatto oggi.
Aprì
la porta e iniziò a togliersi le scarpe per andare a giocare con la
sabbia. Oggi voleva portare il ragazzo venuto dal mare a vedere le pozze
salate, e avrebbe potuto mostrargli le murene e i ghiozzetti e come
prendere i grilli bianchi. Sì, in realtà voleva vantarsi un po’ di
fronte a quel ragazzo, perché era diventato bravissimo a prenderli
ormai.
Era sicuro che fosse sulla spiaggia, perché aveva sentito
cantare da lontano e anche se non poteva esserne sicuro, sembrava che
fosse la stessa voce che aveva detto “aiuto” e “grazie”.
Era una
canzone stupenda quella che il ragazzo cantava, lenta, melodica e
meravigliosa, ma Glauco non riusciva capire se fosse malinconica o
speranzosa. Più il bambino si avvicinava alla spiaggia e diventavano
chiare le note, più se ne sentiva stregato, come se stesse assistendo a
una qualche portentosa magia. In realtà a vedersi non c’era niente di
fuori dell’ordinario: il ragazzo venuto dal mare era seduto a poca
distanza dal bagnasciuga (e per qualche motivo, a vedersi, a Glauco
sembrò che lui appartenesse a quel posto proprio come lui e la mamma, e
questo lo riempì di meraviglia e di un po’ di gelosia) e cantava.
Smise quando si accorse dell’altro bambino, voltando la testa ricciuta per osservarlo.
«Non volevo interrompere la tua canzone» Si scusò Glauco «Se vuoi ti lascio solo».
Il
ragazzino fece cenno di no con la testa. Lo guardò indeciso per un
secondo, poi poggiò una mano sulla sabbia e se la rimise in grembo,
tornando ad osservare il mare.
Glauco lo prese come un invito a
sedersi accanto a lui ed ubbidì, stiracchiandosi e prendendo una bella
boccata d’aria salmastra.
«Mi piace quando canti. Sembra che tu
abbia tre voci e siano tutte intonate, anche se non ho capito un parola
di quello che hai detto. Tu capisci la mia lingua, ma quella che cantavi
era la tua, vero? Si sentiva che le volevi bene».
Il ragazzo lo
guardò sorpreso, schiudendo appena le labbra, ma la luce nei suoi occhi
si ammorbidì di nuovo in quel suo sguardo benevolente e annuì.
«Era una canzone triste o felice?»
«Tutt’e
due» Rispose il ragazzo, mentre una folata di vento fresco gli
accarezzava il viso. Come se l’avesse saputo, un attimo prima che
arrivasse aveva chiuso gli occhi.
I due rimasero per un attimo in
silenzio. Glauco non si aspettava che gli rispondesse, ma non gli
dispiaceva, e neanche la situazione in quel momento gli dispiaceva.
C’era così tanto su cui rimuginare e da guardare in riva alla spiaggia
che si sentiva come se avesse potuto rimanere assorto per ore a
pensarci.
«Ti stai trovando bene qui con noi?» Chiese comunque
Glauco, perché si era accorto che molti dei pensieri che lo tenevano
assorto erano domande per quel ragazzo. Quello annuì.
«Se parli un’altra lingua, vieni da lontano» Ragionò Glauco ad alta voce
«Non molto»
«Davvero? Sei tanto diverso da me. Credevo che venissi da lontano»
«Siamo
diversi. Tutti. A volte si vede fuori, a volte si sa dentro. Ma siamo
sempre vicini lo stesso» rispose il ragazzo, facendo lunghe pause
durante il suo piccolo discorso, come se avesse avuto bisogno di
concentrazione. Artigliò la sabbia, lasciando dei solchi paralleli che
vennero subito riempiti nuovamente dai granelli minuti, ma il suo viso
non mutò espressione.
Glauco fu felice di sentirlo parlare tanto e
lo incoraggiò con un sorriso, come faceva la mamma quando lui
rispondeva bene ad una domanda o faceva un lavoretto di casa di sua
iniziativa.
«Allora sarà facile tornare dalla tua famiglia, se non
devi andare lontano» Disse il bambino, ma stavolta il ragazzo negò con
la testa, assottigliando le labbra.
«Perché no?». Il ragazzo riprese ad artigliare la sabbia, in silenzio, ma dopo un paio di minuti riprese a parlare.
«La
mia casa non c’è più, loro l’hanno... Abbiamo viaggiato per arrivare
qui, perché non potevamo rimanere, ma non siamo arrivati tutti» Diede
un’occhiata grave ai flutti, che mormoravano dolcemente in sottofondo.
«Io sono arrivato. Solo».
Glauco non chiese né del “loro” né di
quel “noi” implicito. Lo invitò a vedere le pozze salate e passarono la
mattinata insieme a saltellare da una all’altra, facendo la gara a chi
vedeva più animali. Al ritorno, per far vedere quanto era bravo, Glauco
prese tre grilli e il ragazzo ne mangiò uno, facendo emettere un urletto
sorpreso a Glauco che tornò di filato in casa.
La mamma tornò a
casa un po’ prima con un sacco di cose buone da mangiare, ed
organizzarono un falò sulla spiaggia con il cibo e le barzellette
stupide e le canzoni, e, anche se il ragazzo si zittì un paio di volte e
non disse loro qual era il suo nome, fu una bella serata.
Fu in
quel momento che Glauco capì che voleva un amico, o forse voleva che
quel ragazzo lo fosse per lui. Forse era questo il terzo dono che gli
aveva fatto il mare.
Nel tempo, mentre il ragazzo iniziava a
parlare con regolarità, sia Marina che Glauco si fecero la loro idea
sull’identità ed il passato del loro ospite.
Qualunque cosa ci
vedesse Marina, probabilmente aveva qualcosa a che fare col naufragio di
profughi sfortunati, qualcuno che era dovuto scappare dalla propria
terra ed era approdato lì per miracolo.
Glauco era sicuro, senza ombra di dubbio, che quel ragazzo nero fosse una sirena.
Veniva
dal mare, e diceva di esserne amico anche dopo un presunto naufragio.
La sua voce era fantastica, e quando cantava (ormai lo faceva tutte le
mattine) sembrava che il mare si calmasse e le cose sarebbero andate
bene (e di solito era vero). Non toccava mai l’acqua anche se non
sembrava avere paura del mare, e Glauco era ormai certo che ne bastasse
una goccia per mostrare la sua vera natura.
Si era persino spinto a sussurrare al ragazzo che lo sapeva, sapeva che lui era una sirena.
Lui aveva riso, ma non aveva negato. Gli bastava.
Non
vedeva coda né branchie, ma la magia non deve essere una cosa che ti
spieghi subito. Forse, un giorno, proprio come aveva imparato a parlare
con loro, si sarebbe fidato abbastanza da rivelargli anche questo.
Un
giorno i due trovarono una strana creatura nel mare, vicino alla
spiaggia. Sembravano una serie di rotoli trasparenti attaccati insieme
per formare un nastro, con delle testoline rosse tonde: era viscido, ma
affascinante, e Glauco si tuffò e lo raccolse immediatamente, per
mostrarlo all’amico.
«Salpe» Disse il ragazzo, sottovoce. Sorrise e
lo indicò «Vedi? Sono tante salpe attaccate insieme. È così difficile
che si lascino adesso che si possono usare così...».
Legò i loro polsi insieme e disse: «Amici per sempre. Giura».
Glauco giurò, con tutta la convinzione che aveva, e l’altro gli credette.
La casa sul mare, un po’ più vecchia e scolorita, era ancora bella come lo era stata sette anni fa per i suoi tre abitanti.
Glauco
aveva smesso di aspettare che suo padre tornasse dal mare da molto
tempo ormai, e non era sicuro se lo stesso potesse dirsi di quello che
era diventato un fratello, ma sperava che anche lui smettesse di
aspettare che il mare gli restituisse ciò che si era preso.
Il
mare è un amico permaloso: è generoso e dona ciò che ha, ma basta uno
sbaglio perché si riprenda tutto. Di tanto in tanto glielo ripeteva, ma
sembrava che più diceva la sua perla di saggezza, meno veniva presa sul
serio.
«Hai sedici anni, Glauco. Ormai dovresti aver scelto la
carriera che vuoi» Lo prese in giro Nereo, arruffandogli i capelli:
«Marinaio o filosofo?»
«Perché non entrambi?» chiese l’altro
ridendo. La sua voce era diventata più profonda, ma aveva una sfumatura
gentile, come quella di Marina. La voce di Nereo era solo un po’ più
bassa di quando era un bambino, naufragato da poco su una spiaggia
sconosciuta a cantare una canzone che era sia felice che triste.
Il
ragazzo venuto dal mare non aveva mai svelato loro il nome che aveva
prima, ma a Glauco aveva detto, in confidenza, che era perché era
convinto che non l’avrebbero mai pronunciato bene. Così Marina gli aveva
offerto un nome provvisorio… che aveva finito per diventare permanente.
«Hai un momento, Glauco?» Chiese un giorno Nereo.
I due fratelli uscirono alla luce del sole, incamminandosi sulla spiaggia familiare a due passi dalla casetta.
«Non abbiamo molti soldi a casa. Tra questo e altri… pensieri...»
«Vuoi partire, vero?» lo interruppe Glauco, in modo gentile.
Nereo
annuì piano. L’altro gli fece un sorriso incoraggiante «L’avevo capito.
Lo sai che puoi rimanere quanto vuoi però, vero? Possiamo farcela, non
abbiamo così pochi soldini»
«So che ad un certo punto partirai anche tu, visto che vuoi viaggiare. Non voglio vederti partire»
«So che ad un certo punto partirai anche tu, visto che vuoi viaggiare. Non voglio vederti partire»
«Saremo comunque lontani» osservò Glauco
«Sì,
è vero. Però vorrei… rivedere il posto in cui sono nato. Ho paura, ma
credo che le cose possano essere cambiate ormai. Se non lo fossero...»
«Sarai sempre il benvenuto qui» rispose il ragazzo, mettendogli un braccio attorno alle spalle «La mamma lo sa?»
«Sì»
«Bene». Ci fu una pausa, ma non erano mai pesanti fra loro.
«Quel
giorno sei stato tu a farmi capire che siamo tutti diversi, tu e la
mamma» La voce di Nereo era bassa, praticamente un sussurro «Credevo che
le persone diverse da me fossero mostri. Non avevo avuto che sofferenza
da loro, fino a quando tu e la mamma non mi avete dato una mano. Non lo
scorderò mai, Glauco»
«Bene, perché spero che non ti dimenticherai facilmente di me»
«Non lo farò»
«Chissà,
magari ci rivedremo ancora anche se troverai un bel posto lì» Glauco
sorrise «Ho intenzione di viaggiare tanto, lo sai. Ti verrò a trovare.
So che non potrai scrivermi da sott’acqua, però cerca di riemergere ogni
tanto, o dovrò affidare i miei pensieri ai messaggi in bottiglia».
Nereo
rise, ma, di nuovo, non negò o corresse nulla. «Dovrebbero sbrigarsi ad
inventare un metodo migliore delle lettere di parlare a distanza. Sono
scomode».
«Magari, invece di lamentarti, dovresti provarci tu»
«Forse lo farò. Mi aiuti a fare le valigie?».
«Forse lo farò. Mi aiuti a fare le valigie?».
Glauco lo strinse in un abbraccio e i due rientrarono in casa.
Non
lo vide partire; Nereo aveva voluto che i loro saluti fossero fatti in
casa prima di andarsene. Sia Glauco che Marina erano convinti che fosse
andato via per mare, anche se entrambi in modi diversi.
Glauco non aveva mai avuto una conferma ai suoi sospetti, ma non importava.
Il
ragazzo venuto dal mare era stato il suo migliore amico per sette anni e
aveva promesso di esserlo per sempre, e questo gli bastava.
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