sabato 12 febbraio 2022

La Cattedra del Giocatore - 7. Quella volta del suicidio mancato

 
Achille era morto. Achille era morto. Era stato vivo, si era mosso, il suo corpo di carne era stata una sinfonia di tendini e pulsazioni, di carne e muscoli e pensieri, simulacro della sacralità della vita. E ora era morto e se ne stava abbandonato sulla sedia.
Manuel non riusciva a distogliere lo sguardo.
Achille era morto e, oh, come era strana, la morte. Com’era terribile. E Manuel, rabbrividendo, pensò a quella volta in cui si era ritrovato a giusto un soffio dal ridursi così da solo… sì, insomma… dall’ammazzarsi.

Si era raccolto i capelli in una crocchia e li aveva nascosti sotto un berretto blu, si era infilato una giacca di acetato che aveva trovato abbandonata durante una passeggiata in periferia (“EdilSasa” recitava la scritta bianca e scrostata sul petto) e aveva deciso di fingere di essere un operaio per entrare nel ventre della Torre Solaria, il mostruoso edificio residenziale alto centoquarantatre metri nella zona centrale di Milano.
Nessuno lo aveva fermato. L’ascensore lo aveva portato in alto, relativamente silenzioso, senza scossoni. E ad ogni piano che superava, Manuel deglutiva e sentiva che il suo cuore era rimasto a terra, molto più in basso, e che lui si allontanava.
Lui aveva paura, una paura matta, delle altezze.
E quando finalmente era uscito sul terrazzo dell’ultimo piano (aveva chiesto di poter controllare una cosa alla donna che aveva le chiavi e lei lo aveva accontentato) aveva visto le guglie del Duomo e le lontanissime Alpi. Non ricordava la voce della signora che gli aveva aperto la porta, né il suo volto.
La paura cancellava questi ricordi effimeri, inutili… o forse era la colpa a cancellarli: lei si era fidata e lui aveva intenzione di ingannarla, di coinvolgerla nelle indagini che di certo sarebbero avvenute quando lui fosse morto. Manuel si era vergognato. Si era chiuso la porta alle spalle, aveva messo a terra la borsa che aveva portato (dentro non c’erano strumenti del mestiere, come chiunque avrebbe pensato, ma vecchi giornali e una copia sgualcita di un libro intitolato “Urban Legends”), si era sporto a guardare giù.
Le vertigini gli strinsero lo stomaco. Il suo corpo si faceva indietro, freneticamente le sue mani cercavano un appiglio, ma la mente, sconnessa, voleva solo avanzare e buttarsi giù.
“Un momento. Un momento solo di caduta e poi non dovrai preoccuparti mai più. Che te ne importa, Manuel? Non sarai davvero così spaventato da pochi istanti di paura, se poi potrai goderti la pace per sempre?”.
Manuel prese un profondo respiro. Una brezza fresca gli accarezzava la faccia con dita invisibili.
L’uomo guardò in basso: c’era un’area pedonale vastissima e alcune persone passeggiavano. C’erano bambini? La vista gli si annebbiava, non riusciva a capire se certe persone molto basse fossero adulti o infanti, ma alla fine cosa importava? Era un problema loro. Un problema loro se si scioccavano, se dovevano guardare (anche se da lontano, sarebbero stati tutti ad almeno una ventina di metri dal punto in cui si sarebbe schiantato il suo corpo) la sua carne sbattere contro il cemento e il suo sangue spargersi. Era un problema loro. Un problema loro, così come fino a quel momento i suoi problemi erano stati solo suoi.
Quella gente era sempre stata del tutto indifferente al suo grido d’aiuto. Alla sua sofferenza. E non avevano forse ragione? Non esisteva nessuna fratellanza universale (che spreco di retorica!), quelle persone non avevano nessun obbligo di prendersi cura di lui, ed era questo uno dei motivi per cui aveva smesso di chiedere aiuto e aveva deciso di togliersi di mezzo. Perché aspettarsi un aiuto che non gli era minimamente dovuto? Meglio morire.
Meglio morire, si era detto, che finire per essere una di quelle persone penose, che si lagnano e si trascinano alla ricerca di un aiuto, che credono che il benessere gli sia dovuto… ma era il discorso della volpe e dell’uva: in fondo, una parte della sua anima sapeva che il motivo per cui non voleva pesare sugli altri era che nessuno se lo sarebbe caricato, quel peso.
Era solo al mondo, attraversava la vita quasi invisibile agli altri. Nemmeno il portiere del palazzo lo aveva fermato, come se non fosse importante, come se quel povero relitto umano che era lui non potesse neppure fare danni, non potesse essere un ladro.
Chiuse gli occhi e la nausea si calmò un poco. Allargò le braccia e alzò il mento. Forse quando si sarebbe schiantato non avrebbe scioccato proprio nessuno, ma sarebbe rimasto invisibile al mondo, lo avrebbero raccolto i netturbini e lo avrebbero buttato in una fossa comune, non avrebbero neppure cercato di identificarlo.
Un altro respiro profondo, lentissimo, attraverso le narici. I tacchi delle scarpe vicini, uno a contatto con l’altro, e il pavimento sotto i piedi che fra pochi istanti non sarebbe più stato a contatto con essi. Il peso spostato sulle punte dei piedi.
«Vuoi davvero morire?» Aveva domandato una voce.
Manuel aveva aperto gli occhi di scatto, sobbalzando, e si era guardato alle spalle.
C’era un uomo seduto per terra dietro di lui, con la pelle della faccia nerissima che spiccava sotto un ciuffone voluminoso di capelli bianchi. Indossava una giacca brillante, come quelle dei vecchi presentatori di programmi musicali, tempestata di minuscoli lustrini che sembravano cambiare posizione anche al semplice movimento del respiro.
Come era arrivato lì? Manuel non aveva sentito nessuna porta aprirsi.
«Mi chiamo Fyodor» Disse lo sconosciuto, facendo un cenno di saluto con la mano.
Manuel notò che il palmo dello sconosciuto era scuro tanto quanto il dorso della sua mano, una cosa che non aveva mai visto sulle persone nere… e a dire il vero anche la sfumatura di quella pelle, più blu che bruna, era strana.
«Io sono… non sono importante» Disse Manuel «Non preoccuparti. Me ne vado fra un attimo»
«Non farlo» ordinò Fyodor
«Non puoi dirmi cosa devo fare»
«No, aspetta, è nel tuo interesse» il misterioso uomo nero sorrise, scuotendo la testa per spostarsi un po’ il ciuffo da davanti agli occhi «Secondo me tu non vuoi morire, ma vuoi vivere. Questo è il problema: non riesci a vivere e allora hai deciso di morire. La volpe e l’uva, no?»
«Lo sai che l’uva è tossica per i canidi?» replicò Manuel «La volpe morirebbe se mangiasse quell’uva. È un bene che non possa raggiungerla».
Fyodor storse la bocca con disappunto e si alzò in piedi, battendosi le mani due volte sul sedere per far cadere la polvere dal fondo dei suoi costosi pantaloni di velluto.
«Beh, vuoi davvero finire là sotto?» Disse, avvicinandosi al bordo per indicare in basso, verso l’impietoso terreno sottostante «Vuoi davvero spaccarti la testa lì? Penosamente, sotto gli occhi di quei marmocchi?»
«Sì» aveva risposto Manuel, guardando Fyodor dritto negli occhi
«Bene» aveva replicato a sorpresa l’altro, afferrando un braccio di Manuel «Allora, se vuoi, ti spingo. Sarà più facile, no?»
«Sì»
«Vuoi che io ti spinga?»
«Sì».
Fyodor, sempre tenendo stretto per il braccio l’aspirante suicida, lo spinse oltre il bordo. Manuel chiuse gli occhi, lo stomaco sembrò ritrarglisi fin dentro l’esofago, le gambe si irrigidirono con forza. Ma il suo corpo non cadde: Fyodor lo stava già rapidamente strattonando indietro, irresistibile.
Manuel si ritrovò con la schiena contro il muro, lontano dal bordo, lontano dal vuoto.
«Hai avuto paura?» Ghignò Fyodor
«Perché mi hai fatto avere paura questa volta? Adesso sarà più difficile riprovare. Questa paura… un uomo la dovrebbe provare una volta sola»
«Parli come un libro. Un libro aperto. Un libro strappato» i denti di Fyodor erano vicini alla sua faccia, si muovevano con la sua bocca che si apriva e si chiudeva, ipnotici nel loro bianco che spiccava contro le labbra d’ebano «Ma ascoltami bene, Manuél: io sto per farti una proposta»
«Non ho niente da darti. Ho perso tutto»
«Hai ancora qualche soldo, no? Hai la casa. I tuoi cd»
«Li vuoi? Vai a prenderteli» Manuel estrasse le chiavi di casa dalla tasca «Ecco. Entra dentro casa mia e ti puoi prendere tutto: dischi, porte, quadri, pure il portauovo a forma di culo se vuoi»
«Intrigante, specie il portauovo… ma ho un’altra proposta» Fyodor spinse la mano di Manuel, quella che reggeva le chiavi, indietro, verso il suo petto «Vendi tutta quella robaccia inutile. A me interessano i soldi»
«Puoi venderla tu»
«Troppo lavoro. Troppo lavoro, Manuèl. No, devi vendere tutto, poi prendere i soldi e venire da me»
«Tu sei pazzo»
«Non più pazzo di te che vuoi fare un volo di centoquaranta metri. Ma ascolta, fammi finire: prendi quei soldi e vieni da me. Li potrai giocare»
«A cosa?»
«Giochi. Giochi d’azzardo svariati, con poste favolose. So che ami giocare d’azzardo»
«Il gioco mi ha succhiato la vita. Quella era la vera uva per la volpe che sono. Se m’ammazzo c’è un perché»
«Aspetta. Aspetta, io so quello che vuoi, Manuél»
«Io non ti ho mai detto come mi chiamo»
«Infatti ti sto chiamando con un nome a caso. O ti chiami Manuél davvero?».
Manuèl. Con l’accento sbagliato. Ma in molti chiamavano Manuel, appunto, Manuel… anche se non era il suo vero nome. Sembrava che Fyodor lo conoscesse, anche se da lontano: sapeva il suo nome (sbagliato) e gli aveva citato i dischi (l’unica cosa che fosse rimasta a dargli un briciolo di piacere).
«Comunque, ascolta: tu vieni a giocare da me e io ti do qualunque cosa desideri» Continuò il misterioso uomo nero, facendo mezzo passo indietro «Qualunque. Ovviamente c’è un prezzo da pagare e di questo ne possiamo parlare...»
«Prendi la mia casa e vattene affanculo» quasi lo pregò Manuel
«No, ascolta, ascolta: io ti ridò tua moglie indietro. Di più, ti ridò il suo amore. E ti ricopro di oro»
«E tu che ci guadagni?»
«Mi piace giocare. E potrei sempre vincere. Che ne pensi? In breve: vieni a giocare da me, se vinci esci a mani piene, con un lavoro redditizio, pieno di soldi e con tua moglie. Se perdi, invece, ti ammazzo personalmente, che è sicuramente meglio che provare a buttarsi di sotto da qui e spaventare tutti i mocciosini che vagano ignari per i praticelli»
«Non so se mi convinci»
«Non so se qualcuno possa prometterti più di quello che ti sto promettendo io. Comunque, prenditi il tempo che ti serve per pensarci».
Fyodor estrasse dalla tasca della sua giacca un rettangolino di cartoncino verde come il panno di un tavolo da biliardo, con sopra delle parole stampate con un inchiostro rosso e riflettente, metallizzato. Lo porse a Manuel. Era un biglietto da visita, con un nome, un indirizzo e un numero di telefono.
«Ci pensi con calma. Okay?»
«Non so. Sembra uno di quei film dove un impresario senza scrupoli cerca disperati e barboni su cui fare esperimenti medici lontani da qualunque parvenza di etica che li faranno poi morire fra atroci tormenti»
«E tu non vuoi morire?»
«Non fra atroci tormenti»
«Ti prometto che non farò nessun esperimento medico su di te»
«Quanto tempo ho per pensarci?»
«Quanto vuoi. Un giorno, un mese, un anno. Tu pensaci: secondo me non hai niente da perdere».
Il sogghigno di Fyodor era eloquente.
«E se invece mi buttassi di sotto adesso?» Lo sfidò Manuel.
Fyodor allora lo spinse con violenza, costringendolo ad aggrapparsi con tutta la forza alla ringhiera per non cadere di sotto.
«Io ti darò una nuova vita, un lavoro, un amore se vincerai» Aveva promesso il misterioso uomo nero «Ma se sarai tu a perdere, dovrai darmi la tua anima. Questo è il prezzo. Questa è la fregatura: ti prendo l’anima se perdi. Tutto qui. Adesso che conosci la fregatura, credo che ci penserai meglio».
Poi si era girato, aveva aperto la porta ed era entrato nel palazzo, lasciando l’altro da solo.
Manuel si era maledetto una, due, tre volte, perché era curioso e la sua curiosità, adesso, rischiava di metterlo più nei guai di quanto non fosse. Avrebbe perso la sua anima immortale, se lo sentiva. E poi aveva pensato alle notti in cui aveva avuto qualcuno da abbracciare, al tepore delle labbra di qualcuno sulla sua fronte, sulla sua guancia, all’idea di preparare la colazione al mattino per qualcuno che amava, e tanto forte fu il dolore nel suo petto, con così tanta potenza si fece sentire il buco nel suo cuore, che credette di non avercela comunque più, un’anima. Qualcosa gliel’aveva tirata via, escissa dai tessuti del corpo, e lo aveva lasciato vuoto vuoto vuoto.
Gli rimaneva solo la paura delle altezze e nient’altro: cosa aveva da perdere?
Si era maledetto, Manuel, sapendo già che avrebbe telefonato a quel numero, che sarebbe andato a quell’indirizzo, e si sarebbe giocato l’anima.
Si era maledetto sapendo che avrebbe costretto il proprio corpo, quella vecchia carcassa con la testa piena di oscurità e lame, a trascinarsi in giro per Milano e vivere ancora per qualche giorno, anche contro la sua volontà.
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