martedì 3 aprile 2018

Sunset 25. Raffica di domande insensate



Entrammo insieme nel laboratorio di biologia, sotto gli sguardi di tutti. Ci accomodammo al tavolo degli esperimenti e notai come Edward non restasse più a distanza di sicurezza, sull'orlo della seggiola. Anzi, seduto al mio fianco, quasi mi sfiorava con il gomito.
Ma ecco spuntare il professor Banner – che tempismo perfetto quell'uomo – intento a spingere un alto trespolo di metallo che reggeva un televisore pesante e datato e un videoregistratore. Mi accorsi di non aver mai riflettuto sul fatto che si chiamasse Banner, come Bruce Banner, e che fosse anche un professore di biologia... era una coincidenza curiosa, che mi strappò un sorriso.
La lezione di oggi sarebbe stata con video: il sollievo collettivo della classe era tangibile.
Il professore infilò una videocassetta nel registratore recalcitrante e andò a spegnere le luci.
In quel momento, al buio, fui sconvolta dalla consapevolezza che Edward fosse seduto a pochissimi centimetri da me. Ero stupita dai brividi imprevisti che mi sentivo scorrere sulla polle, meravigliata di poter avvertire la sua nefanda presenza ancora più del solito. Fui quasi vinta dal folle impulso di cercarlo, colpirlo, distruggere quel suo viso stupido e stupendo almeno una volta, tagliandolo a pezzi, solo per vedere se avrebbe cercato di ricomporsi. Incrociai le braccia badando a tenerle strette e strinsi anche i pugni. Stavo per impazzire.
I titoli di testa irradiarono nella stanza un bagliore leggero. I miei occhi, automaticamente, cercarono lui. Mi sentii stupidamente irritata quando mi accorso che la sua postura era identica alla mia, i pugni stretti sotto le braccia incrociate, gli occhi che sbirciavano me. Sorrideva e il suo sguardo riusciva a brillare anche al buio. Guardai altrove, per non rischiare di urlare e assalirlo o, peggio ancora, fuggire di fronte a tutta la classe.
L'ora di lezione sembrò molto lunga. Non riuscivo bene a concentrarmi sul filmato, sapevo a malapena di cosa parlasse. Cercai di rilassarmi, ma senza risultato: quella sorta di fredda corrente elettrica che sembrava provenire in qualche modo da Edward rimase costante, accapponandomi la pelle. Di tanto in tanto mi concedevo un'occhiatina masochista verso di lui, che appariva altrettanto incapace di rilassarsi. Anche lo spropositato desiderio di toccarlo, di distruggerlo, non accennava a spegnersi e mi costrinse a serrare le dita contro le costole fino a sentirle indolenzite.
Quando il professor Banner riaccese le luci in fondo alla classe, mi lasciai scappare un sospiro di sollievo e stirai le braccia, muovendo le dita irrigidite. Edward ridacchiò.
«Beh, interessante». Il suo tono di voce era cupo, lo sguardo pieno di cautela.
Non risposi. Sapevo benissimo che non aveva seguito il filmato perché aveva continuato a lanciarmi occhiatine sceme per tutto il tempo.
«Andiamo?» Chiese, alzandosi con grazia.
Quasi mi feci sfuggire un poco signorile grugnito. Ora di ginnastica. Mi alzai con attenzione e presi a camminare. Edward mi accompagnò in palestra senza parlare, oscura ombra nella mia vita scolastica e non, e appena mi voltai appena per guardarlo un'ultima volta, prima di entrare a lezione di educazione fisica, lo vidi fermo come una statua. La sua espressione era inquietante: sembrava lacerato, quasi dolorante, di una bellezza fiera che non si addiceva alla sua morbosa stupidità.
Sollevò la mano, indeciso, esitante, combattendo con sé stesso; accarezzò svelto il profilo della mia guancia, con la punta delle dita. La sua pelle era ghiacciata come sempre, ma la traccia che lasciò sul mio viso sembrava bollente.
Si voltò senza parlare e si allontanò a grandi passi.
Schiumavo di rabbia. Schiumavo di orrore. Il mostro mi aveva toccato la faccia e io non avevo avuto il coraggio di gridare aiuto, presa dal panico. Mi vergognai di me stessa, poi cercai di dimenticare l'accaduto, ma continuavo a sentire ancora il tocco fantasma delle sue dita morte e fredde, senza vita.
Entrai in palestra con le gambe molli e la testa pesante. Fluttuai fino allo spogliatoio e infilai la tuta in trance, non del tutto consapevole delle altre persone attorno a me. Ripresi il contatto con la realtà soltanto quando qualcuno mi mise in mano una racchetta da badminton. Non era pesante, ma la maneggiavo con poca sicurezza, mentre mi chiedevo se una racchettata in piena faccia avrebbe potuto fare del male ad un vampiro. Alcuni miei compagni di classe mi lanciavano occhiate furtive. Il professor Clapp ci ordinò di formare le coppie.
Mi accorsi che era un insegnante di ginnastica il cui cognome era "Clapp", come l'onomatopea che del battito delle mani, e che per l'appunto batteva spesso le mani per invogliarci a continuare con gli esercizi. Ma in questa scuola tutti i professori avevano cognomi da stereotipo di professore?
Grazie al cielo l'istinto cavalleresco di Mike era ancora vivo e in forma: il ragazzo si posizionò al mio fianco.
«Ti va di stare in squadra con me?»
«Grazie Mike... lo sai che non sei costretto, eh?» Cercai di scusarmi anticipatamente
«Non preoccuparti, ti starò lontano». Sorrise.
Era così facile trovarlo simpatico.
Non andò affatto liscia. In qualche modo riuscii a colpire la mia stessa testa (per fortuna era una racchetta leggera) e a centrare la spalla di Mike con un movimento solo.
«Con questi movimenti dovresti fare arti marziali, non badminton» Disse lui, massaggiandosi la parte alta del braccio
«Scusa» mi strinsi nelle spalle «Ma io ti avevo avvertito».
Passai il resto dell'ora nella parte più lontana del campo, sperando di non fare altri danni, ma pronta ad intervenire se fosse proprio disperatamente necessario. Malgrado l'handicap, Mike giocò comunque bene: vinse tre partite su quattro da solo. Quando il fischietto del professore decretò la fine della lezione, il mio compagno di squadra mi diede anche un cinque, che non meritavo affatto.
«E allora...» Disse, mentre ci allontanavamo dal campo
«E allora cosa?»
«Tu e Cullen, eh?» chiese, facendomi l'occhiolino
«Non è affar tuo, Mike» dissi, un po' troppo bruscamente.
Non avrei voluto esserlo, ma ora che sapevo che Edward era un essere sovrannaturale dalla forza e dalla velocità mostruosa, non volevo che Mike si mettesse in mezzo. Dovevo proteggerlo a tutti i costi: lui era dolce, lui era puro, lui era buono e non si meritava i vampiri.
«Non mi piace» Bofonchiò lui, incurante del mio commento
«Non piace neanche a me» sbottai «Lo sai»
«Si, lo so, ma è che... ti guarda come se fossi... qualcosa da mangiare».
Soffocai la crisi isterica che minacciava di esplodere, ma nonostante gli sforzi mi scappò un risolino acuto. Che povera ragazza emotiva che ero. Lui mi guardò in cagnesco, senza capire quanto mi stessi spremendo per non dare di matto. Lo salutai e sparii nello spogliatoio.
Mi rivestii in fretta, con lo stomaco affollato da qualcosa di più pesante delle farfalle, desiderando di essere già lontanissima dalla discussione con Mike. Chissà se Edward mi stava aspettando, se l'avrei trovato accanto alla sua auto... e se ci fossero stati anche i suoi fratelli? Sentii un'ondata di vera paura. Sapevano quel che sapevo e io? E a me era permesso di sapere che sapevano che sapevo?
Come cacciatrice di vampiri ero davvero pessima: troppa ansia.
Quando uscii dalla palestra ero intenzionata a tornare a casa a piedi, senza dare nemmeno uno sguardo al parcheggio. Tanta preoccupazione per il parcheggio quando invece Edward mi aspettava appoggiato al muro della palestra, con aria disinvolta, senza l'ombra di un pensiero sul viso mozzafiato.
«Ciao» Mi disse, con un sorriso luminoso «Come è andata in palestra?»
«Bene» mentii, continuando a camminare e sperando, vanamente, che non mi sarebbe venuto dietro
«Davvero?». Non era convinto.
Mi si affiancò. I suoi occhi si socchiusero e misero a fuoco qualcosa dietro le mie spalle. Mi voltai e vidi Mike di schiena che se ne andava.
«Che c'è?» Chiesi, allarmata.
Lui tornò a fissare me, con lo stesso sguardo teso «Newton inizia a darmi suo nervi».
Mi morsi la lingua per non dirgli una parolaccia. Avevo dell'alcool, una bustina, nella tasca insieme ad un fiammifero nel caso mi avesse aggredita, ma non potevo aggredirlo io per prima oppure sarei finita in carcere. Non si ammazzano gli altri studenti, giusto?
«Come va la testa?» Chiese lui, innocentemente.
Mi voltai, accelerando il passo verso il parcheggio. Mi stava accanto senza sforzo e nessuno sembrava intenzionato ad aiutarmi, anche se probabilmente tutti sapevano dell'ordine restrittivo di Cullen.
Procedemmo in silenzio – un silenzio imbarazzante e furioso per quel che mi riguardava – fino alla mia auto. Ma a pochi passi di distanza fui costretta ad arrestarmi: fra me e la mia macchina c'era un altro veicolo parcheggiato e quel veicolo era attorniato da una folla di ragazzi, tutti maschi. Mi resi conto che stavano osservando la cabriolet rossa di Rosalie, mangiandosela con gli occhi. Nessuno si accorse di Edward che si faceva spazio per aprire la portiera.
Ne approfittai per scappare come una matta, aprire la portiera e lanciarmi dentro il mio accogliente Chevy rosso, respirando profondamente l'odore di cuoio e menta che impregnava e che forse avrebbe impregnato sempre l'abitacolo.
Guidai fino a casa un po' più in fretta di come avrei fatto normalmente e quando aprii la portiera il vento artico che invase l'auto mi aiutò a riprendere lucidità.
Entrai in casa con un gran sospiro e per fortuna Dracula mi venne subito incontro, miagolando a voce spiegata, con la coda nera tirata su come un vessillo.
«Piccolo cucciolo!» Esclamai, aprendo le braccia.
Il gatto mi saltò contro il petto e si accoccolò contro di me mentre lo stringevo, facendo le fusa. Io e Dracula stavamo certamente sviluppando un rapporto particolare, difficile da replicare per molti altri binomi gatti-padroni. Ci amavamo come si possono amare un gatto e un'umana un po' ansiosa ed era assolutamente meraviglioso.
Posai Dracula su una poltrona, mi tolsi il giaccone e mi sfregai le braccia per aiutare la circolazione, poi io e il gatto salimmo al piano superiore.
Controllai un attimo le e-mail prima di andare a trafficare in cucina e fra una lettera di spam di un noto sensitivo che voleva predirmi la fortuna e una promozione per comprare scarpe al cinquanta percento notai una lettera da un indirizzo che non conoscevo e che, nonostante ciò, non era stata inserita automaticamente nella cartella dello spam.
L'oggetto diceva solo "Freddi". Rabbrividii e mi chiesi se sarebbe stato intelligente oppure no aprire quell'e-mail. Non mi piacevano i jumpscare e neanche le catene di Sant'Antonio e quella lettera poteva essere entrambe le cose, inoltre non avevo dato a nessuno la mia e-mail e quindi solo qualcuno che fosse entrato nella mia stanza senza che io me ne accorgessi e avesse aperto il mio computer avrebbe potuto... oh no! Edward avrebbe tranquillamente potuto entrare di nuovo nella mia camera e copiare il mio indirizzo e-mail!
Desiderosa di non farmi influenzare da alcuna lettera, cestinai immediatamente l'e-mail e scesi a preparare da mangiare.
Quella sera, come al solito, Edward popolò i miei sogni. Il clima del mio inconscio, però, era cambiato. Agitata dalla stessa elettricità fredda che aveva attraversato la mia mattina, mi girai e rigirai senza sosta nel letto, svegliandomi spesso. Con il sudore che mi imperlava la fronte, ebbi modo di fissare nella memoria diversi sogni, uno più bizzarro dell'altro: la mia immaginazione sembrava diventata il circo degli orrori.
Solo nelle prime ore del mattino mi lasciai andare ad un sogno profondo e senza sogni.
Al risveglio ero ancora stanca e nervosa. Infilai un dolcevita marrone e gli immancabili jeans, sospirando. La colazione fu il solito evento tranquillo. Papà preparò per tutti e due le uova fritte e mi versò un bicchierone di limonata fredda.
Chissà se si ricordava di quello che avrei fatto sabato... rispose alla mia domanda silenziosa alzandosi da tavola per sciacquare il suo piatto.
«A proposito di sabato...» Esordì, attraversando la cucina e aprendo l'acqua del lavandino
«Si, papà?»
«Sei sempre decisa ad andare a Seattle?»
«I miei piani sarebbero quelli».
Lui spruzzò il detersivo sul piatto, giusto uno schizzetto verse, e lo strofinò con la spugna. Mi ritornò in mente una cosa che avevo letto da qualche parte, che le spugne da cucina sono più ricche di batteri delle toilette degli autogrill.
«E sei sicura di non riuscire a tornare in tempo per il ballo?» Domandò
«Papà, al ballo non ci vado»
«Nessuno ti ha invitata?» chiese piano, provando a nascondere la preoccupazione concentrandosi sul piatto da lucidare.
Cercai di non entrare nel campo minato
«Gli inviti spettano alle ragazze. È tradizione, papà»
«Ah» si fece serio, mentre asciugava.
Lo capivo. Essere padre è senz'altro difficile: vivere nel timore che tua figlia incontri un ragazzo che le piace e al tempo stesso che non lo incontri. Che cosa tremenda, pensai con un brivido, se Carlo avesse lontanamente sospettato la realtà: un vampiro a cui piacevo ma che a me faceva venire il vomito, i brividi, gli incubi e gli ordini restrittivi. Beh, non sarei stata io a strappargli i sogni di una paternità normale, in cui il ragazzaccio che piace alla figlia ha al massimo tatuato su un braccio "mamma" in un cuoricino.
Poi mi salutò e uscii, e io salii al piano di sopra a lavarmi i denti col mio spazzolino di un verde indefinibile – perfettamente in atmosfera Forks – e a prendere i libri di scuola. Dopo aver sentito il rumore dell'auto della polizia che se ne andava, mi bastò aspettare qualche secondo prima di sbirciare dalla finestra.
Ci avrei giurato. L'auto metallizzata era già nel vialetto al posto di quella di Carlo. Prendendomi tutto il tempo del mondo per finire di preparami mi chiesi dov'era che Capelli-pazzi si nascondeva la mattina con un macchinone sbrilluccicante. E poi non avevo sentito il motore della Volvo, che per quanto silenzioso e piacevole non poteva essere del tutto inaudibile... Visualizzai vividamente Capelli-pazzi in mezzo agli alberi, che portava la Volvo sottobraccio guardandosi attorno come un ladro dei cartoni animati. Mi chiesi quanto a lungo avrebbe insistito con questa routine inconcludente.
Mi aspettava nella sua macchina, apparentemente distratto mentre giravo la chiave nella toppa, chiudendo a doppia mandata. Mi avvicinai alla mia, di auto, e lui aprì la portiera luccicante della sua Volvo che mi accecò riflettendo un raggio di sole solingo. Era sorridente, rilassato, e come al solito freddo e bellissimo da farmi star male.
«Buongiono». Che voce di falsone. «Oggi come stai?» Mi chiese, e i suoi occhi perlustrarono il mio viso, come se quella domanda fosse più che un semplice gesto di cortesia.
«Mi inquieta quando gente fredda mi fissa. Per il resto bene, grazie».
Non smise di fissarmi, ma non mi aspettavo che lo facesse; si soffermò sulle mie occhiaie: «Sembri stanca»
«Non riuscivo a dormire» confessai bruscamente, passandomi automaticamente i capelli sulla spalla a mo' di protezione. Aprii la portiera del mio fidato Chevy in fretta ed ero già con un piede dentro quando arrivò la sua risposta ironica.
«Neanch'io». Ed avviò il motore. Forse l'unica cosa bella di Capelli-pazzi non era neanche lui, ma il rumore del motore della sua auto, che volevo ancora ardentemente ridurre ad una lamiera contorta, ma quelle fusa erano tranquille e vibranti.
«Ah ah ah. Ma come sei simpy» Dissi, richiudendo la portiera con un colpo secco
«Ci scommetto».
Lottai con la manovella preistorica del mio amato Chevy per alzare il finestrino e non dover sentire più le sue idiozie. Ma Edward aveva molte altre scemenze nella manica, e si sporse dalla Volvo per chiedermi «Qual è il tuo colore preferito?» in tono tutto perfettino e compassato.
Non sapevo cosa dire. Quel coso riusciva a sorprendermi ogni giorno. «Cambia ogni giorno»
«Oggi qual è?» La sua aria era ancora solenne.
Probabilmente il marrone, pensai. Di solito mi vestivo seguendo il mio umore, e poi il marrone è un colore caldo, che mi dava sicurezza e stabilità, che non avevo mai visto associato a Capelli-pazzi e simili. Era il colore della pelle delle mie nuove amiche licantropo, che mi avrebbero protetta, e dei loro occhi intelligenti. Era il colore degli occhi di Carlo quando mi guardava lavando i piatti e preoccupandosi del fatto che potessi trovare un ragazzo che mi avrebbe trattata bene.
Erano cose profondamente mie, e non volevo che lui sapesse una sola, singola cosa che fosse davvero importante per me; tuttavia l'idea di non rispondergli mi rendeva nervosa, avevo paura della reazione che avrebbe avuto se non avessi degnato di attenzione nessuna delle sue stupide domande.
«Giallino» Dissi quindi, a metà della mia opera col finestrino.
Lui dimenticò l'espressione seria e soffocò una risata, chiedendo scettico: «Giallino?»
«Certo. Giallino. Il giallino è un bel colore delicato, come quello delle famigliole di funghi o della pipì».
Sembrava affascinato dalla mia spiegazione. Rimase zitto a riflettere per un istante, e potevo sentirlo fissarmi la nuca.
«Hai ragione» Concluse, tornato serio «Il giallino è delicato». Sentivo il suo sguardo fisso sui miei capelli quando finalmente finii di alzare il finestrino, chiedendomi com'era possibile che il mondo fosse dannato dalla presenza di una creatura allo stesso tempo imbecille ed immortale, ed entrambi ci dirigemmo verso scuola.
Sentivo vagamente di essere tesa, ma me ne accorsi di più quando lui sfrecciò via e mi lasciò godere almeno il viaggio da sola. Si, il marrone mi piaceva, decisi guardando fuori dal mio finestrino i pochi pezzi di tronchi, terreno o rocce non inglobati dal pittoresco verde che avevo imparato ad amare.
Mi parve che il viaggio durasse troppo poco, soprattutto quando lo trovai appoggiato come un manichino alla sua auto a guardarmi arrivare. Sospirai e misi lo zaino in spalla, tentennando se uscire o no dall'abitacolo.
Io non mi muovevo e lui neppure, così alla fine cedetti con un brivido di freddo e timore e me ne uscì dal mio cantuccio sicuro. Subito quella brutta bocca storta mi pose una domanda casuale.
No, non ce la facevo più a chiedermi cosa determinasse la personalità del giorno di Capelli-pazzi.
«Cosa c'è in questo momento nel tuo lettore CD?» Chiese lui in tono grave come se stesse pretendendo la confessione di un'omicida.
Ricordai di non avere mai rimesso a posto il CD che mi aveva regalato Phil.
«Padelle dandala» Dissi svogliatamente, incamminandomi a passo lungo verso l'edificio scolastico.
Lui aveva già aperto lo scompartimento alloggiato sotto il lettore CD dell'autoradio, probabilmente per farmi vedere la sua collezioncina dai trenta e più compact disc ammassati in spazio esiguo, o sventolarmi sotto il naso qualche CD di qualche virtuoso rinascimentale, ma ero già troppo lontana.
Lui mi trotterellò dietro, sventolando la copertina plastificata di un disco.
«Da Debussy a questo?». Alzò un sopracciglio. Anche io alzai un sopracciglio. Non un solo sopracciglio sarebbe rimasto abbassato quel giorno.
Edward continuò così, a farmi domande idiote, per tutto il giorno. Mi accompagnò alla lezione di inglese, facendo domande idiote, e continuò a farne dopo spagnolo, durante tutta l'ora della pausa pranzo, anche mentre cercavo di infilarmi di nuovo in macchina per scappare da quell'interrogatorio folle e inconcludente sui dettagli più infimi della mia vita. Quali film mi piacevano o non sopportavo, i pochi posti che avevo visitato, i tanti che avrei desiderato vedere e i libri, domande senza fine sui libri. A giudicare da come Edward si comportava, nella vita lui aveva letto solo teen romance con protagonisti lunatici, quindi mi chiesi cosa gliene fregasse di quello che invece leggevo io.
Non ricordavo un'altra occasione in cui qualcuno mi avesse fatto tante domande e mi chiesi come potesse non essere in imbarazzo neanche un po', come potesse essere così certo di non starmi annoiando a morte o irritando abbastanza da volermi far desiderare di bruciarlo sul posto.
La sua espressione era assorta, la sequela di domande interminabili, al punto tale che cedetti e risposi persino ad alcune di esse, per il solo gusto di vedere l'espressione confusa che compariva sul suo volto quando non riusciva a capire perché avevo dato una certa risposta.
Erano perlopiù curiosità innocenti, discrete.
Quando mi chiese quale fosse la mia pietra preferita, risposi senza nemmeno pensarci "La brucorolite". Era stata una reazione immediata, dovuta al fatto che mi stava tartassando, subissandomi con una velocità tale da farmi sentire in uno di quei test psicologici in cui si risponde con la prima domanda che passa per la testa, così decisi che da quel momento in poi avrei risposto sempre con le risposte sbagliate, fittizie, inventandomi pietre e cibi e nomi di paesi e parole e sperando che, una volta arrivato a casa, Edward fosse stato troppo impegnato a cercare su internet (o su qualche costosa enciclopedia) le mie risposte formate da parole non-esistenti e neologismi.
«Perché ti piace la brucorolite?» Domandò lui, come se la brucorolite fosse una pietra realmente esistente e lui ne conoscesse il colore
«È il colore degli occhi del mio gatto, oggi» sospirai «Color brucorolite»
«Ah. Quali sono i tuoi fiori preferiti?»
«Il camardello, l'ospiuco e il cinoflower»
«E le tue macchine preferite?»
«Una sola: la Giulietta Giupercala X» annuii, con aria saggia «La forma del cofano, così bombata eppura levigata, ricorda il guscio di una conchiglia. E il motore! Ah, il motore fa le fusa come una tigre»
«Che gusti raffinati. Non pensavo che te ne intendessi di macchine».
Tsk. Certo che non me ne intendevo di macchine. Però lui se ne intendeva ancora meno se pensava che esistesse una "Giulietta Giupercala X".
«Qual'è il tuo film preferito?»
«Hmm... Scooby Doo and the Curse of the Speed Demon»
«Scooby Doo? Il cane che risolve i misteri?»
«Sicuro» No, non era il mio film preferito, si, mi piaceva, si, volevo che Edward lo guardasse al più presto «Questo qui è un film fatto in collaborazione con la WWE»
«Si, ho sentito parlare della WWE, dicono sia un'ottima casa cinematografica...».
Casa cinematografica? Io stavo parlando di una federazione di wrestling. Non so cosa guardasse Edward alla televisione nel suo tempo libero, ma non erano le cose che guardavamo tutti noi.
«Chi è il tuo artista preferito?».
Stavolta fui costretta a rispondere sinceramente, se non l'avessi fatto mi sarei sentita una traditrice.
«Artemisia Gentileschi» Dissi «E ti consiglio di dare un'occhiata ai suoi lavori, se non l'hai già fatto».
E via così per tutta la mattinata.
L'ora di biologia fu l'ennesima complicazione. Edward continuò il suoi quiz finché il professor Banner non entrò in classe, portandosi dietro il solito trabiccolo per gli audiovisivi. Mentre l'insegnante si avvicinava all'interruttore per spegnere la luce, mi accorsi che Edward allontanava impercettibilmente la sedia.
Provai sinceramente a guardare il filmato, ma alla fine dell'ora non ne ricordavo neppure un fotogramma. Di nuovo, quando il professor Banner riaccese le luci sospirai di sollievo e mi girai verso Edward: mi guardava, una luce ambigua negli occhi. Provai il tutt'altro che irragionevole impulso di infilargli un pollice in un'orbita per vedere se l'occhio gli si sarebbe schiacciato come ad una persona normale.
Su alzò in silenzio e si fermò ad aspettarmi, immobile. Mi accompagnò in palestra senza dire una parola, come il giorno prima. E come il giorno prima, mi accarezzò il viso, muto, ma stavolta con il dorso della mano fredda, dalla tempia al mento.
Solo che, questa volta, gridai.
«AIUUUTOOO! AIUTOOO!».
Subito due studenti grandi e grossi, dall'aria pericolosa, schizzarono verso di noi. Edward spalancò gli occhi e fece un passo indietro.
«Mi stava toccando!» Esclamai, indicandolo «M-mi stava toccando! Ha un ordine restrittivo legale, non può farlo!».
Edward si allontanò con un sorriso sghembo prima che i due ragazzoni potessero mettergli le mani addosso. Gliel'avrei fatta passare questa voglia di giocare al mostro e la bella con me. Gliel'avrei fatta passare eccome.
«Signorina Cigna, sta bene?» Domandò uno dei due ragazzoni, con voce bassa, fonda. Aveva i capelli neri semilunghi, legati in un codino, e la faccia rotonda.
«Si» Dissi «Grazie mille. Siete stati davvero... bravi».
I due sorrisero. Anche l'altro aveva i capelli scuri, ma cortissimi, mentre la sua mascella era più squadrata e un filo di baffi gli ornava il labbro superiore.
Non li avevo mai notati prima, forse perché non frequentavamo neanche un corso insieme e probabilmente non avevano la mia stessa età, ma fui davvero felice che fossero accorsi in mio aiuto. Certo, se Edward avesse voluto avrebbe potuto fare loro del male, non importava quanto fossero grossi, ma erano buoni ed erano miei alleati adesso. In realtà, probabilmente, tutta la scuola era mia alleata.
Come avevo anticipato, anche all'uscita da scuola Edward mi tartassò di domande. Lo minacciai di chiamare i due bestioni, ma a lui non importava assolutamente: sorrideva, quell'espressione sghemba e vagamente maniacale da personaggio dei fumetti, e mi accorsi all'improvviso che somigliava a Sonic, il riccio blu.
Sul mio volto comparve probabilmente l'espressione più seccata del mondo, ma così come non sapeva o non voleva capire l'assurdità ironica delle mie risposte, alla stessa maniera non capiva le mie espressioni.
Tuttavia, rispondere a quella nuova serie di domande fu più difficile. Voleva sapere cosa più mi mancasse di Phoenix – «La tua assenza» gli dissi, e lui rise – e insisteva nel farsi descrivere i particolari di ciò che non gli era familiare. Che dato che non era mai stato a Phoenix, città del sole, erano tantissimi.
Non era altrettanto facile improvvisare e perciò mi sfuggì ancora una volta qualche risposta vera, ma perlopiù cercai di descrivere cose impossibili e casuali: l'odore del carusumullo, noto cactus autoctono di quelle zone: amarognolo, freddo, ma anche caldo e un po' spinoso; il suono acuto e lamentoso simile a chiacchiericcio delle cuccumazze dentro i condotti dell'areazione; gli alberi viola del nostro giardino in stile Impero, la puzza di banane del giallo delle infradito che io e Phil condividevamo; l'ampiezza del cielo, che si stendeva bianco e blu da un capo all'altro dell'orizzonte, disturbato a malapena dalle basse montagne coperte di rocce vulcaniche (mi dispiace ammetterlo, ma questa mi era uscita poetica e pure vera, dannazione). Il difficile era spiegare perché tutto ciò mi apparisse così bello: giustificare delle robe inventate sul momento e senza un senso logico, solo per guardare gli occhi sgranati di Edward che doveva avermi già diagnosticato l'acufene, il daltonismo e un'acuta forma di sinestesia.
Oppure si era bevuto tutto. Ma non poteva essere così stupido. Vero?
Mi ritrovai a dover accompagnare le mie descrizioni con grandi gesti, sopprimendo il vile impulso di inventare un paesaggio immaginario da accompagnare con teatrali gesti dell'ombrello.
Tanto, che io sapessi, non si usava in America.
«Hai finito?» Chiesi, entrando nel mio Chevy non appena si spostò abbastanza da farmi passare, perso in chissà quali grandi fantasie delle papere giganti di Phoenix di cui gli avevo tanto parlato.
«No».
Scappai con il mio pick-up, ma ovviamente non era finita qui. Mi venne dietro fino a casa, spuntando fuori di tardo pomeriggio non appena mi venne voglia di leggermi un libro da sola in cortile, e facendomi venire voglia invece di gridare per la frustrazione.
Scese sul giardino di casa mia e mi voltai a guardarlo, infuriata, alzando una mano.
«Alt. Basta domande»
«Ma...»
«Tu non hai mai risposto alle mie. Ora basta. Hai idea del fatto che io non ti voglia sempre appresso? Sai a cosa serve un ordine restrittivo legale?».
Lui sorrise come se lo trovasse adorabilmente buffo, incorniciandosi il mento con le lunghe dita da pianista. Come se io non fossi una persona giustamente arrabbiata. Come se fossi stata il video di un gattino che si butta dal tavolo cercando di prendere un puntolino laser sul muro.
«Non hai detto che non volevi essere mio amico per il mio bene? Non te ne importa niente della mia salute?!». La mia voce era sgradevolmente salita di qualche ottava, e avevo allargato un solo braccio gesticolando, mentre con l'altro mi cingevo il torso come a proteggermi.
«Belarda...». La sua espressione era cambiata completamente, gli occhi color topazio ombreggiati dalle lunghe ciglia. Nelle sue pupille si era acceso qualcosa, una rivelazione.
Lasciò cadere le braccia lungo il corpo allampanato, e io mi rannicchiai su me stessa, abbracciandomi.
«Tu hai paura di me» Disse lui, come realizzandolo all'improvviso. Non risposi, guardandolo torva. Lui fece un passo avanti e io uno indietro, e nel leggere il timore nei miei occhi lui si fermò sul posto.
«Non ti avvicinare» Sibilai, toccandomi discretamente la tasca della giacca. Alcool. Accendino. Sentii delle orribili lacrime di nervosismo affiorarmi alle ciglia e cercai di convincermi che era solo perché non ero ancora riuscita a dargli fuoco, e non per paura. Sarebbe stato molto più facile non versarle così.
«Belarda... È vero che è pericoloso per noi anche solo essere vicini» Disse lui serio. Il suo corpo era orribilmente inespressivo, immobile. Troppo immobile. «Io non sono buono. Io sono molto, molto pericoloso per te, Belarda, e faresti bene a starmi lontano. Mi rincuora vedere che te ne sei resa conto».
Mi faceva uscire di testa il fatto che non stesse neanche cercando di far finta di respirare, di vedere come mi schiaffava in faccia il fatto di essere un freddo. Non poteva, non poteva dire frasi del genere e poi comportarsi così.
«Sto cercando di starti lontano! Sei tu che continui a cercarmi. Io non so più in che lingua dirtelo che voglio fare come dici, che voglio starti lontano, che voglio essere sicura...» La mia voce aveva assunto una qualità ringhiante che si accentuò alla fine, quando finì in un ringhio insicuro.
La sorpresa sul volto di Edward era bambinesca, devastante.
«Ma tu vuoi farlo solo perché hai paura Belarda» Disse il mostro in tono delicato, battendo le palpebre «Ma, oh mia cara, non c'è ragione di avere paura. Io non ti farei mai del male».
Tutto si fermò, nel giardino davanti casa del commissario Cigna.
Un vampiro mi stava guardando, esprimendo probabilmente la più malata dichiarazione d'amore del mondo, e forse era l'amore migliore che potesse offrirmi. Capii. Una piccola parte di lui voleva il mio sangue, ma un'altra – chissà quale e quanto importante – voleva la mia paura, perché quella era innocua e non avrebbe messo nei guai la sua famiglia, voleva giocare con me e avere la mia paura. Una mia reazione. Non potevo amarlo, e la paura era l'unico altro modo in cui avrei potuto dargli attenzione. Era il suo modo di amare. Mi faceva schifo.
Perché io? Forse perché ero l'unica di cui lui non poteva sapere cosa stava pensando: era smanioso di avermi, controllarmi, rigirarmi tra le sue mani, sapere i miei pensieri a lui inaccessibili. Ringraziai e maledissi con tutto quello che avevo il fatto che non potesse leggere la mia mente, e che non sapesse che avevo una mano sulla bustina di alcool per aprirla in fretta, e avevo infilato l'altra mano in tasca stringendo l'accendino in pugno.
Ma sotto il suo sguardo intenso non mi sentivo affatto al sicuro.
Il cielo si era addensato di nuvole scure, e un vento scortese mi scompigliava i capelli e faceva ondeggiare quelli di Edward in modo che voleva farmi ridere istericamente.
Fu lui a muoversi per primo, drizzando la schiena e sorridendo. «Rimandiamo ad un'altra volta» Disse, guardando per un secondo alla sua destra.
«Hai finito?» Chiesi, sollevata
«Neanche per sogno... ma tra poco tornerà tuo padre»
«Carlo!» esclamai in un fiato, ricordandomi improvvisamente della sua esistenza. Guardai il cielo scuro e gonfio di pioggia senza riuscire a leggerlo, e mi ricordai solo dopo che avevo un orologio al polso. Carlo sarebbe dovuto rientrare a minuti.
«È il crepuscolo» mormorò Edward puntando lo sguardo ad ovest, verso un orizzonte coperto di nubi. Sembrava pensieroso, come se la sua mente vagasse chissà dove. Rimasi ad osservarlo, mentre i suoi occhi si perdevano là fuori.
All'improvviso scivolarono di nuovo nei miei.
«Per noi è il momento più sicuro della giornata» Disse, rispondendo alla domanda silenziosa del mio sguardo (anche se la mia domanda era tutt'altra) «L'ora più leggera, ma in un certo senso, anche la più triste... la fine di un altro giorno, il ritorno della notte. L'oscurità è troppo prevedibile, non credi?». Sorrise malinconico.
A me la notte piaceva. Era poetica, rivelava il volto pallido e nascosto del mondo, e animali adorabili come gatti, gufi e pipistrelli se ne andavano in giro liberi. Se non ci fosse il buio non vedremmo le stelle, e vedremmo invece la faccia della brutta gente tutto il giorno.
«Impiccati» Gli dissi. Rise, e l'atmosfera si ruppe
«Carlo tornerà tra qualche minuto. Perciò, a meno che tu non voglia dirgli che sabato verrai con me...» sussurrò guardandomi di sottecchi
«Grazie, ma... decisamente no grazie». Raccolsi il libro che avevo lasciato cadere all'inizio della conversazione, ritrovandomi i muscoli irrigiditi dalla lunga tensione.
Non mi ero accorta che aveva cominciato a piovigginare, ma per fortuna ero già sotto la veranda, perché non sarei riuscita a smuovermi.
Lui cominciò lentamente a tornare alla sua auto, e la sua mano restò immobile sul punto di aprire la portiera della sua Volvo. «Cattive notizie» Bofonchiò
«Che c'è?» chiesi a mezza voce, notando che teneva la mascella contratta e il suo sguardo era inquieto.
Mi lanciò un'occhiata fulminea e disse, cupo «Un'altra complicazione».
Aprì la portiera con una mossa veloce e in un istante si spostò per allontanarsi da me, rigido.
La mia attenzione fu catturata da un paio di fari nella pioggia e da una seconda auto scura che procedeva sull'asfalto dietro di noi, ma non la riconobbi.
«Carlo è dietro l'angolo» Mi disse ansioso, osservando il veicolo sotto lo strato di pioggia che copriva il parabrezza; si infilò velocissimo nell'abitacolo. Cercai di identificare le sagome sul sedile anteriore dell'altra auto, ma era troppo buio. Vidi Edward illuminato dal fascio dei fari della macchina ferma di fronte a noi; guardava dritto di fronte a sé, con gli occhi fissi su qualcuno o qualcosa che non riuscivo a scorgere. La sua espressione era un misto di frustrazione e sfida.
Poi mise in moto, e le gomme stridettero sull'asfalto fradicio; la Volvo sparì nel giro di pochi secondi.
Rimasi imbambolata a guardarla allontanarsi, realizzando che il discorso che aveva fatto sul crepuscolo era il primo in cui sottintendeva chiaramente la propria vera natura.
«Ehi, Belarda» Disse una voce roca, familiare, dal posto di guida della piccola auto nera
«Jacob?» gracidai, e scrutai attraverso la pioggia socchiudendo gli occhi. Proprio in quel momento la volante di Carlo svoltò l'angolo e illuminò gli occupanti del veicolo che mi stava di fronte.
Jacob era intento a scendere, il suo sorriso ampio si distingueva persino nell'oscurità. Dalla parte del passeggero era seduto un uomo molto più anziano di lui, un volto dai lineamenti marcati, difficile da dimenticare: un volto che quasi tracimava, con le guance che poggiavano sulle spalle, e la pelle bronzea attraversata da rughe simili alle increspature di una vecchia giacca di pelle. E gli occhi neri, sorprendentemente familiari, che sembravano allo stesso tempo troppo giovani e troppo antichi per l'ampio viso che li conteneva.
Era Billy Black, il padre di Jacob; lo riconobbi all'istante persino nel buio. Mi guardava fisso, perciò tentai un sorriso tremolante. Spalancava gli occhi e le narici, come fosse spaventato.
Il mio sorriso svanì.
Un'altra complicazione, aveva detto Edward.
Billy seguitava a fissarmi con uno sguardo intenso, ansioso. Soffocai un gemito di ansia riflessa. Era stato così facile, per Billy, riconoscere subito Edward? Credeva alle leggende impossibili – o così avevo pensato – di cui suo figlio si era preso gioco?
La risposta nei suoi occhi era chiara: si, ci credeva.



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