domenica 15 aprile 2018

Sunset 32 - Spia in incognito nella tana del vampiro bianco


Mi risvegliai alla luce smorzata dell'ennesimo giorno di cielo coperto. Ero sdraiata, con un braccio a nascondermi il viso, intontita. Qualcosa, un sogno che chiedeva di essere ricordato, si faceva largo nella mia coscienza. Sbadigliai e mi girai di fianco, sperando di riaddormentarmi. E di colpo la mia mente fu inondata dalla consapevolezza del giorno prima.
«Ah!». Mi alzai tanto in fretta da avere le vertigini.
Dracula miagolò e si stiracchiò, adorabile, mentre sbadigliava con i dentini candidi in mostra.
«Drakey, sei rimasto qui tutta la notte!». Ero felicissima e lo afferrai immediatamente, senza pensarci, fra le braccia. Il gattino fece le fusa, muovendo la punta della coda, e mi diede una testatina contro il mento. Posai la testa sulla sua schiena, con delicatezza, per respirare il profumo caldo del suo pelo, un misto fra il pane caldo e la lavanda. Dicono che i gatti puzzano, ma forse vale solo per quelli di strada o quelli con diete poco bilanciate perché il mio miciotto nero profumava come un bambino pulito.
Rimisi a terra il gatto, poi filai in bagno. La mattinata post-WWE era come una mattinata post-sbornia: non riuscivo a decifrare le mie emozioni, non mi riconoscevo più. Il volto riflesso nello specchio era quello di un'estranea: occhi troppo lucidi, guance vivacemente colorite, chiazzate di rosso. Dopo essermi spazzolata i denti, mi adoperai per sciogliere il caos di nodi che avevo tra i capelli. Mi lavai la faccia con l'acqua fredda e cercai, senza risultati visibilmente apprezzabili, di respirare normalmente. Tornai in camera mia quasi di corsa, mi vestii in fretta e scesi a fare colazione. Avevo una tale fame che avrei mangiato un bue intero. Forse. No, va bene, magari avrei mangiato solo mezzo bue.
Dracula mi seguì cercando di farmi inciampare, strusciandosi fra le mie caviglie con l'amabile faccino concentrato.
«Osservami mentre caccio, Drakey!».
Trovai una tazza e una scatola di cereali. Sentivo gli occhi del gatto su di me, mentre versavo il latte e afferravo un cucchiaio. Disposi il cibo sul tavolo, in silenzio.
«Vuoi che procacci qualcosa anche per te?» Chiesi.
Dracula miagolò forte e fece un movimento curioso con la zampina. Era irresistibile e mi sciolsi tutta.
«Oooohhh... voglio altri venti gatti uguali a te» Dissi, mentre gli riempivo la ciotolina di piccoli croccantini colorati.
Mi accomodai al tavolo, masticando la prima cucchiaiata senza staccargli gli occhi di dosso. Quando mangiava faceva un rumorino con la bocca tipo "schl schl" e aveva voglia di strizzarlo a morte perché era la puccezza incarnata nel corpo di un gatto. Papà aveva avuto ragione, la sera prima: ero davvero su di giri. Mi sentivo tutta elettrica.
Poi, all'improvviso, Dracula smise di mangiare e gli si rizzò il pelo sulla nuca. Anch'io mi allarmai.
«C'è qualcuno?» Domandai, a bassa voce, come se il gatto avesse potuto rispondermi.
«Cos'abbiamo in programma oggi?» Mi rispose la familiare, irritante, voce di Edward Cullen.
Strillai, poi afferrai un coltello e lo lanciai nella direzione da cui era provenuta la voce. Il coltello (che era da cucina e senza punta, purtroppo) gli rimbalzò sulla faccia e cadde pateticamente sul pavimento.
Mio padre non era in casa (almeno speravo che si stesse divertendo con Sue Clearwater) ed Edward Cullen era nella mia cucina in pieno giorno.
«È ora di fare colazione» Disse, disinvolto.
Mi portai le mani al collo e spalancai gli occhi, fissandolo con terrore. La sua espressione tradì che era scioccato.
«Scherzetto» Ridacchiai «E poi dici che non sono capace di recitare. Adesso fuori di casa mia, sederino gelato»
«Mmmm... che ne dici di venire a conoscere la mia famiglia?».
Restai senza parole.
«Hai paura, adesso?». Sembrava speranzoso.
«In effetti si»
«Non preoccuparti. Ti proteggerò io» mi rassicurò lui, con un sorrisetto
«Non ho paura di loro. Ho paura della tua immensa stupidità» rettificai «Che potrebbe portarti a fare una cosa molto, molto stupida e molto pericolosa. E non ho la benché minima voglia di venire con te dalla tua famiglia»
«Ma dai! Sanno già tutto. Ieri hanno persino scommesso» accennò una risata, ma poco convinta «Su quante possibilità abbia io di portarti a casa sana e salva, benché mi sembri una stupidaggine scommettere contro Alice. E in ogni caso nella mia famiglia non ci sono segreti. Non sarebbe proprio concepibile, con me che leggo nel pensiero, Alice che vede nel futuro e tutto il resto».
Feci una linguaccia
«Perciò Alice mi ha già vista arrivare?» domandai, curiosa.
La sua reazione fu strana. «Qualcosa del genere» disse, senza troppo entusiasmo, voltandosi per non mostrarmi il suo sguardo.
«Non mi ha vista arrivare» ridacchiai «Perché non verrò con te, capelli-pazzi. Ormai ho capito il tuo gioco, sai? Tutti sono in pericolo, ma non io. Ci tieni a me, forse perché altrimenti non avresti nessuno a cui rompere le scatole, quindi non vuoi farmi del male. Come mi costringerai a conoscere i tuoi, eh?».
Lui sorrise. Odiavo così tanto i suoi sorrisi sghembi. Mi guardai intorno alla ricerca di alcool con cui bagnargli la faccia per poi dargli fuoco, ma prima che ci riuscissi, lui aggirò il tavolo e allungò una mano per per sfiorarmi una guancia con le dita. La sua espressione era vacuamente indecifrabile, adesso, perché ricordiamo che la sua faccia faceva su e giù fra tutte le espressioni come una montagna russa impazzita.
Poi mi afferrò e mi rigirò come una bambola, così velocemente che non ebbi il tempo di capire che cosa stesse succedendo, finché non mi ritrovai a cavalluccio come una bimba sulla sua schiena a sfrecciare fuori dalla casa ad una velocità assolutamente impossibile. L'ultima cosa che sentii prima di schizzare fuori dalla porta di casa fu il miagolio disperato di Dracula spaventatissimo.
Colpii Edward dietro la testa con un pugno, ma mi feci soltanto male. Mi teneva per le gambe, così strettamente che era impossibile liberarsi, ed ero scomodissima... per essere un po' più comoda avrei dovuto afferrarlo, stringere le braccia intorno alle sue spalle o al suo petto, ma non volevo. Non volevo per nulla. D'altronde, però, sarebbe stato stupido farsi del male o anche solo stare scomodi perché ero orgogliosa, così mi aggrappai alle sue spalle fredde e dure e mi sentii vagamente... nauseata.
Correvamo così velocemente che le case, i pali della luce, le auto parcheggiate intorno a noi apparivano sfuocate e non rimanevano nel mio campo visivo per più di un istante prima di essere sostituiti da altre case, altri pali della luce, altre auto parcheggiate.
Mentre uscivamo dalla città, con Edward che correva come un coniglio pazzo, mi resi conto del fatto che andavamo più veloci della sua macchina, il che era teoricamente impossibile per un bipede delle sue dimensioni, no? Oltrepassammo il ponte sul fiume Calawah e proseguimmo lungo le curve della strada che puntava verso nord. Le case che ci sfrecciavano accanto si facevano sempre più rare e grandi. Nessuno ci vide. Chiamai aiuto, ma nessuno ci ascoltò. Edward rise, come se il mio comportamento fosse stupido, così iniziai a gridare "aiuto" ancora più forte, ma lui si immerse nella foresta nebbiosa e mi portò sempre più a fondo, dove nessuno avrebbe potuto sentire la mia voce.
Avevo paura. Chiunque avrebbe avuto paura. Inoltre il suo corpo era freddo e assorbiva il mio calore perciò presi a tremare.
Dopo qualche chilometro, percorso come se non fosse nulla, ci ritrovammo nella piccola radura dalla quale spuntava la deliziosa dimora dei Cullen, ombreggiata dagli immensi cedri.
Io conoscevo già la famiglia di Edward, quindi che senso aveva quello stupido rapimento?
Edward mi mise a terra. Mi tremavano violentemente le gambe e mi girava la testa. Lui mi prese la mano con disinvoltura e attraversammo l'ombra scura fino alla veranda. Sapevo che poteva percepire la mia tensione; con il pollice, disegnava cerchi sul dorso della mano. Se avesse continuato per ancora qualche istante gli avrei vomitato addosso.
Invece lui aprì la porta e mi fece entrare nel sorprendente, arioso, ampio interno della sua casa.
I genitori di Edward erano, esattamente come l'ultima volta, sul rialzo occupato da uno spettacolare pianoforte a coda, come se fossero pupazzi in una casa delle bambole e questo fosse il posto scelto per loro da una gigantesca bambina (o da una gigantesca arredatrice di interni che amava le bambole).
Ci diedero il benvenuto con un sorriso, ma non si avvicinarono... come se non dovessero lasciare il posto che era stato dato loro dal creatore di quella casa per le bambole degli orrori.
«Carlisle, Esme, vi presento Bella».
«Benvenuta, Bella» Carlisle mi venne incontro a passi misurati, attenti. Mi offrì una mano e io la strinsi, come ipnotizzata.
Tutto questo non aveva senso, io conoscevo già Carlisle e conoscevo anche sua madre. Tutto questo non aveva alcun senso.
«Chiamami pure Carlisle»
«Carlisle» Dissi, trasognata.
Edward, al mio fianco, si rilassò.
Esme sorrise e si avvicinò anche lei, offrendomi la mano fredda e forte, e anche lei si presentò per la seconda volta, proprio come se non la conoscessi.
«Dove sono Alice e Jasper?» Chiese Edward, ma nessuno rispose, perché i due erano appena apparsi in cima all'ampia scala.
«Ehi, Edward!» Esclamò Alice, entusiasta. Scese le scale di corsa, un lampo di capelli neri e pelle bianca, arrestandosi con grazia di fronte a me. Carlisle ed Esme le lanciarono occhiate di avvertimento e anche io le avrei lanciato occhiate di avvertimento se non fossi stata così spaventata dalla sua follia.
«Ciao, Bella» Disse e si sporse a baciarmi sulla guancia.
Se poco prima Carlisle ed Esme mi erano sembrati scrupolosi ora erano impietriti. Anche io ero sbalordita. Fu una sorpresa sentire Edward irrigidirsi al mio fianco. Gli lanciai uno sguardo, ma la sua espressione era illeggibile.
«Hai davvero un buon odore, ma non me ne ero mai accorta» commentò lei, con mio grande imbarazzo e ancora più grande paura.
Nessun altro sapeva bene cosa dire (erano imbarazzati pure in famiglia tra loro, questi vampiri deficienti), finché non apparve Jasper, alto e leonino. Contro ogni pronostico, mi sentii invadere dalla tranquillità e un istante dopo mi trovavo a mio agio.
«Ciao, Bella» Disse Jasper. Restò a distanza e non mi offrì la mano, ma era impossibile sentirsi a disagio se c'era lui nei paraggi, visto che sembrava proprio in grado di buttare intorno a sé un'aura magica di pace.
«Ciao, Jasper». Accennai un sorriso timido, prima a lui e poi agli altri. Ero sotto il loro incantesimo, ma dentro il mio cuore, in fondo alla mia anima, sapevo di volerli ancora uccidere tutti con un lanciafiamme. Tranne Edward. Non avevo bisogno di scavare in fondo alla mia anima per sapere di voler fare fuori Edward: se avessi avuto in mano un fucile ammazzavampiri l'avrei usato senza esitare un solo istante.
«Siamo davvero contenti che tu sia venuta» Disse Esme, con convinzione e intensità. Capii che mi ritenevano una ragazza coraggiosa. E anche che non sapevano che Edward mi aveva prelevata da casa contro la mia volontà.
Mi accorsi anche che Rosalie ed Emmett non si facevano vedere e ne fui sollevata. L'espressione di Carlisle mi distolse da quei pensieri: fissava Edward intensamente come se alludesse a qualcosa. Con la coda dell'occhio scorsi Edward annuire.
Guardai altrove e mi chiesi distrattamente se non stessero pianificando di uccidermi e dissanguarmi proprio lì, sul pavimento della loro bellissima e ariosa casa bianca.
Tornai al bellissimo (si, era tutto bellissimo) strumento sistemato su quella specie di palco, accanto alla porta. Ricordavo d'un tratto una mia fantasia infantile. Quando intendevo comprare un pianoforte a coda per mia madre, se mai avessi vinto alla lotteria. Lei non era mai stata veramente una brava musicista (e suonava solo per sé, sul nostro piano verticale di seconda mano) ma a me piaceva starla a guardare. Era felice, assorta: in quei momenti mi sembrava un essere nuovo e misterioso, lontano dalla figura svampita e strana della madre che conoscevo.
Esme notò il mio sguardo assorto.
«Suoni?» Chiese, inclinando la testa verso il piano.
Feci cenno di no. «No, per niente. Ma è bellissimo. È tuo?».
Rise.
«No. Edward non ti ha mai detto che è un musicista?»
«Edward mi ha detto un mucchio di cose» mi scappò di bocca «Ma non faccio attenzione a tutte le sciocchezze che dice, altrimenti mi scoppierebbe la testa»
«Oh, Edward! Non è educato vantarsi troppo» disse lei
«Soltanto un po'» disse lui, ridendo.
Esme si tranquillizzò e i due si scambiarono un'occhiata che non riuscii a interpretare, a parte il compiacimento nello sguardo di lei.
«Per la verità si crede il re del mondo» Precisai «Anche se non si è effettivamente vantato troppo di sapere suonare»
«Beh, dai Edward, suona per lei» lo incoraggiò sua madre
«Hai appena detto che è maleducazione» replicò lui
«Ogni regola ha un'eccezione».
Io volevo buttarmi fuori dalla finestra e scappare, ma avevo paura di tagliarmi con un vetro e avere poi tutti i vampiri addosso pronti a mangiarmi viva. Perciò rimasi lì, con le braccia abbandonate lungo ai fianchi, a rabbrividire di freddo perché ero vestita con una maglietta bucherellata e i pantaloni della tuta e questo posto era tutto arioso e freddo.
«Siamo d'accordo, allora» Disse Esme, spingendo il figlio verso il piano.
Lui mi trascinò con sé e mi fece accomodare sul seggiolino, al suo fianco. Mi ritrassi quel tanto che bastava per non toccarlo perché era freddo e perché mi faceva schifo.
Prima di abbassare gli occhi sui tasti, mi rivolse uno sguardo esasperato. Cercai di restituirgli uno sguardo che fosse almeno il doppio esasperato rispetto al suo.
Poi le sue dita iniziarono a correre veloci sui tasti d'avorio (quanti elefanti erano morti perché Edward mettesse le sue sudicie mani gelate sulle loro zanne sagomate a forma di tasti?) e il salone si riempì del suono di una composizione tanto complicata, tanto rigogliosa, da non poter credere che a suonarla fosse un solo paio di mani.
Cercai di non mostrare alcuna reazione, anche se avrei voluto rimanere a bocca aperta e godermi quello spettacolo. Edward era una persona sgradevolissima, ma che razza di idiota sarei stata a dire che non sapeva suonare?
Edward mi guardò di sfuggita, mentre la musica di avvolgeva senza pause, e mi strizzò l'occhio
«Ti piace?»
«L'hai scritta tu?».
Annuì. «È la preferita di Esme».
Chiusi gli occhi e scossi il capo.
«Cosa c'è che non va?»
«Ho freddo e mi fai schifo, ma la tua musica... non dovrebbe piacermi, ma mi piace».
La musica rallentò, si trasformò in qualcosa di più morbido e fra le ondate di note udii una ninna nanna.
«Questa l'hai ispirata tu» disse, a bassa voce. La musica si riempì di una dolcezza insostenibile.
Ero senza parole.
«Piaci a tutti, lo sai? Soprattutto a Esme».
Guardai alle mie spalle, ma il salone era vuoto.
«Dove sono andati tutti?»
«Immagino che, con molto buon senso, ci abbiano concesso un po' di privacy»
«Un po' di privacy? Non riescono a sentire che non ti sopporto? E poi non piaccio a tutti, Rosalie ed Emmett...».
Lui aggrottò le sopracciglia
«Non preoccuparti di Rosalie, prima o poi si farà vedere».
Lo fissai scettica «Emmett, allora? Lui no?»
«Beh, secondo lui, in effetti, sono pazzo, ma non ce l'ha affatto con te. Sta cercando di fare ragionare Rosalie»
«Cosa c'è che la innervosisce?». Non ero sicura di voler sentire la risposta, ma dovevo anche prepararmi al peggio e sapere è potere.
Lui fece un respiro profondo «Rosalie è quella più problematica, non si da pace rispetto a... ciò che siamo. Non è facile per lei pensare che qualcuno di esterno alla famiglia conosca la verità. In più è gelosa»
«Gelosa? Di me? Ma non è tua sorellastra o qualcosa del genere? E non sta già con Emmett? Oh, vabbè, non sono cavoli miei le cosacce che fate fra voi vampiri» alzai i palmi, per mostrare che potevano combinare quello che volevano
«Sei umana» riprese lui, stringendosi nelle spalle «Vorrebbe esserlo anche lei»
«Ah» mormorai «Beh, è più che ragionevole. Voglio dire, deve essere un inferno essere morti che si nutrono solo di sangue. Anche Jasper si è tenuto a distanza, anche lui è...»
«No, quella è colpa mia, in realtà. Te l'ho detto, è stato l'ultimo a convertirsi al nostro stile di vita, l'ho avvertito di mantenere le distanze».
Pensai al motivo di tale esortazione e mi si aggrovigliarono per un attimo le budella. Jasper mi voleva mangiare, alla faccia delle ondate di benessere zen che buttava a cerchio.
«Comunque» Precisai «Se me l'hai detto non stavo ascoltando, perché non me lo ricordo»
«Esme e Carlisle» disse lui, ignorando completamente la mia precisazione «Sono felici che io sia felice. Anzi, credo che Esme ti apprezzerebbe anche se avessi tre occhi e i piedi palmati. In tutti questi anni si è preoccupata per me, ha sempre temuto che alla mia essenza originale mancasse qualcosa, che fossi troppo giovane quando Carlisle mi ha cambiato... è felicissima. Ogni volta che ti sfioro, gongola di soddisfazione»
«Che cosa orribile» sospirai «Sotto tutti i punti di vista»
«Perché dici questo, Bella?» domandò, la voce rotta da un filo di tristezza
«Primo perché mi chiamo Belarda e non Bella. Poi perché io e te non staremo mai insieme, in quanto ti odio e mi dovresti costringere a stare con te e non funzionerebbe comunque perché proverei ad ucciderti nel sonno. Terzo, perché che razza di madre è una che pensa che a suo figlio "manchi qualcosa" solo perché non ha una ragazza? Che orrore. Una madre dovrebbe accettare suo figlio per quello che è, non essere ansiosa perché non ha la donna. Che poi voi vampiri non potete fare figli, quindi a che cavolo vi serve essere tutti accoppiati a due a due come sull'arca di Noè?»
«Anche Alice sembra molto... entusiasta»
«Non mi hai ascoltato per niente mentre parlavo, vero? Di nuovo? Non mi hai ascoltato?» avevo voglia di scaraventare la mobilia contro il suo pianoforte lussuoso per distruggerglielo, ma poi pensai agli elefanti a cui erano state tagliate le zanne per fare i tasti dello strumento e fui più triste che arrabbiata.
Il silenzio con cui Edward mi rispose era denso di sottintesi. Sottintesi che non potevo capire. Quando quel silenzio si fece imbarazzante, lui riaprì bocca
«Ti sei accorta che stavo parlando con Carlisle, prima?»
«Gli leggevi nel pensiero e annuivi, non è che ci stavi parlando, diciamo le cose come sono»
«Aveva una notizia per me... e non sapeva se avrei gradito di condividerla»
«Ma chi t'ha chiesto niente? Tienitelo per te»
«Sono obbligato a condividerla, perché nei prossimi giorni, o settimane, sarò un po' iperprotettivo nei tuoi confronti e non voglio che tu pensi a me come a un despota»
«Non preoccuparti, ti vedo già come un criminale, stalker, pazzo che mi ha sequestrata per portarmi nella sua casa di vampiri. Comunque, quale sarà il problema, sentiamo?»
«Nessun problema, per ora. Alice, però, ha visto che presto riceveremo ospiti. Sanno che siamo qui e sono curiosi»
«Ospiti? In che senso?»
«Si... beh, ovviamente non sono come noi... quanto ad abitudini di caccia, intendo. Probabilmente non entreranno a Forks, ma non sono intenzionato a perderti di vista finché non se ne saranno andati»
«Ma che BIP!» urlai, autocensurandomi «Vampiri che si mangiano le persone qua attorno? Col cavolo che sto vicino a te, deficiente! Hai appena detto che questi cosi sono incuriositi da voi, quindi vi ronzeranno intorno ed è sicuro che mi vedranno, se starò con te! Ma tu hai il cervello tutto bacato!»
«Finalmente una reazione normale! Iniziavo a temere che non fossi dotata di istinto di sopravvivenza!».
Mi alzai in piedi e camminai come in trance fino al più vicino vaso cinese da cui spuntavano lunghi rami decorati da fiori finti. Lo alzai.
«Che fai?» Domandò Edward.
Lanciai il vaso cinese con tutta la forza che avevo contro di lui e questo andò in mille pezzi, inondando lui, il pavimento e il pianoforte di schegge di porcellana.
«Esme ci teneva!» Disse lui, allarmato.
I suoi occhi si fecero rotondi rotondi, come due palline da ping pong gialline. Camminai lentamente verso la poltrona, pensando a come avrei potuto distruggerla.
Lui si alzò in piedi e mi scattò di fronte con la sua velocità soprannaturale.
«Bella, smettila!» disse, serio
«Va bene» risposi, in tono piatto, ritornando verso il sedile davanti al pianoforte.
Lui rise
«Capisco che sei tesa, Bella, ma non è il caso di lasciarsi prendere dal terrore così, non lascerò che nessun vampiro...».
Per fortuna che non poteva leggermi nel pensiero. Afferrai la piccola panca su cui Edward non era più seduto e, con uno sbuffo, la scaraventai contro il pianoforte, traendone un suono discordante mentre lo ammaccavo.
Edward mi fu accanto e cercò di fermarmi, mi strappò la panca dalle mani, facendomi male, ma io iniziai a prendere a calci e pugni lo strumento già malconcio.
«BELLA!».
Edward mi afferrò per i fianchi e mi tirò indietro, poi mi fece voltare e mi prese il volto fra le mani.
«Calmati» Mi disse, dolcemente.
Io gli strappai un bottone dalla camicia, in silenzio. Volevo distruggere tutto quello che era suo.
«Che succede?» Domandò la voce di Carlisle «Ho sentito un rumore e...»
«Niente» disse Edward, in piedi fra le schegge, con la panca rovesciata da un lato e senza un bottone alla camicia «Non preoccuparti».
Ne approfittai per strappargli anche il secondo bottone dalla camicia.
«Riportami a casa» Dissi «O ti spacco tutto quello che possiedi»
«Ma questa è la casa di Esme, non la mia» cercò di rabbonirmi lui.
Gli afferrai il terzo bottone della camicia, ma lui fu più veloce e mi afferrò il polso. Combattei contro la sua presa ferrea, ma era troppo forte.
«Mi fanno male le mani» Mi lagnai «Mi hai fatto male, prima, quando mi hai preso la panca»
«Mi dispiace, Bella, non ti avrei fatto mai del male se non...»
«Sei un vampiro. Mi hai fatto del male. Con me hai chiuso, Edward»
«Aspetta» lui mi lasciò andare e indietreggiò «Lascia che io ti dimostri quanto vali per me. Non mi importa se distruggi ciò che è mio, sono solo oggetti e tu sei più importante...»
«Molto bene» risposi, poi ritornai a prendere la panca e con quella a martellare furiosamente il suo pianoforte, cercando di ridurlo ad un ammasso di rottami.
La rabbia mi aveva portata ad un nuovo stato di consapevolezza. Rabbia controllata. Niente urla, ma una forza distruttiva lucida, mirata, precisa.
Mi resi conto che avevo raggiunto lo stadio del super saiyan.
«Basta, ti prego, Belarda!» Gridò Carlisle «Mia moglie sarà fuori di sé! Ti prego, cerca di ragionare!».
Smisi di martellare il pianoforte (che tanto ormai era distrutto e inservibile, accasciato al suolo) e trascinai la panca fino ad Edward, emettendo un acuto rumore strusciante sul pavimento.
«Brava, ti sei sfogata» Disse capelli-pazzi, allargando le braccia «Adesso vieni da me, io ti proteggerò e...».
Gli spaccai la panca addosso, contro il petto, facendo saltare schegge ovunque.
«Non mi hai fatto male, non puoi farmi del male così, Bella...».
Ritornai indietro e divelsi uno dei piedi del pianoforte a coda dai rottami, ringhiando e sbuffando, tesa nello sforzo.
«Non puoi picchiarmi con quella» Edward sorrise «Non mi farai comunque niente. Sono indistruttibile Bel...».
Con il piede del pianoforte, usato a mo' di mazza, iniziai a distruggere le vetrate. A ogni colpo gridavo ed era una vera soddisfazione ogni crepa che si formava nel vetro, ogni frammento che iniziava a staccarsi.
«Smettila! Ti farai male! Bella!».
Riuscii a sfondare il vetro: i frammenti saltarono da tutte le parti come un fuoco d'artificio. Una risata mi gorgogliò in gola. Senza un'altra parola, mi diressi verso la poltrona.
«No!» Esclamò Carlisle, poi mi afferrò e mi sollevò da terra «Basta, Belarda, basta! Non puoi distruggere quella! Edward, aiutami!».
Anche se ero sollevata da terra, avevo ancora in mano il piede del pianoforte e lo lanciai con forza, immaginando di essere una donna del paleolitico con un grande osso in mano, contro un altro vaso che si spaccò con un tonfo acuto, barcollò e cadde a terra distruggendosi del tutto.
«Bella!» Esclamò Edward «Ti prego, basta! Basta! Facciamo uno scambio!».
L'adrenalina iniziava a scemare e non avevo più nessuna arma in mano, perciò mi ritrovai sempre più stanca. Dopo alcuni minuti (si, Carlisle mi tenne per i fianchi e sollevata da terra come un gattino per alcuni minuti) annuii
«Facciamo uno scambio» dissi.
Carlisle mi mise a terra. Cercando di darmi una posa fiera e sicura, mi misi le mani sui fianchi e guardai Edward dritto in quegli stupidi occhi inumani
«Cosa vuoi?»
«Vuoi sapere che cosa è successo ieri nel parcheggio con quel tuo Undertaker?» mi domandò, d'improvviso molto serio
«Certo»
«Allora smetti di distruggere casa mia. Noi non ti terremo più sollevata da terra e io ti dirò cosa è successo nel garage del ristorante a Seattle»
«Va bene» annuii «Ma solo se, subito dopo avermelo detto, mi riporterai a casa. E non di nuovo sulla tua schiena, che mi viene la nausea. Mi riporterai a casa con una macchina, come le persone normali»
«Affare fatto, Bella. Ma solo se giocherai a baseball con noi»
«Non so giocare a baseball»
«Allora guarderai la nostra partita?»
«Vantarsi delle proprie capacità sovrannaturali è maleducazione»
«Anche spaccare la mobilia degli altri lo è» si intromise Carlisle
«Si, ma non lo dirai a mio padre, Dottor Biancolatte» ghignai, sicurissima di me «Altrimenti si verrà a sapere che Edward si è avvicinato di nuovo a me. E se c'è qualcosa di peggio della maleducazione è di sicuro l'illegalità».
Carlisle annuì con un'espressione amara sul volto. Li avevo tutti in pugno, ma volevo tornare a casa.
«Prima» Disse Edward «Ti faccio fare un giro della casa. Uno veloce veloce, ok? È interessante, lo giuro»
«Ho freddo, figlio di BIP» mi autocensurai «E tu mi vuoi portare a spasso in una cripta vampirica? Prima procurami un cappotto»
«Mio figlio è un idiota» disse Carlisle ad alta voce, in tono fermo «Ma ti ama davvero, anche se spesso non sembra. Vado a prenderti un cappotto»
«Grazie, Dottor Biancolatte» risposi.
Dopo neanche due secondi, Carlisle fu di ritorno con un cappottone rosso tutto lustrinato che doveva essere sicuramente di Rosalie e quindi un po' grandino per me, ma curiosamente comodo quando me lo infilai: sembrava l'abbraccio di una tamia gigante dipinta con lo spray rosso.
Ragionando rapidamente, capii che in realtà questa era un'occasione unica: avrei studiato a fondo la casa dei vampiri e avrei cercato di scoprire il più possibile su di loro per poi raccontare tutto alle mie amiche licantrope di La Push. In questo modo avrei potuto essere una spia, un'infiltrata che li avrebbe rovinati con le sue stesse mani!
Edward non sapeva che favore mi stava facendo e avrei fatto in modo che non lo sapesse mai... finché, ovviamente, non sarebbe stato troppo tardi.
Cercando di cancellarmi il ghigno maligno da spia che mi era spontaneamente affiorato sul volto, salii le scale massicce insieme a Edward, che questa volta fortunatamente evitò di prendermi la mano (altrimenti gli avrei strappato via il resto dei bottoni, anzi, gli avrei strappato i capelli). Il corrimano era liscio come la seta. Il lungo corridoio del primo piano era contornato di pannelli di legno color miele, identici a quelli del pavimento. Se avessi dato fuoco a quella casa, l'incendio si sarebbe propagato rapidamente e avrebbe anche arrostito a morte i vampiri che la abitavano.
«La stanza di Rosalie ed Emmett... lo studio di Carlisle... la stanza di Alice...» indicava ogni porta con un gesto, senza ovviamente aprirle. Prendeva molto sul serio l'idea di "un giro veloce" a quanto pareva.
Avrebbe proseguito come una macchinetta, ma io mi arrestai in fondo al corridoio, fissando incredula la decorazione appesa al muro sopra la mia testa. Edward ridacchiò della mia espressione sbalordita e io gli strappai un altro bottone senza che lui nemmeno cercasse di fermarmi, per poi buttarlo per terra
«Questo è perché ridi di me» dissi, atona
«Puoi ridere anche tu» disse «È ironico, in un certo senso».
Non ci riuscivo. Alzai automaticamente una mano, tentando di sfiorare con un dito la grossa croce di legno, la cui tinta scura contrastava con quella più morbida della parete. Non la toccai, benché fossi curiosa di sentire se quel legno invecchiato fosse così liscio come appariva.
«Dev'essere antichissima».
Edward si strinse nelle spalle «Anni Trenta del diciassettesimo secolo, più o meno».
Distolsi gli occhi dalla croce per guardare lui.
«Perché la conservate qui?»
«Nostalgia. Apparteneva al padre di Carlisle»
«Era un collezionista?»
«No. L'ha costruita lui. Stava sopra il pulpito della chiese di cui era pastore».
Mi ci volle poco per fare i conti: aveva più di trecentosettant'anni. Il silenzio ci avvolse, mentre mi sforzavo di immaginare un tempo tanto legno.
«Tutto bene?» Mi sembrava preoccupato
«Quanti anni ha Carlisle?» chiesi piano, ignorando la sua domanda come lui spesso faceva con le mie, gli occhi fissi ancora sulla croce
«Ha appena festeggiato il suo trecentosessantaduesimo compleanno» rispose Edward.
Mi volta, con un milione di domande nello sguardo. Lui parlò senza staccarmi gli occhi di dosso, inquietantissimo.
«Carlisle è quasi certo di essere nato a Londra, negli anni Quaranta del diciassettesimo secolo. All'epoca le date non erano registrate con cura, non per la gente comune. Fu poco prima dell'avvento di Cromwell».
Cercai di mantenere un'espressione composta, mentre ascoltavo.
«Era l'unico figlio di un pastore anglicano. Sua madre morì di parto. Suo padre era un uomo molto intollerante. Quando i protestanti presero il potere, fu molto attivo nella persecuzione dei cattolici e dei seguaci di altre religioni. Credeva anche molto nell'esistenza delle incarnazioni del male. Guidava le cacce alle streghe, ai licantropi... e ai vampiri. Furono bruciate parecchie persone innocenti: di sicuro le vere creature di cui andavano a caccia non erano così facili da stanare»
«Oh si che sono facili» replicai «Basta starsene per i cavoli propri che all'improvviso arriverà un vampiro e ti rapirà mentre fai colazione per portarti a casa sua a raccontarti una storia su quanto sono difficili da stanare i vampiri».
Lui rise forte. Non ero sicura che avesse capito che la battuta era su di lui.
Lo spinsi a continuare
«E poi, che successe? Mi interessa questa cosa del padre di un vampiro che ammazza vampiri. Carlisle ha ucciso suo padre, poi?»
«Aspetta, ora ci arrivo. Diventato anziano, il pastore cedette il ruolo di guida dei cacciatori al figlio devoto»
«Carlisle, giusto?»
«Giusto. Sulle prime Carlisle fu una delusione: non era abbastanza pronto nel condannare, nel vedere demoni dove non ce n'erano. Ma era testardo e più intelligente del padre»
«Questo lo dici tu. Che non eri ancora nato... magari sei solo prevenuto»
«Ma Carlisle scoprì un rifugio di veri vampiri, che abitavano le fogne delle città e uscivano solo di notte. Molti vivevano così, in un'epoca in cui i mostri non erano ritenuti soltanto mito e leggenda. La folla raccolse le forche e le torce, ovviamente» la sua espressione si fece triste e cupa «E attese, nel punto in cui Carlisle aveva visto che i mostri uscivano. Finché uno di loro non emerse dal sottosuolo».
Parlava a voce molto bassa; per ascoltarlo dovevo tendere l'orecchio.
«Probabilmente era una creatura antica e sfiancata dalla fame. Carlisle lo sentì chiamare gli altri in latino, quando si accorse dell'odore della folla. Iniziò a correre per le strade e Carlisle, che a ventitrè anni era molto veloce, guidava l'inseguimento. La creatura avrebbe potuto agevolmente seminarli, ma era troppo affamata, perciò si voltò e li attaccò. Si avventò su Carlisle, ma dovette difendersi dal resto della folla. Uccise due uomini, scappò con un terzo e lasciò Carlisle a terra, sanguinante».
Fece una pausa. Sentivo che mi stava risparmiando una parte del racconto, per nascondermi qualcosa. Trionfante, mi appoggiai contro la parete
«Vedi che Carlisle era più stupido di suo padre?» dissi
«Come?» lui scosse la testa, confuso
«Suo padre era malvagio, ma non stupido. Puntava il dito e bruciava demoni che non esistevano perché questo gli dava potere sulle folle. Ma suo figlio, Carlisle, era andato a stuzzicare un vampiro vero e si era beccato la sua lezione. La sua stupidità l'ha trasformato in un vampiro»
«Sono punti di vista»
«E questo è quello della vita, caro il mio Edward. Questo è il punto di vista della vita. Comunque, poi cosa successe? Carlisle uccise suo padre?»
«No, fammi finire. Sapeva quale destino gli avrebbe riservato il padre. Avrebbe fatto bruciare i corpi: tutto ciò che il mostro aveva infettato sarebbe stato distrutto»
«Vedi che era intelligente, il padre? Io ti avrei bruciato subito»
«Carlisle strisciò via dal vicolo mentre la folla inseguiva il mostro e la sua vittima. Si nascose in una cantina e restò sepolto per tre giorni sotto dei sacchi di patate andata a male. Fu un miracolo se riuscì a rimanere in silenzio, a non farsi scoprire. A quel punto era finita e lui si rese conto di ciò che era diventato».
Si arrestò di colpo, per farmi capire che finiva lì, anche se non aveva risposto alla mia domanda: alla fine Carlisle e suo padre si erano scontrati e Carlisle lo aveva ucciso?
«Come va?» Chiese
«Bene. Sono contenta che in passato vi dessero la caccia e vi uccidessero. Dovrebbero farlo anche oggi».
Sorrise
«Immagino che tu abbia qualche altra domanda in serbo»
«Qualcuna».
Sfoderò un sorriso ancora più luminoso. Mi fece strada lungo il corridoio, cercando di prendermi per mano, ma ritrassi il braccio in fretta e squittii "no" così lui rinuncio.
«Vieni allora, ti faccio vedere».
Mi guidò verso la stanza che mi aveva indicato come lo studio di Carlisle. Si fermò brevemente sulla soglia.
«Entrate». Era la voce del dottore. Come aveva fatto a rientrare nel proprio studio così in fretta e senza che mi accorgessi di nulla? Ah giusto, era Flash, ma succhiasangue.
Edward aprì e fummo in una stanza dal soffitto altro, con le finestre rivolte a occidente. Le pareti, per quel poco che ne appariva, erano coperte di pannelli di legno scuro: erano quasi completamente nascosti da scaffali enormi pieni di libri, che torreggiavano sulla mia testa e contenevano tanti volumi da poter fare concorrenza ad una piccola biblioteca pubblica.
Carlisle occupava una poltrona di pelle, dietro una massiccia scrivania di mogano. Si alzò, sistemando un segnalibro fra le pagine di un grosso tomo. La stanza era identico a come immaginavo lo studio del preside di una facoltà, peccato che Carlisle avesse un'aria poco professionale e sembrasse un divo e fosse il padre di un vandalo senza ritegno.
«Posso esservi utile?» Chiese con voce melodiosa, alzandosi dalla sedia
«Volevo mostrare a Bella un po' della nostra storia» rispose Edward «Beh, della tua, a dir la verità»
«Non preoccuparti. Da dove vuoi iniziare?»
«Dalla costellazione dell'Auriga» rispose Edward, posando con delicatezza una mano sulla mia spalla per farmi voltare e ammirare la parete alle nostre spalle, quella da cui eravamo entrati. Ogni volta che mi toccava, anche nel modo più distratto, avevo voglia di vomitargli sui capelli. La presenza di Carlisle però mi metteva a disagio abbastanza da impedirmi di fare un gesto tanto vile.
La parete che osservammo era diversa dalle altre. Non era coperta da uno scaffale, ma quadri di tutte le dimensioni, alcuni a colori vivaci, altri monocromatici, grigi e cupi. Cercai un qualche legame segreto che rendesse coerente quella collezione, ma il mio esame frettoloso non mi diede alcun indizio.
Edward mi trascinò sul lato sinistro, di fronte ad un piccolo dipinto ad olio quadrato, con una semplice cornice di legno. Non spiccava, a fianco degli esemplari più grossi e luminosi; le sue tonalità seppiate mostravano una città in miniatura, piena di tutti ripidi e guglie strette sulla cima di poche torri sparse qua e là. Sullo sfondo scorreva un grande fiume, attraversato da un ponte su cui spiccavano edifici che somigliavano a piccole cattedrali.
«Londra nel 1650» Disse Edward
«L'avevo capito» replicai «Ma che c'azzecca la costellazione dell'Auriga?»
«La Londra della mia giovinezza» aggiunse Carlisle, avvicinatosi a noi. Ebbi un sussulto: non l'avevo sentito muoversi.
«Hai voglia di raccontare tu la storia?» Gli chiese Edward.
Mi voltai a osservare la reazione di Carlisle.
Incontrò il mio sguardo e sorrise
«Mi piacerebbe, ma purtroppo sono in ritardo. Hanno chiamato dall'ospedale, stamattina. Il dottor Snow è rimasto a casa, in malattia. E poi, tu conosci bene la storia quanto me» aggiunse, rivolto a Edward.
Che strana combinazione: le preoccupazioni quotidiane di un medico di provincia nel bel mezzo di una discussione sulla sua giovinezza nella Londra del diciassettesimo secolo.
Un altro sorriso luminoso per me, e il dottore se ne andò.
Per lunghi istanti rimasi a osservare il quadretto della città natale di Carlisle.
«E in seguito, quando si accorse di essere un vampiro, che successe?» Chiese finalmente a Edward, che mi fissava in silenzio.
Parliamo di cose importanti.
Lui tornò ai quadri e io seguii il suo sguardo per capire su quale dipinto si stesse concentrando. Era un panorama più grande, nei colori più smorti dell'autunno: un prato deserto, ombroso, in mezzo ad una foresta dominata da una cima aguzza all'orizzonte.
«Quando scoprì cosa era diventato» Riprese, a bassa voce «Si ribellò. Cercò di autodistruggersi. Ma non è impresa facile».
Ecco, questa si che era una storia ghiotta. Che mi dicesse, quello stolto, cosa funzionava e cosa no per distruggere la diabolica progenie del male assetata di sangue!
«Come?» Domandai
«Si gettò da cime altissime» disse Edward, impassibile come se non stesse parlando dei tentativi di suicidio di suo padre, chiaramente un essere senza cuore «Tentò di annegarsi nell'oceano... ma era all'inizio della sua nuova vita, era giovane e molto forte. La cosa incredibili è che sia riuscito a evitare di... nutrirsi. Nei primi tempi l'istinto è più potente, più forte di qualsiasi altra cosa. Ma era talmente disgustato da sé stesso che trovò la forza per decidere di morire di fame»
«Ed è possibile, morire di fame?» chiesi, con un filo di voce
«No, ci sono pochissimi modi per ucciderci».
Aprii la bocca per fare una domanda, ma lui mi anticipò
«Perciò divenne molto affamato e alla fine si indebolì. Si allontanò il più possibile dagli umani, rendendosi conto che anche la sua forza di volontà si infiacchiva. Per interi mesi vagò di notte, alla ricerca dei luoghi più solitari, pieno di repulsione per sé stesso. Una notte, presso il rifugio dove si nascondeva, passò un branco di cervi. Era talmente sconvolto dalla sete che li attaccò senza neppure pensarci. Si rimise in forze e comprese che esisteva un'alternativa: che poteva non essere quel mostro abominevole che temeva. Non si era forse già cibato di selvaggina, quando era umano? In pochi mesi, aveva fatto sua quella nuova filosofia di vita. Poteva continuare a vivere, senza essere un demonio. Ritrovo sé stesso»
«E tu?»
«Io?»
«Tu quando deciderai di continuare a vivere senza essere un demonio?»
«Io non... io ho già adottato lo stile di vita di Carlisle» disse lui, confuso
«Intendo, quando la smetterai di essere un odioso criminale? Ci sono molti modi per essere demoni, non solo bere il sangue umano» sghignazzai, dandogli un colpetto con l'indice in mezzo agli occhi «E ora continua la storia di tuo padre»
«D'a-d'accordo» balbettò lui, poi riprese «Iniziò a impiegare il proprio tempo in maniera più proficua. Era sempre stato intelligente e curioso di imparare. Ormai aveva di fronte tutto il tempo che voleva. Studiava di notte e di giorno preparava i suoi piani. Nuotò fino in Francia e...»
«Arrivò in Francia a nuoto?»
«C'è un sacco di gente che attraversa la Manica a nuoto, Bella» precisò, paziente
«Si, ma voi siete pesantissimi vampiri marmorei. Non andate giù a fondo come sassi?».
La mia osservazione lo fece riflettere. Probabilmente non aveva mai messo in dubbio che suo padre aveva attraversato a nuoto la Manica, nella sua gioventù vampirica.
«Siamo nuotatori provetti...» Disse infine
«Seeee, come no, siete provetti in tutto. Ho capito, ha camminato sul fondo del mare, continua la storia».
Lui resto in silenzio, divertito.
«Vai, vai, non ti interrompo più»
«Tecnicamente possiamo fare a meno di respirare...»
«Voi...»
«No, no, hai detto che non mi interrompi più. Vuoi sentire la storia o no?»
«Non puoi buttare lì una notizia del genere e aspettarti che io non apra bocca, lo sai come funzionano le persone oppure no? Non dovete respirare?»
«Non siamo obbligati. È soltanto un'abitudine» si strinse nelle spalle
«Ma per quanto tempo puoi restare senza respirare, lo sai questo?»
«Anche per sempre, immagino. Non so. È leggermente fastidioso... non si sentono gli odori»
«Leggermente fastidioso» gli feci eco, ironica.
Non ero attenta alla mia espressione, ma qualcosa lo fece incupire. Comunque poteva essere qualunque cosa, Edward si incupiva pure se vedeva passare una farfalla un po' più scura della media delle farfalle della sua specie. Per un po' nessuno ruppe il silenzio. I tratti del suo volto erano immobili, pietrificati. Mamma quant'era brutto quando rimaneva così, cupo e pietrificato e troppo vicino a me.
«Che hai?» Sputai, allargando le braccia
«Continuo a temere che prima o poi accada»
«Che cosa, che muori per aver trattenuto troppo il respiro? Provaci, sarà divertente. Magari muori davvero»
«No. So che prima o poi qualcosa di ciò che dirò, o che vedrai, sarà troppo. E in quel momento fuggirai via da me strillando» abbozzò un mezzo sorriso, ma lo sguardo era serio «Non ti fermerò. Voglio che accada, perché solo così saresti finalmente al sicuro. Io voglio che tu sia al sicuro. Eppure, voglio ancora stare con te. Conciliare i due desideri è impossibile...» Lasciò cadere il discorso, fissandomi e aspettando.
Io alzai le mani e, strillando come un'aquila, iniziai a correre.




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 Aggiorneremo la storia su questo blog un pò più lentamente che su wattpad, quindi se avete la app di wattpad, oppure vi piace leggere direttamente da quel sito, continuate a leggere la storia da qui

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