sabato 5 maggio 2018

Sunset 41 - Il disegno di una stanza



Rientrai nella stanza. Alice era ancora immobile, come una statua di sale. Dietro di lei, sul divano, i cuscini sembravano osservarla, ma forse era solo che ero cotta di sonno e la mia mente inseguiva concetti inquietanti quanto folli.
Me ne tornai a letto. Sapevo che da sola, al buio, le paure terribili che incombevano ai margini della mia coscienza avrebbero potuto scatenarsi, ma ero troppo stanca per continuare ad andare in giro.
Ma Alice, come se si fosse stancata anche lei del salotto, mi seguì. Forse aveva ricevuto da Edward istruzioni precise che io ignoravo.
Mi sdraiai sul letto, lei si sedette al mio fianco, a gambe incrociate. Sulle prime semplicemente la ignorai, troppo stanca. Dopo qualche minuto, però, il panico cominciò a riaffiorare.
Alice era accanto a me e io avevo partecipato all'eliminazione del suo fidanzato. E se lei l'avesse visto? Se lei sapesse che cosa avevo fatto?
Rinunciai all'idea di addormentarmi in fretta e mi raggomitolai su me stessa.
«Alice?»
«Si?».
Cercavo di mantenere la voce calma, rilassata. Dovevo sembrare disinvolta.
«Secondo te che cosa stanno facendo?»
«Carlisle voleva attirare il segugio più a nord possibile, aspettare che si avvicinasse e poi tornare indietro a tendergli un'imboscata. Esme e Rosalie dovrebbero dirigersi a ovest, finché la femmina le segue. Se dovesse cambiare direzione, loro tornerebbero a Forks per tenere d'occhio tuo padre. Immagino che le cose stiano andando bene, se non possono telefonare. Significa che il segugio è molto vicino e non vogliono che li ascolti»
«Neanche Esme?»
«Penso che dovrà prima tornare a Forks. Non si azzarderebbe a chiamare, se rischiasse di farsi sentire dalla femmina. Di sicuro tutti agiscono con la massima attenzione».
Rimasi per un attimo in silenzio. Non tutti agivano con la massima attenzione... Jasper non l'aveva fatto, per esempio, e aveva cercato di uccidere un cantante in un albergo.
«Bella, non devi avere paura» Mi distrasse Alice «Quante volte devo ripeterti che non siamo in pericolo?»
«Se così non fosse, mi diresti la verità?»
«Si. Ti dirò sempre la verità».
Sembrava sincera, ma non potevo fidarmi di una succhiasangue.
«E allora dimmi... come si diventa vampiri?».
La mia domanda parve prenderla in contropiede. Volevo tirarle fuori informazioni utili per la nostra crociata anti-vampiri, cose da riferire alle ragazze lupo, e Alice mi era sembrata in vena di spifferare, ma forse mi ero sbagliata...
Mi rigirai nel letto per osservarla, la sua espressione era ambigua.
«Edward non vuole che te lo dica» Rispose con fermezza, ma qualcosa mi diceva che non era d'accordo
«Non è giusto. Credo di avere il diritto di saperlo»
«Lo so».
La guardai, impaziente.
Sospirò
«Si arrabbierà tantissimo»
«Non riguarda lui, Alice. Resterà tra me e te. Alice, te lo chiedo da amica, andiamo Alice...».
In qualche modo, lei parve credere che eravamo davvero amiche. Mi fissò con i suoi occhi dorati, grandi... inquieti.
«Ti spiegherò come funziona» Disse infine «Ma io non me lo ricordo, non l'ho mai fatto né visto fare, perciò tieni conto che è solo teoria».
Aspettavo che parlasse.
«In quanto predatori, disponiamo di un arsenale vastissimo, molto più ricco del necessario. La forza, la velocità, i sensi affinati, per non parlare di quelli come me, Edward o Jasper, che sfruttano sensi supplementari. E poi, come fiori di piante carnivore, le nostre prede ci trovano fisicamente attraenti».
Ridacchiai. Alice inclinò un poco la testa
«Perché ti fa ridere?» mi domandò
«Perché i fiori delle piante carnivore non sono fatti per attrarre la preda» spiegai «Le trappole delle piante carnivore sono formate da foglie modificate. Che siano trappole ad ascidio, adesive o a tagliola, non si tratta di fiori... ma vai pure avanti».
Lei scosse la testa, poi si illuminò di un sorriso ampio e inquietantemente
«E c'è anche un'altra arma che definirei superflua. Siamo anche velenosi» i suoi denti mandarono un bagliore, tipo cartone animato di vampiro «È un veleno che non uccide: mette soltanto fuori combattimento la vittima. Funziona lentamente, si diffonde attraverso il sangue in modo che la preda, sopraffatta da un dolore tanto intenso, non riesca a fuggire. Come ho detto, è un'arma quasi del tutto superflua. Se siamo così vicini, la preda non fa comunque in tempo a scappare. Ci sono le eccezioni, certo. Carlisle, per esempio...»
«Perciò...» dissi, con un brivido «...Se si lascia che il veleno si diffonda...»
«La trasformazione dura qualche giorno, a seconda di quanto veleno circola nel sangue e di quanto ne entra nel cuore. Il cuore pompa sangue e veleno che, entrando in circola, guarisce e trasmuta il corpo. Alla fine il cuore si ferma e la metamorfosi è completa. Ma in ogni singolo istante del mutamento, la vittima non desidera altro che morire».
Se prima ero ansiosa, adesso avevo proprio la nausea. "La vittima non desidera altro che morire". Certo, e alla fine moriva davvero, gli si fermava il cuore e diventava qualcos'altro, un mostro non-morto costretto a nutrirsi di sangue e a somigliare ad Edward Cullen.
«Edward mi ha detto che per voi è un'operazione molto delicata» Dissi, con un filo di voce «Puoi spiegarmi questo punto?»
«In un certo senso, somigliamo anche agli squali. Se sentiamo il sapore, o l'odore, del sangue, diventa molto difficile mettere a tacere l'istinto famelico. Talvolta è impossibile. Perciò mordere qualcuno, assaggiarne il sangue, scatena l'impulso. È difficile per entrambi: la sete di sangue da una parte, il dolore insopportabile dall'altra»
«Secondo te, perché non ricordi nulla?»
«Non lo so. Per gli altri, il dolore della trasformazione è il ricordo più acuto della loro vita da esseri umani. Io non ricordo nemmeno di esserlo stata». Si era intristita.
Mi chiesi se Alice era mai stata davvero umana oppure se era venuta fuori così com'era da qualche pozzo infernale.
Restammo in silenzio, ciascuna chiusa nei propri pensieri.
I secondi passarono ed ero talmente assorta da essermi dimenticata della presenza di Alice; stavo sprofondando lentamente nel sonno quando all'improvviso lei scese dal letto con un balzo leggero. Alzai la testa di scatto, sorpresa.
«È cambiato qualcosa» Sembrava impaziente e non parlava con me «Vedo una stanza. È lunga, ci sono specchi dappertutto. Il pavimento è di legno. Lui è nella stanza, in attesa. C'è dell'oro... una linea dorata sugli specchi»
«Dov'è la stanza?» domandai di getto, stritolando le coperte strette contro il petto
«Non lo so. Manca qualcosa... una decisione che non è stata ancora presa»
«Cosa?»
«Presto. Succederà presto, la decisione verrà presa. Arriverà nella stanza degli specchi oggi o forse domani. Dipende. Sta aspettando qualcosa. Adesso è al buio. C'è troppo buio, non riesco a vedere...»
«E la stanza degli specchi?»
«Ci sono solo gli specchi e l'oro. È una linea che corre per tutta la stanza. Ci sono un tavolo nero, con sopra un grosso impianto stereo e un televisore. Qui lui tocca il videoregistratore, ma non lo guarda come nella stanza buia. Questa è la stanza in cui aspetta».
Fissò il vuoto, il volto fermo e morto e terrificante.
«Che significa?» Chiesi.
Alice si girò e mi fissò dritta negli occhi
«Significa che i piani del segugio sono cambiati. Ha preso una decisione che lo porterà alla stanza degli specchi e alla stanza buia»
«Ma non possiamo sapere dove sono queste stanze?»
«No»
«Però sappiamo che non riusciranno a spingerlo sulle montagne a nord dello stato di Washington. Riuscirà a sfuggirgli».
La voce di Alice era cupa.
«È il caso di chiamarli?» Chiesi.
Poi il telefono squillò. Prima ancora che potessi alzare gli occhi, Alice era dall'altra parte della stanza. Schiacciò un tasto e avvicinò il cellulare all'orecchio, ma non fu lei a parlare per prima.
«Carlisle» Disse poi in un fiato.
Non sembrava sorpresa come invece ero io.
«Si» Disse lei, lanciandomi un'occhiata. Per qualche lunghissimo istante rimase in ascolto «Mi è apparso poco fa» Descrisse di nuovo la sua visione «Qualunque motivo l'abbia spinto a prendere quell'aereo... lo porterà a quelle stanze».
Fece un pausa.
«Si» Disse al telefono, poi si rivolse a me «Bella?».
Mi portò il cellulare e me lo fece cadere in mano.
«Pronto?»
«Belarda»
«Edward?» la sua voce mi diede come una frustata di adrenalina, ma sapevo che sarebbe durata troppo poco «Maledetto viscido figlio di un rospo bubboloso!»
«Bella» sospirò lui, amorevolmente
«Che vuoi?»
«Sono appena fuori Vancouver. Bella, mi dispiace: l'abbiamo perso. Si muove con prudenza, riesce sempre a starci lontano quel tanto che basta perché mi sia impossibile sentire ciò che pensa. Ma adesso è sparito, sembra che abbia preso un aereo. Probabilmente tornerà a Forks per ricominciare la caccia da capo»
«Lo so. Alice l'ha visto altrove»
«Tu però non devi preoccuparti. Non troverà niente che lo porti a te. Devi soltanto restare lì e aspettare che lo ritroviamo»
«D'accordo. Esme è con mio padre?»
«Si. La femmina è tornata in città. È passata da casa tua, ma Carlo era al lavoro. Non gli si è avvicinata, perciò non preoccuparti. È al sicuro, guardato a vista da Esme e Rosalie»
«E lei cosa fa?»
«Probabilmente sta cercando la scia giusta. Stanotte ha battuto la città intera. Rosalie l'ha seguita in aeroporto, lungo le strade della periferia, a scuola... Sta scavando Bella, ma non troverà niente»
«E tu sei certo che mio padre sia al sicuro?»
«Si, Esme non lo perde di vista. E presto la raggiungeremo anche noi. Se il segugio si avvicina a Forks, lo prenderemo»
«Sei un idiota che ci ha messi tutti in pericolo» sussurrai, sentendo le lacrime affiorarmi agli angoli degli occhi
«Lo so, Bella. Credimi, lo so»
«E allora metti le cose a posto. È il minimo che puoi fare»
«Presto. Il più presto possibile. Prima ti salverò»
«Ti odio»
«Ci credi se ti dico che, malgrado tutto quello che ti sto facendo subire, io invece ti amo?»
«So già che sei pazzo, Edward»
«Verrò a prenderti presto».
Non appena riattaccò, una nuvola di depressione si addensò sulla mia testa. Era come se tutto il mondo fosse buio e orribile e avevo tutti i peli degli avambracci ritti, i muscoli della schiena tesi, e nonostante il sonno sapevo che avrei dormito malissimo, se solo fossi riuscita ad addormentarmi.
Mi voltai per restituire il telefono ad Alice e la trovai seduta al tavolo, intenta a disegnare su un foglio di carta intestata dell'albergo. Mi alzai e in punta di piedi sbirciai da dietro le sue spalle.
Stava disegnando una stanza: lunga, rettangolare, con una sezione quadrata più stretta in fondo. Le assi del parquet correvano parallele al lato più lungo. Sulle pareti, una serie di linee dritte marcava i contorni degli specchi. E poi, a un'altezza che poteva arrivare ai fianchi di una persona, la linea. La linea che secondo Alice era dorata.
«È una scuola di danza» Dissi, riconoscendo all'istante le forme familiari.
Alice mi guardò sorpresa.
«Hai già visto questa stanza?».
Alice stava a capo chino sulla sua opera, e la mano volava sul foglio a tratteggiare i contorni di un'uscita di sicurezza in fondo alla sala, poi lo stereo e il televisore sopra il tavolino, nell'angolo a destra dell'entrata.

Ero assolutamente impressionata dalle sua abilità di disegno: avrei dato il mignolo del piede sinistro per poter avere una mano così precisa.
«Sembra il posto in cui andavo a prendere lezioni di danza a otto o nove anni. Aveva la stessa forma» Spiegai, sfiorando la pagina all'altezza della sezione quadrata e più stretta, in fondo alla stanza «Qui c'era il bagno... per entrare si passava dall'altra sala. Ma lo stereo era qui» indicai l'angolo sinistro «Era più vecchio e non c'era il televisore. In sala d'attesa c'era una finestra: da lì si poteva vedere la stanza, dalla stessa prospettiva che hai disegnato tu».
Alice mi fissò incredula
«Sei sicura che sia la stessa stanza?» fece, caricando il suono di tutte le parole
«No, niente affatto: immagino che la maggior parte delle scuola di danza siano così, con gli specchi e la sbarra» seguii con il dito la linea che incrociava gli specchi «È soltanto la forma a sembrarmi familiare» indicai la porta, che si trovava esattamente dove ricordavo
«Avresti qualche motivo per andarci adesso?» chiese Alice, interrompendo il mio tentativo di ricordare più dettagli in mezzo a quel guazzabuglio di ansia e dolore ronzante che era ormai il mio cervello
«No, non ci entro da quasi dieci anni. Ero una ballerina tremenda... nei saggi di fine anno mi mettevano sempre in ultima fila»
«Perciò è impossibile che questa stanza possa portare a te?» chiese Alice, assorta
«Probabilmente ha anche cambiato proprietario. Di sicuro è un'altra stanza, altrove»
«E la scuola di ballo che frequentavi tu?»
«Era a due passi da casa di mia madre. Ci andavo a piedi, dopo la scuola...» dissi, senza terminare la frase che avevo in mente.
Lo sguardo che Alice mi lanciò era inequivocabile: aveva capito qualcosa che forse avevo capito anche io.
«Qui a Phoenix?» Chiese, in tono calmo
«Si» dissi in un sussurro «Tra la Cactus e la Cinquantottesima».
Restammo in silenzio, con gli occhi fissi sul disegno.
Quell'idiota di un segugio vampiro pensava che sarebbe riuscito a convincermi a fare qualche pazzia minacciando mia madre. Non dico che lei dovesse morire, ma era molto difficile che avrei perso la lucidità solo perché qualcuno la minacciava... anche se in effetti, la lucidità l'avevo ormai persa da tempo.
«Alice, quel telefono è sicuro?» Domandai
«Si. È un numero del distretto di Washington»
«Allora posso usarlo per telefonare a mia madre»
«Pensavo che fosse in Florida...»
«Si, infatti, però tornerà presto e non è che è proprio bellissimo se viene rapita da qualcuno che si nasconde nella scuola di ballo...».
Stavo pensando a quello che aveva detto Edward della vampira dai capelli rossi: che era stata a casa di Carlo e a scuola, dove erano custoditi i miei dati.
«Come farai a raggiungerla?»
«Non hanno un numero fisso, a parte quello di casa: lei controlla la segreteria regolarmente».
Afferrai il telefono con calma e composi uno dei pochissimi numeri telefonici che conoscevo, seppur stentatamente, a memoria. Al quarto squillo, la voce di mia madre chiedeva di lasciare un messaggio.
«Senti, sono io. Ascolta, ho bisogno di un grosso favore e no, non è uno scherzo. Appena senti il messaggio chiamami a questo numero» Alice scattò al mio fianco e scrisse il numero in fondo al disegno. Lo lessi ad alta voce con cura, due volte.
«Ti prego, non andare da nessuna parte» Continuai «Finché non mi avrai richiamato. Non preoccuparti, sto bene, ma devo parlare con te quanto prima, a qualsiasi ora ascolti la registrazione, d'accordo? Ciao».
Chiusi gli occhi e pregai che nessun imprevisto la costringesse a tornare a casa prima di ascoltare la segreteria.
Mi lasciai cadere sul divano e presi a mangiucchiare quel che era rimasto di un vassoio di frutta. Pensai di chiamare anche mio padre, ma non ero sicura che fosse già a casa. Mi concentrai sui telegiornali, in cerca di servizi sulla Florida, sugli allenamenti precampionato, ma anche su scioperi, uragani o attacchi terroristici, su qualsiasi cosa che avrebbe potuto costringerli a tornare in anticipo.
Non ero preoccupata, a dire il vero, tanto per mia madre quanto per Phil... quel povero ragazzo non meritava di essere coinvolto in questa storia di vampiri e morte più di quanto non lo meritassi io.
Per un po' Alice tratteggio la stanza buia come l'aveva vista, per quel che le permetteva la luce fioca del televisore. Quando finì, si sedette a osservare il muro spoglio, con i suoi occhi senza tempo.
Io stavo prendendo finalmente ad assopirmi quando Alice parlò ad alta voce.
«Ma dov'è Jasper?»
«Non lo so» bofonchiai, così convincente da sorprendere persino me stessa.
Ma in fondo non sapevo davvero dov'era... o almeno, dove fossero le sue ceneri. Probabilmente era stato buttato da qualche parte.
«Bella, ho bisogno di trovare Jasper adesso»
«Non riesci a vederlo nel futuro?» mi coprii gli occhi con una mano, sperando che se ne andasse
«No, non ci riesco, per qualche motivo quando mi concentro su di lui vedo solo il buio» dal suo tono trapelarono note di agitazione «Non mi era mai successo. Sono sempre stata in grado di vedere Jasper»
«Beh, non sono cavoli miei» bofonchiai, rigirandomi a faccia in giù.
Finalmente crollai, stanchissima: qualunque cosa avesse fatto Alice durante la notte non mi riguardava. 




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