domenica 20 maggio 2018

Sunset 49 - Provando a tornare alla normalità



Ci richiudemmo la porta alle spalle con un click metallico e l'infermiera che ci aveva accompagnate si allontanò in silenzio.
La luce della camera era bianca, abbagliante, e anche le mura erano dipinte di bianco e asettiche. La parete di fondo era occupata da lunghe veneziane a stecche.
La mia amica Sarah era sistemata su un letto duro e irregolare, uno di quelli con le sbarre. I cuscini erano piatti e bitorzoluti. Da qualche parte in mezzo al mucchio di apparecchi scuri che le stavano accanto proveniva un fastidioso e continuo bip.
Le belle mani della mia amica erano coperte di tubicini trasparenti e una cannula per respirare le passava sotto il naso. I suoi lunghi capelli neri erano ordinatamente adagiati su uno di quei piatti, bitorzoluti cuscini che avevano l'aria scomodissima.
Mi venne un groppo in gola.
Ero entrata nella stanza insieme a Ayita, che mi aveva chiamata il prima possibile per informarmi sulle condizioni di Sarah. «È in coma» Aveva detto e io mi ero sentita sollevata, perché non era morta, ma anche terribilmente angosciata.
E adesso ero nella stanza e la vedevo, pallida e distesa, incosciente.
«Cosa è successo?» Mi chiese Ayita «Quale vampiro l'ha ridotta così?»
«Non... non lo sai?»
«Che cosa?» gli occhi della ragazza-lupo dardeggiarono «C'è qualcosa che devo sapere?»
«Si» annuii «L'orso. È stato un orso a ridurla così»
«Non è possibile» rispose lei, tranquillamente.
Ayita trasportò due sedie, che erano in un angolo della stanza, accanto al letto e mi fece segno di accomodarmi. Obbedii, ovviamente. Lei mi guardava con serietà e quasi mi spaventava.
«Gli orsi» Mi spiegò «Sono animali gentili. Non attaccano se non sono costretti e in particolar modo se non hanno i piccoli e non attaccherebbero mai una di noi, siamo più forti»
«Lo so» annuii, deglutendo per inumidirmi la gola asciutta «Ma quello non era un orso normale. Era un orso vampiro».
Ayita battè le palpebre, sorpresa e preoccupata.
«Un orso vampiro, dici?»
«Si» annuii di nuovo «Un orso vampiro. Jasper l'ha trasformato per sbaglio»
«E ora quel mostro è in giro per la nostra foresta?»
«Si»
«Potrebbe arrivare fino alla riserva. Oppure spostarsi e attaccare una città. Dobbiamo fermarlo»
«Guarda come ha ridotto Sarah!» esclamai, con apprensione «Non è qualcosa che potete...»
«Lo distruggeremo» mi interruppe lei «Sarah è una sola, noi siamo un branco»
«Ma voi non lo avete visto» sentii gli occhi che mi si inumidivano «Non lo avete visto... ti prego, ascoltami, quell'orso è la cosa più orribile che abbia mai visto in tutta la mia vita. Non è come un vampiro normale»
«Lo immagino. Ma dobbiamo distruggerlo, è il nostro compito, o non saremmo le protettrici della tribù»
«Capisco».
Mi asciugai gli occhi con il dorso della mano. Sarah aveva quasi perso la vita nello scontro con l'orso, mentre io ero semplicemente stata molto fortunata. L'idea che quel coso grosso, veloce e rabbioso si aggirasse impunito per i boschi mi dava i brividi.
«Non piangere, Belarda» Mi disse Ayita, dolcemente
«Non sto piangendo» risposi, sincera «Sono solo molto nervosa. Non è facile pensare che ora dobbiate affrontare l'orso»
«È così spaventoso?»
«Si»
«Non dovrai mai più avere paura, Belarda. Noi esistiamo ad uno scopo ben preciso: proteggere gli esseri umani. Qualunque cosa sembri uscita da un incubo, noi possiamo sconfiggerla. Ma il branco è la nostra forza, per questo Sarah da sola non ce l'ha fatta»
«Lo so» tirai fu con il naso «Ma non posso smettere di avere paura»
«Smetterai, quando lo avremo distrutto. Siamo lupi, i cani da guardia degli dei. Nessuno può sconfiggerci».
Rimanemmo in silenzio. Mi tormentavo le mani, lanciando di quando in quando occhiate a Sarah.
«Lo sai che abbiamo ucciso Emmett?» Domandò Ayita, con un tono improvvisamente più leggero
«Sul serio?» alzai la testa «Quando?»
«Subito dopo che gli hai bruciato l'orecchio, quando abbiamo cercato di salvarti. A proposito, ci dispiace tantissimo di non esserci riuscite, abbiamo davvero fatto il possibile, ma...»
«Non fa niente, non fa niente!» mi affrettai a dire «Mi dispiace solo per Sarah! Siete state tutte fantastiche e...»
«Avremmo dovuto salvarti. Ma siamo contente che alla fine tu ti sia salvata da sola».
Le avevo già raccontato della mia idea geniale di fare scontrare il Segugio con Edward senza venirne coinvolta e lei era stata sollevata e fiera di me. Anche io mi sentivo fiera.
«Quindi Emmett e Jasper sono morti» Dissi, contenta «Un bel sollievo. Jasper poteva modificare l'umore delle persone, era davvero il peggiore di loro. Ed Emmett invece era un cafone»
«Jasper è morto?» Ayita aggrottò le sopracciglia «Come è successo?»
«Lo ha ucciso Undertaker, sai, il wrestler, quando eravamo in albergo a Phoenix».
Mi aspettavo un'espressione di pura incredulità sul suo volto, di doverle spiegare qualcosa di più sul conto del mio wrestler preferito, o anche solo ulteriori notizie, ma lei si limitò a sorridere ed annuire con l'espressione di qualcuno che si aspettava una cosa del genere.
«Lo conosci?» Chiesi, inclinando un po' la testa nel tentativo di leggerle meglio il volto
«Si» rispose «Ovviamente. Chi non lo conosce?»
«No, intendo di persona».
Lei rise piano, senza scomporsi, di un riso sincero che si propagava fino agli scuri occhi scintillanti.
«Belarda» Mi disse «Ci sono cose incredibili sotto questo cielo, sopra questa terra. Se frequenterai il branco le conoscerai tutte e non le temerai più. Undertaker è una di queste cose»
«Conosce il branco?»
«Di più: conosce tutti i branchi»
«È come voi?» abbassai la voce «Un licantropo?»
«Non che io sappia. Noi licantropi non invecchiamo, finché continuiamo a trasformarci, mentre lui è invecchiato»
«Ah» ridacchiai fra me «In effetti il fatto che invecchi mi avrebbe dovuto suggerire che Edward mentiva e che non poteva essere un vampiro»
«Uno dei succhiasangue ti ha detto che Taker è un vampiro?» Ayita serrò i pugni contro le cosce, come se avesse sentito un'offesa orribile e dovesse trattenersi dal non picchiare qualcuno «Perché? E che senso avrebbe?»
«Non lo so. Edward Cullen mi ha detto che è un vampiro antico, con il potere di controllare la mente delle persone»
«Certo che no» sibilò lei fra i denti «Non è un maledetto freddo e non lo sarà mai. È uno dei nostri»
«Ora lo so» mi strinsi nelle spalle «Altrimenti non vedo perché abbia dovuto aiutarmi, uccidendo Jasper»
«Perché non ha fatto fuori anche l'altra succhiasangue che era con te, questo mi chiedo io. Avrebbe potuto finire il lavoro. Ma forse in effetti non poteva» Ayita si passò una mano sulla faccia «Non possiamo giudicare il suo operato. Almeno ha distrutto Jasper, quello pericoloso»
«Quindi non è un licantropo?» chiesi ancora
«No, non credo, te l'ho detto. Ma neanche un vampiro»
«E... cos'è?»
«Noi non ne parliamo fuori dalla riserva. E non ne parliamo con gli estranei. Dovrai passare un bel po' di tempo con noi se vuoi che te lo riveliamo»
«Dì la verità, è solo perché vuoi che io giochi ancora con voi a Dungeons & Dragons»
«Beh, ci manca un giocatore...».
Lo sguardo di entrambe si spostò istintivamente sulla ragazza che occupava il letto. Il bip tracciato dal suo cuore pigolava nel silenzio della stanza.
«Il fatto che è... un licantropo...» Dissi a voce molto bassa, e Ayita si voltò a guardarmi con i suoi occhi scuri ed intelligenti «... Può aiutarla?». Accennai con una mossetta delle dita verso la mia amica sdraiata. Oddio, sentivo di nuovo gli occhi pungere. Però Ayita era dello stesso branco di Sarah ed era incredibilmente stoica, silenziosa: avevo l'orribile e probabilmente irrazionale sensazione di non avere il diritto di piangere per Sarah.
Le labbra della ragazza-lupo si stiracchiarono in un sorrisetto e mi cinse le spalle con un braccio delicatamente.
«Si» Disse «Non posso rispondere con certezza, ma sono convinta che Sarah se la caverà. Per tutte noi il fatto che sia successo questo ad una del branco è un incubo» e guardò l'amica addormentata con un'intensità tale che per una attimo pensai che sarebbe bastato a risvegliarla «Ma Sarah è fatta per sconfiggere gli incubi. Tornerà da noi».
Mi accoccolai contro di lei e lei mi lasciò fare. Ero convinta che, anche se apparentemente era Ayita a consolarmi, quel contatto aiutò lei quanto me ad ancorarsi un po' di più.
Riuscivo a sentire una voce di donna fuori dalla stanza. Stava parlando con qualcuno, forse un'infermiera, e sembrava stanca e fuori di sé.
Provai l'impulso di staccarmi di Ayita: la donna sembrava così disperata che volevo andare da lei per calmarla e giurarle che andava tutto bene. Però non andava tutto bene. Rimasi al mio posto.
La porta si aprì appena e lei sbirciò nella stanza.
«Ayita?» Sibilò. Era una donna matura, decisamente più bassa sia di Ayita che di Sarah, ma la somiglianza alla ragazza nel letto era evidente negli occhi e la pelle scuri, i capelli liscissimi anche se ormai brizzolati. Era vestita con sobrietà e lo sguardo di Ayita si riempì di una sorta di affetto malinconico nel vederla.
«Theresa» Ricambiò la ragazza-lupo, educatamente.
La donna si avvicinò al letto in punta di piedi, osservando la ragazza addormentata. Prese tra le sue una delle mani immobili di Sarah, accarezzandone il dorso con il pollice.
Nella mia limitata visione di insieme, avevo dimenticato completamente, anzi non avevo neppure preso in considerazione, il fatto che Sarah avesse una famiglia. Che avesse una madre.
Mi alzai in piedi
«Ayita» mormorai «Devo andarmene»
«Capisco» lei annuì «Vai. Ci risentiamo presto»
«Ci risentiamo prestissimo» feci un cenno con la testa in direzione della signora «Salve, signora. Con permesso, io vado. Mi auguro che presto Sarah stia meglio, davvero»
«Tu devi essere Belarda» disse d'improvviso Theresa, allungando una mano per artigliarmi una spalla.
Aveva una presa sorprendentemente solida. Come sua figlia.
«Si, sono io» Risposi, intimidita e ancora sull'orlo delle lacrime
«Sarah mi parla sempre di te, sempre» la sua voce era piena di una dolcezza e di una disperazione che non migliorarono certamente il mio stato d'animo «Sei una ragazza intelligente»
«Grazie, signora» quasi singhiozzai
«Dove vai?»
«Io... a casa...»
«Vai piano, mi raccomando»
«Buona giornata, signora».
Era chiaro che mi lasciava andare di controvoglia. Uscii dalla stanza più rapidamente che potevo senza sembrare scortese. Un paio di vecchietti in sedia a rotelle, di cui uno con la testa fasciata da candide bende, mi guardarono malissimo.
«C'è qualcosa che posso fare per voi, signori?» Domandai, incrociando lo sguardo di quello con le bende
«No» rispose lui, con voce roca da vecchio fumatore «Non puoi fare niente, ragazzina»
«Allora buongiorno».
Mi allontanai quasi correndo. Volevo essere fuori da lì prima possibile.
Mentre quasi-correvo abbassai lo sguardo e vidi che avevo una scarpa slacciata. Non ebbi neanche il tempo di pensare "toh, ho una scarpa slacciata, aspetta che mi abbasso e la riallaccio, che inciampai sulle mie stesse stringhe e finii lunga distesa sul pavimento dell'atrio.
«Ti sei fatta male?» Domandò apprensiva un'infermiera che stava spingendo un carrellino.
Certo che mi ero fatta male, che cosa voleva che mi fossi fatta, bene? Tuttavia, non appena fui in grado di respirare di nuovo, visto che l'impatto mi aveva svuotato tutti i polmoni di ossigeno e paralizzata momentaneamente, le risposi «No, va tutto bene».
L'infermiera si allontanò, continuando a spingere il carrellino.
Sentii, molto dietro di me, i due vecchietti in sedia a rotelle che ridacchiavano con le loro voci tabaccose.
Non appena fui nel parcheggio, cercai freneticamente con lo sguardo il mio Chevy rosso: avevo dimenticato dove lo avevo parcheggiato. Ed eccolo lì, incassato fra due lunghe automobili nere che sembravano vagamente dei carri funebri.
Fu solo quando fui all'interno del suo accogliente abitacolo che sapeva di menta e croccantini per gatti che mi permisi di piangere. Appoggiai la testa al volante e presi a singhiozzare, con i pugni stretti intorno allo sterzo con forza.
Piansi perché avevo paura che l'orso vampiro uccidesse le mie amiche, piansi perché una di loro era confinata in un letto d'ospedale e sua madre forse neppure sapeva perché. Piansi perché avevo accumulato così tanta rabbia e così tanto dolore, nell'ultima settimana, che se non le avessi fatte uscire con le lacrime mi avrebbero fatta bruciare. E infine piansi perché era bellissimo essere viva e ancora intera, un miracolo dopo aver affrontato i peggiori incubi che un essere umano possa toccare con le sue mani.
Quando ebbi finito rialzai la testa e vidi un'ambulanza rientrare nel suo garage. Presi un profondo respiro, misi in moto il pick-up e ripartii.
A casa mi aspettava Dracula. E il nostro nuovo gatto, Lillo.
Ovviamente avevamo un nuovo gatto, altrimenti come avrei fatto credere a papà che ero stata lontana da casa a salvare micetti (e non rapita dai Cullen) per due giorni?
Durante il nostro viaggio di ritorno da Phoenix, io e Mike ci eravamo fermati ad un rifugio per animali e avevamo adottato un gattino malandato di quattro mesi, con tre piedi e un orecchio solo, di nome "Lucky".
Quando lo avevo portato a casa, papà aveva gli occhioni lucidi e lo aveva accolto dicendogli
«Non preoccuparti di niente, Lillo, adesso sei con papà».
Se Dracula era il mio gatto, era ovvio che quello dell'ispettore capo Cigna era Lillo, il tripode mono-orecchia.
Quando rientrai, udii entrambi i nostri felini che miagolavano disperatamente. Spaventata dall'idea che fossero arrivati dei vampiri, corsi in cucina e vidi... papà che teneva la ciotola sollevata da terra per farsi implorare a squarciagola da entrambi i gatti.
«Papà!» Esclamai «Dagli le crocche!»
«Oh, ciao Belarda» Carlo mi guardò con un sorrisetto imbarazzato «Già di ritorno?»
«Certo, sono qua. Dai, dagli da mangiare».
Papà posò a terra la ciotola e i due gatti ci si fiondarono sopra. Non avevano avuto alcun problema ad abituarsi immediatamente l'uno all'altro, anzi, già mangiavano nella stessa ciotola e avrebbero anche dormito nello stesso letto se papà non avesse insistito così tanto nel far dormire Lillo con lui.
Se Dracula era nero come la pece e con zanne da far invidia ad un piccolo vampiro, Lillo era bianco come neve, eccetto per una macchia arancione che spiccava sull'unico orecchio che aveva.
La volontaria al gattile ci aveva spiegato che era una fortuna che Lillo avesse una macchia proprio lì, perché altrimenti c'era la seria possibilità che, data la forte depigmentazione, sarebbe potuto essere sordo. E tripode, mono-orecchia e pure sordo sarebbe stata una brutta combinazione.
«Allora» Disse Carlo, mettendosi le mani sui fianchi «Come sta la tua amica di La Push?»
«Non si è ancora svegliata» dissi, passandomi una mano sulla fronte
«Mi dispiace» commentò, sincero «Spero che vada tutto bene»
«Non preoccuparti, si sveglierà. Te lo prometto»
«Guarda che non devi rassicurarmi. È la tua amica»
«Infatti stavo parlando con me stessa»
«Ah. Non si capiva».
Lillo miagolò e si strusciò contro la mia caviglia, poi tornò a mangiare. Era un buon segno.

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