martedì 15 maggio 2018

Sunset 46 - Belarda la burattinaia




Ricordai che non c'era bisogno di avere paura. La casa era vuota.

Corsi verso la porta e con un movimento automatico cercai subito la chiave sotto la grondaia. Feci scattare la serratura e aprii. L'interno della casa era buio, vuoto, normale. C'era un vago odore di deodorante e di profumo da donna.

Con calma arrivai fino in cucina, con l'idea di prendermi uno snack, e vidi con la coda dell'occhio il telefono.

Il telefono, fatto di plastica rossa e grigia, con il ricevitore tutto graffiato per quante volte mamma l'aveva fatto cadere per sbaglio. Non avrebbe dovuto interessarmi, né ricordarmi niente di spiacevole. Ma di lato all'apparecchio, su una lavagnetta, c'era un numero di dieci cifre scritto con una grafia minuta e precisa che non avevo mai visto prima. Il vampiro segugio mi aveva detto di telefonargli, mi chiesi se fosse il caso di...

No. Non dovevo pensare ai vampiri, dovevo stare lontana da loro. Deglutii. Allungai una mano verso il ricevitore del telefono.

Ero masochista? Perché ero attirata dall'idea di risentire la voce di quell'idiota? Forse perché la mia messa in scena sarebbe stata più credibile se avessi finto di stare al suo gioco. Anche se era un gioco pericoloso.

Dovevo ritirarmi, smettere di giocare: ero solo un'umana esausta con una parrucca rosa, semplicemente non potevo vincere contro i mostri.

Mi tremava la mano, ma quelle dita tremanti riuscirono a digitare le dieci cifre. Dovevo essere impazzita. Completamente fuori di testa. Faticavo a tenere la cornetta salda vicino all'orecchio. Squillò una volta sola.

«Ciao, Bella» Rispose la voce, affabile «Che velocità. Complimenti. Sapevo che quella messa in scena era solo per liberarti dei tuoi guardiani, complimenti».

Lui credeva che io avessi finto di smascherare il suo piano perché Alice e Jasper mi lasciassero andare. Invece il suo piano lo avevo smascherato per davvero. Ero ancora in gioco.

Ancora in gioco. Sorrisi.

«Mia madre sta bene?» Domandai, fingendomi preoccupata per lei

«Benissimo. Non preoccuparti, Bella. Non m'interessa lei. A meno che non ci sia qualcuno ad accompagnarti, ovviamente».

Frivolo, ironico. Decisamente più stupido di me.

«Sono sola». Non ero mai stata così sola in vita mia.

«Molto bene. Dunque, sai dov'è la scuola di danza, vicino a casa di tua madre?»

«Si, ci so arrivare»

«Bene. A presto, allora».

Riattaccai. Adesso sapevo esattamente come fare a batterli tutti al loro gioco, a distruggerli facendoli scontrare gli uni contro gli altri.

Mi infilai la mano in tasca e afferrai la strisciolina di carta con il numero di Edward che mi ero appuntata in albergo: sapevo che mi sarebbe servito. Lo composi con il telefono.

La voce di capelli-pazzi mi rispose dopo neanche mezzo squillo: i vampiri erano tutti fulmini a rispondere al telefono.

«Pronto, chi è?»

«Sono Belarda» dissi, cercando di sembrare spaventata e di non ridere come una regina del male pazza invasata. Incredibilmente, riuscii a darmi un tono contenuto «Ho paura»

«Dove sei? Alice mi ha chiamato! Mi ha detto che sei scappata, che vuoi consegnarti al segugio! Non farlo! Non farlo, Bella, non ne vale la pena!»

«Per mia madre? Non ne vale la pena?» finsi di stare per mettermi a piangere «Non capisci, Edward!»

«Si che ti capisco, Bella, ti capisco perfettamente, ma capisci cosa provo io?!» lui urlò, quasi assordandomi da un orecchio

«Edward, ti ho chiamato per dirti...» singhiozzai per finta, in modo poco convincente «... Ha ucciso mia madre»

«COSA? Bella, io...»

«Non sono arrivata per salvarla» finsi ancora di singhiozzare, più volte, e sbattei un po' il ricevitore contro il ripiano della cucina, per dare un effetto tormentato generico alla conversazione

«Bella! Bella? Che succede, Bella? Dove sei? Ti ha presa? BELLA?!»

«Edward» tirai su con il naso «So dov'è lui»

«Il segugio?»

«Si. Sono con lui. Alla scuola di danza, all'angolo che incrocia con la Cactus. Ti prego, ti prego, vieni a salvarmi, Edward»

«Sto arrivando, resisti, ti prego Bella. Resisti».

Probabilmente, prima di riattaccare, aveva iniziato a piangere, lo sentivo dal suo tono di voce. Non si era chiesto come mai il segugio mi avesse lasciata telefonare a lui, visto che ero suo ostaggio, e se era una trappola o meno: a lui non importavano queste cose, doveva solo fare il cavaliere in armatura scintillante. Sbadigliai.

Salii al piano di sopra. Era arrivato il momento di farsi una bella doccia e poi una lunga dormita rilassante, mentre i vampiri si scannavano fra di loro per me.

Potevano essere veloci, forti, "immortali". Ma rimanevano un branco di idioti capaci di farsi gabbare da una singola studentessa stanca morta e senza risorse.

A modo suo, l'ambiente familiare mi aiutò nel mio proposito di rilassarmi. Non sentii neanche il bisogno di darmi un'occhiata in giro, era semplicemente come se fossi rientrata a casa dopo una giornata scolastica maledettamente pesante. Vuota com'era, senza gli strilli di mia madre o la perfezione immonda dei vampiri in agguato, era diventata per me un santuario, un simbolo di protezione.

Io e mamma avevamo quasi le stesse taglie, e anche se non condividevamo affatto i nostri gusti nell'abbigliamento, mi sentivo rigida, stanca e sudata nei miei vestiti attuali. Mettersi vestiti soffici e profumati di detersivo, questo era quello che volevo adesso dalla vita: così non mi feci scrupoli nel prelevare una maglietta bianca con su scritto "PARTY" in nero e con un Martini con olivetta al posto della Y (una delle cose più sobrie dell'armadio) e un paio di jeans a vita alta.

Li trasportai con me, togliendomi le scarpe e poggiandoli sul pavimento fresco.

«Sono a casa» Borbottai alla porta del bagno, spingendo verso il basso la maniglia.

Scivolai nell'abitudine quasi meccanicamente, dolcemente, senza bisogno di pensare. Il bagno era assolutamente identico a come lo ricordavo, salvo che mamma e Phil avevano cambiato gli spazzolini. Il rituale era lo stesso.

Piegai i vestiti che avevo scelto sulla lavatrice con cura, e accanto a loro impilai i vestiti sporchi di cui mi ero appena liberata. Regolai temperatura e getto della doccia e ci traballai dentro, stiracchiandomi e sentendomi immediatamente sollevata sotto la piacevole pressione sulla mia pelle.

Mi lavai con perizia, felice di sentirmi più pulita e più rilassata. Non resistetti alle boccette colorate allineate dentro la doccia e allungai le mie manine avide: abbondai di bagnoschiuma profumato, cospargendomi di quello che sapeva di caramella alle fragole (anche se non vi era segnata su nessuna essenza in particolare), quello all'olio di Argan e mi cosparsi le manine avide di quello alla felce preferito da Phil.

Mamma ed io usavamo lo stesso shampoo alla fragola visto che negli anni ero sempre stata io a badare alle cose da adulta, come fare la spesa e cucinare cose commestibili, e mamma aveva semplicemente accettato di lasciarmi ogni sua responsabilità.

Mi avvolsi nella coccola dell'asciugamano di riserva, che mamma teneva dentro lo stipetto bianco sotto il lavandino proprio come ricordavo. Ah, paradiso. Ciabattai in salotto tutta profumata e senza ancora prendermi il disturbo di cambiarmi, avvolta nell'asciugamano bianco e con il brutto libro sottobraccio, mi abbandonai mollemente sul divano color crema.

Girai il libro misterioso a faccia in giù, sconfiggendo momentaneamente la donna mostro.

Chiusi gli occhi, godendomi il silenzio della casa. Incredibile. Tutto questo ero incredibile, dopo gli ultimi folli giorni – mi sembravano anni – di tortura.

Mi chiesi se, una volta che tutto questo fosse finito, avrei avuto bisogno di vedere uno psicoterapeuta. Avrebbe fatto bene ad essere uno bravo.

Il ronzio sommesso del frigorifero mi stava cullando, ma anche se ero rilassata avevo l'irrazionale sensazione che se mi fossi addormentata subito le cose non sarebbero andate come volevo io.

Ritrovai il telecomando, sistemato dentro il centrotavola del tavolino di vetro tra il televisore ed il divano (un'abitudine di mia madre che non avevo mai compreso appieno, ficcare il telecomando nei centrotavola o sotto i cuscini del divano) ed accesi la tv.

Apparve la faccia di una giornalista bionda e serissima, e in un'occhiata sola vidi sulle scritte in sovrimpressione le parole "omicidio", "violento" e "attentato". No, niente angoscia, grazie.

I telegiornali erano l'ultima cosa che volevo vedere adesso.

Feci zapping alla ricerca di qualcosa di più innocuo – quanto sarebbe stato bello avere Dracula accucciato sulle mie gambe adesso, il suo piccolo peso confortante e caldo su di me, passare le dita sulla sua pelliccia corta e serica – e pian piano scivolai nell'oscurità accompagnata dalle vocine di un cartone animato su una band jazz in addestramento. Non ebbi il tempo di sentire neppure una canzone.

E mi addormentai. 



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